Ventenni e trentenni: che educazione hanno avuto?

Intervista alla psicoterapeuta Stefania Andreoli, autrice di un nuovo saggio sui giovani che diventano protagonisti delle proprie vite: «Da tre, quattro anni a questa parte li ho visti arrivare in massa nel mio studio. Tutti con le stesse istanze, le stesse domande».

Ventenni e trentenni: che educazione hanno avuto?
di Chiara Maffioletti
(pubblicato su corriere.it/sette il 24 marzo 2023)

Questo articolo – pubblicato sul numero di Sette in edicola il 24 marzo 2023 – fa parte dell’inchiesta di Sette sul malessere dei giovani, dall’adolescenza alla soglia dell’età pienamente adulta. Un’inchiesta che continua anche sul web e sui social.

La psicoterapeuta Stefania Andreoli e la copertina del suo nuovo libro Perfetti o felici diventare adulti in un’epoca di smarrimento (Rizzoli), in libreria da fine marzo 2023.

Non è semplice provare a definire chi non è ancora riuscito a definirsi. O meglio, a compiersi. Perché per Stefania Andreoli, psicologa e psicoterapeuta con una fanbase da rockstar, una delle caratteristiche dei giovani adulti — per intenderci, la fascia d’età che va dai 20 ai 30 anni, principalmente, ma anche dai 30 ai 40 — è proprio quella di essere disperatamente in cerca di sé stessi, della loro essenza. Non riuscendo a trovarsi, si sentono spesso vuoti, privi di significato.

Il male di vivere – «faticano ad andare avanti da soli perché non vorrebbero rottamarci nelle periferie della società».

Questo dato, unito alla convinzione che in realtà i giovani adulti siano quasi una forma più alta (e al contempo infinitamente più profonda) di chi un adulto lo è da parecchi anni, ha spinto Andreoli a dedicare a loro il suo nuovo libro – attesissimo (primo già nella classifica dei preorder) – Perfetti o felici – Diventare adulti in un’epoca di smarrimento.

Il suo interesse verso i giovani adulti ha radici lontane. Perché?
«Da tre, quattro anni a questa parte, nella mia stanza delle parole (così chiama il suo studio, ndr) sono iniziati ad arrivare in massa venti, trentenni. Avendo avuto il privilegio di ascoltarli, mi sono resa conto che nel loro sentirsi soli, nel loro non riconoscersi con gli altri singoli, avevano in realtà le caratteristiche del movimento. Ogni volta ognuno di loro definiva i contorni dello stesso fenomeno. Non sapevano di avere la compattezza dell’esercito, quando invece tutti portavano le stesse istanze, le stesse domande».

Quali?
«La portata della loro richiesta di aiuto è altissima, sofisticatissima, molto psicanalitica. Sono molto sofferenti, gravati di questo senso dell’esistere che intuiscono però essere fondamentale. Le loro sono domande più filosofiche che psicologiche, che interrogano il sé, il concetto di identità, lo scopo dell’esistenza. Domande che l’uomo si è sempre posto, ma attraverso la letteratura, la filosofia, consegnandole di fatto ai vecchi saggi…».

Ora i vecchi saggi sono diventati i giovani?
«Beh, hanno una capacità di analizzare che mi ha prima strabiliata e poi umiliata. Il mio contro transfert al loro cospetto era di una piccolezza, ho vissuto una vera riduzione delle mie dimensioni. Le loro riflessioni hanno una portata edificantissima che, secondo me, meritava di essere conosciuta. Io voglio fare da megafono, provare a propagare il loro punto di vista come fossi un mezzo».

Ambra: «I miei non sono felici. Credo che trovino la questione della felicità un tema puerile perché in fondo non è alla loro portata, non li sfiora perché non la sfiorano. Al loro posto mi chiederei se davvero è tutto qui».

Eppure, scrive nel libro, la comunicazione con questa generazione risulta difficile per i più grandi. L’effetto finale è una sorta di Babele in cui nessuno si sente capito.
«Anche per me, alle volte, la sensazione era capire i basilari — come quando si viaggia in un Paese straniero di cui conosci la lingua ma non la padroneggi — senza però avere la fluidità con cui avrei voluto rispondere alla magnificenza del loro messaggio. Eppure siamo noi, gli adulti, che ci ostiniamo a detenere il ruolo di chi dà le indicazioni e i suggerimenti per come vivere il futuro, senza renderci conto che siamo diventati meno titolati a farlo».

L’inchiesta
La prima puntata – Adolescenti, non sanno chi sono, non “appartengono” a nessuno. Ma la via per esserci, e crescere, c’è , di Alessandro D’Avenia

Perché, allora, non iniziano a farlo i giovani?
«Questo, volendo, è anche uno dei motivi per cui vengono irrisi. Uno dei fraintendimenti che inviterei ad aggirare è che non vogliano agire. Loro per primi hanno le spalle curve sotto il peso di tutte queste domande che sentono levarsi dentro di loro, ma è come se accettassero di doverlo un po’ subire, quasi occorresse loro per richiamare l’attenzione. Si fanno carico, con tutta questa serietà a volte anche eccessiva, di questioni che sono solo apparentemente minori ai nostri occhi e che, in questo modo, cercano di non farci ignorare. L’ambiente, l’attenzione a come si parla, gli asterischi… è come se dicessero: se noi diventiamo così pesanti forse vi rendete conto che c’è un motivo. Portano avanti delle battaglie e hanno tolleranza zero avendo capito che in questo periodo storico serve ripartire da un abc che non è stato dato loro in partenza».

«Dovremmo rinunciare a frasi fatte, proverbi, stereotipi: trovare altre parole per un mondo che è cambiato».

Scrive: non sanno chi sono ma sanno esattamente chi non vogliono essere.
«Non vogliono essere come gli adulti che vedono e ne sono certi. Sono cresciuti in un regime edonista, falsamente orientato al raggiungimento della felicità. Sono stati eccessivamente liberi di crescersi da soli, con famiglie che inseguivano il messaggio che sarebbe andato bene tutto quello che avrebbero deciso di diventare. Ma, posto che poi delle indicazioni implicite arrivano comunque, loro stanno dicendo che di fatto l’essere umano va educato e per educarci dobbiamo darci un codice. Sono scrupolosi ma al servizio di tutti. Stanno riprendendo le redini che noi abbiamo lasciato a briglia eccessivamente sciolta. Per questo, spesso, ci risultano così scomodi».

In altre parole, la sofferenza di questa generazione è una responsabilità di quella che li ha cresciuti?
«Capisco sia una prospettiva sfidante per un genitore, che richiama a una sorta di mea culpa. Però è così: per loro è così difficile afferrare l’esordio nel campionato degli adulti perché noi non siamo un buon modello».

Ma forse neanche i nostri genitori lo sono stati del tutto, no?
«Intanto si capiva bene chi fossero gli adulti. Capivi che erano diversi, avevano quello che tu potevi quindi desiderare, il potere: per questo speravi arrivasse anche il tuo momento di afferrarlo. Oggi gli adulti sono i primi ad essere sbrindellati, il potere che detengono è più di investitura che non di fatto. Insomma, il modello di adultità che proponiamo non è più così appetibile: ci vedono confusi, spaventati all’idea di mollare un po’ di quello che abbiamo».

Valerio: «Adesso che ci penso, io forse non dico granché di vero a proposito di me riguardo a nessun argomento. Non so cosa gli altri potrebbero pensare. Mi sembrano tutti così sicuri di se stessi».

Se avvertono tutto questo, che cosa impedisce loro di essere migliori, dunque?
«Fanno una vita a ostacoli. Iniziano a lavorare ma hanno ancora la mamma che vuole ricevere un messaggio tutte le sere quando tornano a casa, o il papà che vieta alla figlia di usare la macchina per andare alla cena aziendale perché è buio. Non possiamo non renderci conto che la loro grande fragilità dipende da noi. Sono spesso figli di madri e padri eccessivamente ansiosi e perfino un po’ depressi. E quindi loro, i giovani, ci provano eccome a prendersi la loro vita, ma giocano su molti tavoli. A questo punto diventa comprensibile perché siano così sfiancati, affaticati da chi dovrebbe sostenerli. Dalla famiglia alla politica».

Le troppe attenzioni delle famiglie hanno finito per creare un corto circuito?
«L’attenzione eccessiva sul destino del figlio finisce per non garantirgliene uno. Lo stesso è successo con la politica, che apparentemente li mette al centro, ma di fatto è solo un modo per non toglierla da sé. Pensiamo di conoscere molto bene chi sono i giovani, di saperli raccontare, perché sono i nostri figli, “ti ho visto nascere”. Invece dovremmo solo accettare che sono degni di fiducia. Andrebbe lasciato loro campo aperto, perché i più competenti in materia di contemporaneità sono loro: non la devono imparare perché l’hanno conosciuta da quando sono venuti al mondo. La maneggiano senza tracotanza».

Eppure, anche il rapporto dei giovani con il lavoro non è semplice.
«Avrei potuto scrivere tutto il libro su questo aspetto, viste quante sono le storie che mi hanno raccontato. Parlando di lavoro si vede il divario insanabile di fronte al quale constatiamo la grossa differenza tra noi e loro. Dobbiamo rinunciare a usare le frasi fatte, i proverbi, gli stereotipi che sono valsi per noi: andrebbe proprio celebrato il loro funerale, solo che non lo facciamo per paura di dover reimparare da capo un mondo che non è più quello che abbiamo conosciuto noi, per cui ci aggrappiamo alle cose dette tanto per dire pur di non smettere di avere qualcosa da dire. La realtà è che non è vero che i giovani non abbiano voglia di lavorare, anzi. Loro hanno voglia di tornare ad abbellire, migliorare le cose».

«Noi adulti dovremmo scansarci e soddisfarci da soli, smettendo di chiedere che lo facciano loro… Smettiamola di far finta che stiamo bene e ripartiamo dall’autenticità».

Sostiene che spesso godano di una pessima pubblicità: abbiamo paura del loro potenziale e quindi li raccontiamo male.
«Basta uno sguardo che abbia voglia di uscire dal proprio imbuto per rendersi conto dalla qualità di queste persone. Si parla del loro uso eccessivo dei social, ad esempio. Eppure chi ne fa un cattivo uso non sono loro, ma gli adulti, le persone più grandi. Andare a cena con un Millenial ti permette di avere a disposizione un compendio fatto di podcast da ascoltare, libri giusti, serie da non perdersi, musica da sentire: sanno muoversi nel mondo con una destrezza che i più grandi non hanno. Nonostante questo continuiamo a costruire attorno a loro un tetris da cui è difficile uscire. Ci continuiamo a frapporre tra loro e il domani che non vedono l’ora di vivere».

Altri stereotipi falsi?
«Che siano rinunciatari: in realtà soffrono moltissimo, per questo finiscono per sentirsi incapaci e avvertono come verosimile il racconto che li vuole così. Finché noi saremo eccessivamente leggeri su questi aspetti, sarà sempre necessaria la loro pesantezza».

Qual è, quindi, la soluzione?
«Bisogna vivere: non stiamo più vivendo. Gli adulti sono in difficoltà e fingiamo non sia così. La nostra responsabilità è di essere inautentici. Su questo, i giovani si arrovellano e non si riconoscono. Si nevroticizzano nel tentativo di farci calare la pesantissima maschera di Agamennone che ci siamo messi: smettiamola di far finta che stiamo bene e ripartiamo dall’autenticità. Sulla carta sembra facile, non lo è. Si potrebbe partire dal racconto falso e dai titoli fuorvianti che proponiamo di loro. Stiamo continuando a descriverli come una cattiva notizia quando invece questi ragazzi sono portatori di una notizia strabiliante. Facciamo fatica a dare loro retta perché ci svelano che il re è nudo».

Nel suo saggio parla anche del timore del giudizio che accomuna i giovani adulti e l’insicurezza che ne deriva.
«Loro scavano, si mettono nella posizione di cercare, motivo per cui hanno invaso le stanze degli psicoterapeuti. Fanno domande sul senso, come se quello che vedono non fosse abbastanza per nutrire i loro interrogativi, complice anche il fatto che hanno saltato l’adolescenza. Sono il risultato di quello che hanno vissuto e di cui, evidentemente, siamo noi i responsabili. Ora stanno dimostrando come sono fatti e se sono ancora chiusi in casa, è perché stanno cercando di completare la stesura della loro carta d’identità. Non sanno di poter costruire davvero un fronte compatto per muoversi tutti assieme contro i modelli di efficienza che gli sono stati proposti, che se pure esistessero, sono patologici. Se non li raggiungono, come è normale, diventano fragili. Ma resto convinta che sia un tentativo dei più grandi di bloccarli per non farli salire sugli scranni».

Perché, per uscire da questa logica, hanno bisogno allora degli adulti?
«Il motivo è altissimo: non vogliono lasciarci indietro. Loro, a differenza degli adolescenti, sono più grandi: mentre i più piccoli pretenderebbero di essere capiti, loro perfino rinunciano ad avere ragione ma fanno fatica ad andare avanti da soli, perché non vorrebbero rottamarci, relegandoci nelle periferie della società. Ma noi non siamo disposti a renderci conto di che meraviglia sono diventati, nonostante sia stato così difficile per noi trasmettere dei messaggi di trasparenza e di verità. Loro però li hanno imparati lo stesso: non sono interessati per niente all’apparenza e non hanno paura di quell’approfondimento, di quegli abissi di cui vanno anzi alla ricerca».

C’è poca spensieratezza anche nella musica che ascoltano, nelle serie che più amano…
«Sono molto coraggiosi e, volendola leggere in chiave simbolica, credo sia l’esorcismo alla nostra eccessiva ciarlataneria. Vanno a cercare altrove quello che non riescono a condividere con noi. Ma ci salveremo solo insieme».

È fiduciosa?
«Sì, a patto che gli adulti si scomodino e lascino la sedia a loro. Continuando a contribuire, ma non più dalla prima fila».

Almeno si può avere la speranza che un giorno saranno genitori migliori di noi?
«È un’idea che in pochi frequentano. Non si immaginano necessariamente genitori. Tra le loro riflessioni c’è piuttosto quale sia il senso di mettere al mondo altri esseri umani su un pianeta sovraffollato… che coté genitoriale raffinato. Sono genitori nel pensiero e nel chiedersi se esserlo un giorno. Sono genitori di un progetto, genitori di un futuro per garantire il quale potrebbero anche rinunciare all’idea di diventarlo, il che li rende genitori eccezionali. Si tratta della generazione meno egoista di sempre e non l’hanno certo imparato da noi. Come fare a non essere ottimisti?».

Loro, invece, cosa dovrebbero mettere a fuoco?
«Che sbagliando non si sbaglia, si fa solo una azione tra le tante che ti permette poi di affrontare le prossime con più cognizione. O anche no. Ma si chiama vita e va sempre bene. Non sono piccoli ma sono giovani e considerando quanto fatichino ad agguantare la loro esistenza, non possiamo aspettarci che si autorizzino da soli a prendersi il loro futuro. Non serve che venga loro chiesta esplicitamente, in famiglia, la perfezione rispetto alla loro felicità perché è il mondo che abbiamo creato per loro che lo chiede: è qualcosa di propagato nell’aria. E il terrore del giudizio è lo Stige dentro cui annegano».

Un consiglio per gli adulti per permettere il compimento dei più giovani?
«Oltre a scansarci un po’, la “soluzione” è che noi adulti ci riappropriamo della nostra soddisfazione, autenticità e salute (mentale) così che non debbano essere i nostri figli (in questo caso quelli ormai grandi, ma vale sempre, a ogni età) a farsene garanti, rinunciando alla loro vita e alla loro felicità per una esistenza di perfezione che lasci falsamente tranquilli noi. Io, da 44enne, mamma, oggi più che mai bado a me, mi occupo di me, vado a prendermi quello mi fa stare bene e mi auguro che tutti i giovani inizino a fare lo stesso con la loro vita: che badino alla loro felicità senza pensare alla nostra, suffragati dalla nostra volontà di compiere questa operazione di messa al servizio dell’evoluzione dei nostri ragazzi».

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Ventenni e trentenni: che educazione hanno avuto? ultima modifica: 2023-07-18T04:26:00+02:00 da GognaBlog

5 pensieri su “Ventenni e trentenni: che educazione hanno avuto?”

  1. Ciao Marcello, a me sembra che nulla sia cambiato nella relazione tra le generazioni.

    Ma i giovanissimi li vedo diversi da noi, così sempre proiettati altrove da essere infinitamente distanti dalla vita pratica: si sta perdendo capacità espressiva e creativa.

    Ma, a ben guardare, questo riguarda tutti.

  2. Non ho letto l’articolo ma i giovani li vedo come sempre. Pochi in gamba e tanti rincitrulliti. Esattamente come accadeva quando giovane lo ero io.
    E questa proporzione si tramanda pedissequamente alla società adulta.
    Nulla di nuovo.
    Guardate bene.

  3. E quelli che “imbrattano” le opere d’arte???
    Che si stendono a terra a bloccare il traffico??
    Che protestano all’onu e a Bruxelles???
    Quelli che si imbarcano per andare a Capaci???
    Non sono giovani? Ogni generazione protesta a modo suo e per ragioni sue. La mia generazione ha fatto le sue, e ha portato aborto, divorzio, brigate rosse e tanti lutti. Davvero dovremo o potremo essere loro Maestri ???

  4. Purtroppo non vedo giovani che portano avanti battaglie. Li vedo mediamente ripiegati sui loro telefoni e avvolti nei loro silenzi, incapaci di esprimere i propri sentimenti e descrivere un paesaggio.

  5. Non capisco in che senso gli adulti sono meno titolati a dare indicazioni ai più giovani. Che cosa toglie loro questo diritto?

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