Quel che resta di un culo – 1

Quel che resta di un culo 1 (1-2)
(Tbilisi-Milano)

Se hai in programma di partire in auto dalla capitale della Georgia, Tbilisi, e di traversare fino a Milano, hai tre possibilità.

La prima contempla il percorso dell’intera costa settentrionale della Turchia, affacciata sul Mar Nero, fino a Istanbul. Da questa metropoli poi si può scegliere l’itinerario Edirne, Sofia, Niš, Belgrado, Zagabria, Lubiana, Trieste (con variante iniziale Tessaloniki, Skoplje, Niš), oppure l’itinerario che traversa la Grecia fino a Patrasso più traghetto per Brindisi, oppure ancora, dalla Grecia, risalire Albania, Montenegro, Croazia e Slovenia fino a Trieste.

La seconda possibilità ci vede superare la catena caucasica (per evitare la problematica Abkhazia), entrare dunque in Russia, visitare la costa rocciosa della Crimea fino a Sebastopoli, entrare in Ucraina, quindi superare Odessa, traversare la Moldavia, la catena del Carpazi orientali in Romania, fino a Budapest, quindi Lubiana e Trieste.

In partenza dall’aeroporto per il centro di Tbilisi

La terza possibilità consiste invece nel seguire la seconda da Odessa in poi, ma raggiungendo questa città con il lungo traghetto che, in partenza dalla georgiana Batumi, traversa l’intero Mar Nero per la sua diagonale sud-est/nord-ovest fino, appunto, a Odessa.

Mia figlia Elena e Achille nell’agosto 2018 avevano portato Cielo, un Westfalia T4 del 1992, da Milano a Istanbul, con un bellissimo viaggio lungo le Alpi Giulie, la Slovenia, la Bosnia, il Montenegro, l’Albania e la Grecia. Il van viene posteggiato in garage, Achille torna a casa, Elena rimane a Istanbul.

Fabrica, Tbilisi

Trascorsi i sei mesi di stage presso l’ONU, Elena si ritrova libera di proseguire e così i due guidano il mezzo in pieno inverno da Istanbul fino a Tbilisi, punteggiando il percorso con alcune belle gite scialpinistiche in montagne non certo battute, dunque avventurose e ricche di vere esperienze con le famiglie turche che abitano quelle zone e per via degli incontri casuali (vedi Problem yoK 1 e Problem yok 2).

Il percorso richiede più giorni del previsto, anche perché i due fanno sosta dove il viaggio li porta senza farsi schiavizzare da un programma. Così la visita alla Georgia è rimandata perché non c’è più tempo: grazie alla provvidenziale amicizia con David Asatiani, proprietario del ristorante Turfa a Tbilisi, Cielo viene custodito per la successiva primavera in un garage, privato di batteria e di libretto di circolazione, con l’impegno di tornare a riprenderlo entro i 90 giorni di permesso rilasciati dalla dogana in ingresso nel paese. Elena e Achille rientrano alla Malpensa carichi come muli, con tre paia tra sci e snowboard in tutta evidenza. Il bus li scarica a Milano in viale Renato Serra di primo pomeriggio. Dopo aver invaso il marciapiede e anche l’aiola riusciamo a far stare tutto nella mia auto. Accaldati approdiamo in un bar di piazza Giorgio Ambrosoli dove ci scoliamo a testa due birre Tennent’s Super (9° gradi) mentre ricevo i primi racconti del loro fantastico viaggio.

Taxistop a Tbilisi

Una sera ai primi di giugno la dinamica coppia è a cena a casa mia: in serenità e allegria entrambi lanciano a Guya e a me l’invito ad accompagnarli in aereo a Tbilisi e da lì fare ritorno per riportare Cielo finalmente in Italia. In una frazione di secondo rivedo i miei viaggi passati, rivivo le avventure in terre di meraviglia nella sobrietà di equipaggiamento del mezzo, vale a dire senza aria condizionata, senza cesso, senza frigo. Vedo anche, nella medesima frazione di secondo, la non abitudine della mia consorte a quello spartano stile di vita che ti richiede di non fare eccessiva attenzione all’igiene personale.

Però non faccio a tempo a manifestare la mia perplessità che sento distintamente la voce di lei pronunciare con entusiasmo: – Bellooo!! Dai, Alessandro… andiamo!

In marcia a Tbilisi

L’entusiasmo dei commensali più giovani è evidente, quasi saltano sulla sedia: a me non rimane che assentire, contagiato. Mi dicevo: – Beh, in fin dei conti dodici anni fa nei deserti dell’Air e del Niger, senza mai aver dormito in tenda in vita sua, si era comportata e adattata benissimo, se escludiamo il luridume di un albergo ad Agadez e lo squallore del loculo di un F1 in prossimità dell’aeroporto di Marsiglia, con i tristi fumi di un forno crematorio per cani e gatti nei paraggi. Dunque andrà bene anche questa volta!

Già il giorno dopo acquistiamo online i biglietti, con il trick di prenderne due con bagaglio da 23 kg e due no. Passano due-tre settimane e, a 100 ore dalla partenza di lunedì 8 luglio (compreso quindi il weekend), ci viene in mente che forse per entrare in Russia è necessario chiedere un visto, per non parlare dell’automezzo…

La Torre dell’Orologio, Tbilisi

Un veloce controllo su internet ci conferma che non solo il visto è necessario ma anche che è ormai troppo tardi per chiederlo senza farsi ridere in faccia. L’opzione due cade miseramente: tutti presi come siamo stati in questo tempo, Russia e Crimea ci vengono negate dal nostro stesso aver pensato a tutt’altro. Mi era stato insegnato: meglio prevenire che subire. Beh, questa volta subiamo. Anche se, con il senno di poi, scopriremo che per visitare in maniera decente Caucaso e Crimea in realtà non abbiamo comunque il tempo necessario, visto che tutti e quattro dobbiamo essere di ritorno per la sera del 21 luglio. La velocità massima di Cielo è di 90 kmh, visto che la quinta marcia non funziona già dal novembre 2018 e se ne prevede il ripristino solo con il ritorno in Italia. Ma anche con quei 20 kmh in più dell’eventuale quinta marcia, comunque i tempi non sarebbero sufficienti, anche a causa delle necessarie soste alle dogane, che nessuno di noi immagina così invasive.

– Magari c’è un traghetto dalla Georgia alla Crimea, che è in Ucraina. Così evitiamo la Russia – osserva Elena. Ma viene duramente zittita con l’osservazione che, mentre lei probabilmente soggiornava in Cambogia, Putin aveva pensato bene di impadronirsi della Crimea provocando una mezza crisi internazionale: e dunque sempre di visto russo ci sarebbe bisogno.

Anche la prima opzione nel frattempo è scartata: per Achille ed Elena sarebbe fare il ritorno sullo stesso percorso della loro andata.

Dunque, dopo qualche giorno in Georgia, possibilmente nelle montagne dello Svaneti, sovremmo dirigerci a Batumi o a Poti per imbarcarci.

Un attimo prima di scoprire cosa cela il bambino

Non faccio i salti di gioia: dicono che la traversata del Mar Nero richieda due giorni e due notti. Ricordo che, in una traversata Palermo-Genova, Guya, Petra, Elena ed io ci eravamo annoiati parecchio (anche perché allora sui traghetti non usavamo prendere le cuccette della Tirrenia, schifati dalla prima esperienza: e dopo qualche ora la permanenza su poltrona diventa insopportabile). C’è dunque il timore che questa volta possa essere anche peggio, con un tempo di percorso più lungo, senza internet e soprattutto circondati da camionisti ucraini che sottolineano le loro pance monumentali con ciabatte e canottiere consone. Achille è però più ottimista di me, ha fiducia nell’opportunità che ci verrà concessa di fare comunque nuove conoscenze, un’adorazione dell’imprevisto che supera di molto la mia rinuncia alla programmazione, conquistata così faticosamente da essere ancora assai precaria. Perfino Guya è fiduciosa: le sue capacità di osservazione dei fenomeni umani circostanti, unitamente alla sua innata visione umoristica di quei fatti insoliti, grotteschi o deliziosi, che si travestono da normali, la portano senza sforzo a produrre film di fiction mentale tali da soddisfare appieno la sua sete di conoscenza.

All’ultimo momento, a 26 ore dalla partenza, e reduci da Villa Arconati di Bollate per un impegnativo festival di musica sperimentale, il Terra Forma, decidiamo molti dettagli sul materiale, rovistiamo in una cassapanca alla ricerca di uno zaino adeguato, facciamo liste approssimative di chi porta cosa e di quel che c’è già nella pancia di Cielo.

Alle 17.23 dell’8 luglio Achille in aeroporto scatta a me ed Elena una foto mentre ci beviamo un birrone alla spina. Nulla di particolare da raccontare del volo, se non la noiosa attesa in quel di mezzanotte ad Atene, con arrivo a Tbilisi alle 4 di notte. Recuperati i bagagli, data l’ora non usciamo dall’androne, evitando quindi di far dogana, in quanto abbiamo adocchiato delle panche sulle quali ci stravacchiamo. I poliziotti ci guardano con fare indagatorio, ma noi vogliamo evitare confusione e qui si sta bene. Tanto al di fuori, anche trovando un taxi, saremmo arrivati in città troppo presto. E poi siamo anche un po’ rincoglioniti.

Il Ponte della Pace, Tbilisi

9 luglio
Non alto ma tarchiato, con mani gigantesche e una faccia davvero sovietica è il taxista che la vince sui numerosi altri che pretendono di portarci in città verso le 7. Per poco ci scappa una rissa perché quello ci ha offerto il passaggio a una tariffa sensibilmente più bassa: sono in tre o quattro a insultarlo, ma se ne guardano bene, date le dimensioni, dal mettergli le mani addosso. L’uomo comunque è ciarliero, gentile a suo modo, entusiasta al volante di uno dei taxi più vetusti e scassati da noi mai visti (e la nostra esperienza che comprende Asia e Africa è molto vasta). Parla al telefono con chissà chi, fuma sigarette pestilenziali con il finestrino chiuso, riesce quindi a farci dimenticare il nostro stordimento mentre ci trasporta sicuro verso Fabrica, un coworking nel centro di Tbilisi già conosciuto da Achille ed Elena nel viaggio precedente. Fabrica è il risultato accogliente della ristrutturazione di un sito industriale, ora adibito anche a ostello e ristorante. L’atmosfera che vi si respira è piacevole, luminosa: Guya è sbalordita da quanti ragazzi giovani vi si aggirino. Però tutto questo interesse è comunque subordinato per tutti all’apertura dell’orario di prima colazione. Ci scaraventiamo sulle tante prelibatezze manco non mangiassimo da giorni.

David e Nano Asatiani

I miei tentativi di collegamento a internet naufragano miseramente mentre cerco di districarmi tra password, hotspot, computer portatile, smartphone e una schedina telefonica comprata all’aeroporto. Comincio a pensare che dovrò rivedere radicalmente i miei programmi di collegamento giornaliero, cioè la mia routine casalinga di promozione mattutina dei post di GognaBlog. Ma ancora non demordo, mi ostino, m’incazzo e spio ciò che fanno Achille ed Elena che reputo molto più preparati di me a questo genere di commitment. Achille deve “sistemare” e “consegnare” le foto di un servizio che ha fatto a François Cazzanelli: anche lui s’imbestialisce. La scheda telefonica locale si rivela utile per esempio per poter seguire i nostri percorsi sulla mappa ma non per altro. Se già a Tbilisi ci sono questi problemi, figuriamoci quando saremo in giro per la Georgia montana o campagnola.

David con la sua auto ci accompagna a rilevare il furgone
Kaspi, in salita a piedi verso il luogo della prima notte

Messe da parte queste velleità, decidiamo di uscire e andare un po’ in giro per questa bella città. Al telefono David ci aveva chiesto di andare da lui non prima delle 13.30, dunque inizia la nostra mattinata di turismo, una marcia podistica attraverso le cose più interessanti cercando di collegarle con un percorso intelligente nell’Old Town. Accanto alla Torre dell’Orologio c’è una fontana e un nonno sta facendo bagnare i piedini a un bel bambino biondo. Guya si avvicina: – Ah, che carino, amore, tesoro…!

Fa caldo, il nonno cerca di dire qualcosa ma nessuno capisce. Anche Achille si avvicina, per risciacquarsi le mani. Ma l’occhio di Guya non tarda ad accorgersi che il meraviglioso bambino stava perdendo in acqua la cacca molle mal trattenuta dal suo pannolino. Così ce ne allontaniamo, ridendo come dei pazzi.

E’ la volta della splendida Basilica di Anchiskhati, poi di altre meraviglie come quella del Ponte della Pace.

Alessandro assieme all’energumeno e suo nipote

Nella nostra transumanza ci ritroviamo davvero lontani dal ristorante di David, così ci risolviamo a prendere un taxi. Giunti a destinazione rispettosi dell’orario che ci era stato imposto, la moglie Nano ci sistema nel locale seminterrato, un po’ buio ma certamente d’interesse culturale, mentre una mosca, una sola ma molto noiosa, allieta la nostra attesa del padrone che nessuno sa dov’è. Non ci sono altri clienti. L’attesa innervosisce chi è predisposto, certo. Senza David per poter definire quando andare a riprendere il furgone, senza possibilità di collegamento wi-fi e soprattutto senza pranzo, gli ingredienti per il nervosismo di noi maschietti ci sono proprio tutti. Ripeto, ancora siamo ben lontani dalla necessaria accettazione della realtà del tutto analogica che ci circonda.

Ma quando David arriva tutto cambia. Un uomo cosciente, radicale, ben cosciente dei problemi etnici, del petrolio, dell’energia. Ben lieto di vedere che non tutti i turisti hanno deciso di disertare la Georgia di questa difficile stagione di attriti russo-georgiani. Un pranzo luculliano, con un’ottima pietanza di carne con le mele, amabili discussioni geo-politiche sulla situazione tra Georgia e Russia, il dono che ci viene fatto di sette od otto bottiglie di vino, più altri contenitori di grappa quasi ci fanno dimenticare che prima o poi dobbiamo uscire da qui e farci accompagnare al garage dove Cielo è rimasto solitario per ben più di tre mesi. Le bevande alcoliche di varia natura ci vengono spillate da capaci contenitori e le bottiglie munite di tappo: – Con tutto il tempo che dovrete stare in furgone, avete bisogno di tanto vino! – ci dice sorridendo – questo vino del Qvevri è il più antico del mondo!

Kaspi, prima notte accanto a una vecchia chiesa e al cimitero, Sul prato è la petranboard.

Sono molto sensibile a questo genere di gentilezze, lo ringrazio entusiasta anche mentre ci accompagna al garage, traversando mezza Tbilisi. Poi però il tragitto in macchina mi fa appisolare, appesantito dal cibo e in debito di sonno come sono. Non mi accorgo neppure che si fermano per comprare il pane. Molto emozionati arriviamo al garage, dove le pratiche di recupero-furgone si svolgono in pochi minuti. Quando a marzo il mezzo era stato lasciato lì, più o meno con il senso di colpa con il quale si può lasciare un animale a lato autostrada, il cielo era plumbeo, il quartiere sembrava così fatiscente e “soviet” da far sorgere dubbi profondi su un futuro ricongiungimento. Oggi invece il sole radioso lascia spazio solo all’emozione positiva del ritrovamento.

Inseriamo la chiave nel cruscotto… e il motore si avvia! Applauso.

– Qui inizia l’avventura vera – pensa Guya terrorizzata – per questi pazzi è tutto molto semplice… ma per me, che non ho mai fatto nulla del genere, come sarà? Come reagirò nei prossimi giorni? Sarò all’altezza? Per il momento comunque meglio sorridere e nascondere questi timori.

Stringi stringi sono tre i motivi della sua preoccupazione. La prima, il non voler prendere neppure in considerazione di guidare (“Non lo prenderò mai questo volante in mano!”). La seconda è sanitario-igienica: dove e come provvedere ai propri bisogni corporali, specie quelli all’aperto? Come garantirsi un minimo di pulizia? La terza è il confronto con le diverse capacità nei vari sport e attività, spinto al punto di ipotizzare di essere “di peso”.

Il taglio del salame

– Devo essere il più trasparente possibile – si prefigge – ignara del futuro giudizio di Achille che le dirà apertamente quanto non si sia neppure accorto di quelle esitazioni, quanto abbia apprezzato la sua leggerezza, la sua capacità di acuta osservazione, il suo naturale adattarsi alle scelte di una stretta convivenza a quattro, ai bisogni e alla voglia di vivere il viaggio indipendentemente dalle avventure a corredo del viaggio stesso.

Presto Guya riconoscerà che le sue paure sono destinate a svanire, grazie alle premure che le riserviamo. – Siete stati così carini a mettermi subito a mio agio – riconoscerà apertamente – che presto mi è sembrato d’averlo fatto da sempre… Solo il papà ogni tanto faceva un po’ il “birichino”…
– Io…? E quando?
– Sì, sì, ogni tanto mi trattavi male, orso all’ennesima potenza.
– Mah, a me non sembra. Tu Elena ti ricordi per caso quando può essere successa una cosa così?
– No, no, non state a tirarmi dentro a questioni di questo tipo… Comunque è vero che sia papà che Achille i primi due giorni erano in un “mood” da orsi bruni. E Guya ed io dicevamo “No, no, così non va bene!”.
– Beh, è vero… ma la colpa era della mancanza di connessione! Dimenticare la dimensione informatica era obbligatorio, ma abbiamo tardato un po’ ad accettarlo. E tu a volte sei troppo intuitiva, è difficile sopportarti…!

Il saldatore

Usciamo dalla grande città seguendo una spaziosa autostrada, direzione ovest, meta da definire. Quando mi risveglio c’è una luce come non tante altre volte.

All’altezza del villaggio di Kaspi, ancor prima della città di Gori, la stanchezza si fa sentire e la voglia di trovare un bel posto per dormire in cima a qualche collina ha il sopravvento.

Dopo qualche scorribanda, anche per farci notare dalla popolazione e indagare le loro reazioni, individuiamo una collina oltre una bella fontana. Mentre facciamo provvista d’acqua, Elena sorridendo fa amicizia con un gruppetto di donne che abbiamo incuriosito. E’ un modo per chiedere il permesso di fermarci lì vicino, oltre che di calarsi nel viaggio vero, in mezzo ai sorrisi e alle quattro parole in croce d’inglese. La prima tappa rustica del nostro percorso. Decidiamo di salire un tratto ripido scendendo dal furgone per non sovraccaricarlo e ci fermiamo proprio accanto a una vecchia chiesa con annesso cimitero.

In arrampicata su Cveti

La prima operazione obbligatoria è la distribuzione del nostro bagaglio nei numerosi scompartimenti di cui è dotato il mezzo. Occorre stabilire un ordine, riconoscibile da ognuno di noi. Solo così si potrà poi “tenere in ordine”.

Spargiamo il bagaglio in mezzo al prato e vi aggiungiamo ciò che era già dentro il furgone. All’inizio sembra un’impresa priva di speranza. Non riusciremo mai a costringere questa massa di oggetti in un ordine logico che rispetti anche le proprietà e le priorità. Due stipi, Ortensia e Girasole, vengono assegnati alle due coppie, ci vuole un attimo a riempirli. Le cibarie vanno in Papavero, le stoviglie in Margherita. Il frigo, chiamato Bucaneve, non funziona perciò viene adibito a porta computer, mentre altri oggetti indistinti ma di uso frequente vanno nel Dente di Leone. Nella pancia più irraggiungibile, il “buco nero”, stiviamo ciò che riteniamo meno probabile dover usare. In un bidone bianco di plastica sistemiamo l’acqua e altro.

Nel bel mezzo di queste delicate operazioni, mentre la nostra roba è ancora sparsa in almeno venti metri quadri di prato, ecco arrivare un’auto con immane fragore e ad alta velocità.

– Oddio – pensa Guya – ci siamo messi dove non dovevamo… Adesso questi ci mandano via.

Gioco di felci

Ne scendono due adulti e un bambino. Dei due uomini uno è un energumeno, ma con sollievo ci accorgiamo che sono sorridenti. In mano recano ciò che sembrano doni, bottiglie di grappa e del gelato. Ci invitano ad andare a casa loro, altro che mandarci via! L’omone, in canottiera, subito soprannominato “il gentleman”, si rivolge a me perché capelli bianchi ed età gli indicano che devo essere il capo. Mi costringe a bere in bicchierino di plastica una grappa micidiale, poi mi ripropone ancora il bicchiere pieno, che io sorseggio mentre lui tracanna. Tre parole d’inglese, il resto a gesti, ma si fa capire. L’atmosfera si sgela, perfino Guya pensa che forse ce la farà. Il gigante ogni tanto molla uno scappellotto a quello che ci dice essere il nipote, un bambino con l’aria molto più vissuta di quello che dev’essere la sua età. Il ragazzino accende le sigarette allo zio, che per ringraziarlo gli affibbia ogni volta altri sberlotti (crediamo sia parte integrante dell’educazione locale). Il vecchio beone si fa sempre più esuberante e sicuro di sé, ma non è mai aggressivo. Io sto al gioco ma devo stare attento a non massacrarmi al gioco “bevi, se no mi offendo”. Arriva anche un’altra auto, con gente del paese curiosa della novità che gli abbiamo portato. Rifiutiamo con fermezza il gelato, che nel frattempo si sta sciogliendo, ammiccando al ragazzino come per dirgli che è tutto suo.

Il campeggio nei pressi del Katskhi Pillar, visibile in fondo

Poi d’improvviso ci lasciano soli, raccomandandosi di non esitare a chiedere se avessimo bisogno. Dopo quel memorabile aperitivo abbiamo una fame senza senso. Possiamo sederci, gustare le nostre prime fette di salame italico, qualche morsetto di grana e un risotto cucinato da me. A mo’ di tavola usiamo la “petranboard”, una delle due rudimentali tavole da snowboard che i montanari di Petran (Turchia) avevano regalato a Elena e Achille. Una era stata portata a casa, l’altra era rimasta in Cielo. Questo voluminoso oggetto ora è utile, ma credo che darà parecchi problemi nei prossimi giorni, visto che non possiamo metterlo sul tetto per via della tenda sollevabile.

Le libagioni con il vino di David affrettano l’ora delle nanne, altro momento topico per Guya del tutto nuova a questa pratica. I due ragazzi si sistemano sopra di noi, tutto si svolge come da programma fino al sonno dei giusti.

La cena appoggiata alla petranboard

10 luglio
Stiamo viaggiando in una zona segnata abbastanza dall’attività industriale, assieme alla sensazione che sia in abbandono, sofferente, in contrasto con una natura luminosa che filtra le polveri di un traffico intenso. Il cielo segnato da tanti cavi elettrici, un immenso cablaggio primordiale. La nostra destinazione è il Katskhi Pillar, circa a 600 m di quota, un famoso torrione roccioso che in cima ha un ritiro da eremiti. Sappiamo che lì vicino ci sono delle falesie di calcare su cui si può arrampicare. Il settore Cave è proprio a 10 metri da dove posteggiamo, e subito ci buttiamo sulla via John Rambo, data di 6b che subito si rivela essere almeno 6c+. I tentativi di Elena, unitamente ai miei, sono penosi. Achille, combattivo, riesce ad aver ragione dell’ostacolo, prima usando artifici vari e poi finalmente in libera. Ci rifugiamo all’ombra del settore Canyon, una bucolica valletta recintata e circondata da paretine. Qui tutti e tre saliamo Cveti, data 5c, in realtà 6a. Il contatto con il local climbing non poteva essere più severo. Mentre noi lottiamo sulle ruvide rocce, tre loschi giovinastri si avvicinano a Guya che sta custodendo il furgone. Ridono, bevono, sghignazzano e, soprattutto, guardano. Al mio ritorno se ne vanno con la loro auto vetusta, così come erano venuti. Elena e Achille si trattengono tra le felci per una sessione di fotografia creativa. Guya ed io ci godiamo un po’ di solitudine mentre i ragazzi vanno poi al Katskhi Pillar, dove peraltro è proibito usare la via ferrata per salire in vetta, data la sacralità del luogo. Lì incontrano una combriccola di ragazzi: uno, di genere un po’ frikkettone, offre loro un po’ di erba, “all natural”, made in Georgia.

Prima di cena c’è la definitiva sistemazione del furgone, che deve essere perfettamente orizzontale, in bolla. Un gioco millimetrico. Ma c’è anche la decisione, da parte dei due piccioncini, di dormire in tenda, da piantare lì vicino. Mentre preparo un bel soffrittino per un altro risotto, accompagnato da un’insalatona di cavolo, sento il seguente dialogo:
– Achi, ma qui ci sono due buchi enormi nella zanzariera!
– Ma cosa vuoi che sia…
– Ma non vedi che ci passa il mio pugno? Io ti avevo chiesto se dovevo portare la mia di tenda, che è perfetta…
– Eh, forse l’ho scambiata con quella di Luchino (Luca Schiera, NdA)…
– Ma che me frega a me di chi è… da ‘sti buchi può passare di tutto, zanzare, ragni, serpenti…

Elena su Mini zgarbi

La cena è apparecchiata sul petranboard, tutti convengono che ci stiamo trattando davvero bene. Stiamo cominciando a prendere confidenza con l’ordine, ma è chiaro che le più pretenziose sono Guya ed Elena. Ma la prima non ha la necessaria esperienza, perciò con astuzia tende a far lavorare la seconda: “Ah, ma questo lo sa la piccola Katy…”, “questo lo può fare solo la piccola Katy”. E così, con in testa il motivetto della vecchia e famosa canzone dei Pooh, accostamento fantasioso partorito dall’insondabile psiche di mia moglie, la povera Elena sgobba rigovernando, spazzando e lustrando un furgone che mai era stato nettato a tal grado di perfezione.

Giunge il momento di andare a dormire, nessuno di noi può prevedere il dramma che si svolgerà in quella tenda.

Guya si aggira per Batumi con i miei pantaloni, dopo che la pioggia le ha infradiciato i suoi.

11 luglio
A dispetto del nastro adesivo apposto sui buchi, i due poveretti passano la notte a grattarsi. Al mattino, è un’Elena inacidita e piena di bubboni la prima a schizzare fuori alle 6.30. Ore di sonno, zero. Dopo una colazione silenziosa e impacciata, ci avviamo verso la falesia Cunami. Sul 5b di Ravi aba già ci impegniamo (Elena fa un voletto da prima); va un po’ meglio sul 6a di Mini zgarbi, che riesce a tutti e tre. Poi è la volta del tentativo di Achille su un 6b, Scar face: talmente deludente da convincerci che forse non è il caso di insistere. In quella arrivano dall’alto due climber, ci sembrano subito dei local incalliti. Infatti il più scafato si presenta come Guga Dabrundashvili, uno dei chiodatori del luogo (infatti avevo letto di lui su internet). Non è molto simpatico: alla pacata osservazione che gli fa Achille, al riguardo dei gradi davvero tirati, quello risponde con un certo sussiego spocchioso che anche lui è stato in Italia, e che anche lui si è preso le sue “bastonate”. Insomma, il dialogo muore sul nascere. Già volevamo andarcene prima, ora proprio vogliamo scappare.

Fatti armi e bagagli, dirigiamo su Kutaisi, nel centro della quale approdiamo a un’ottima ravioleria. Ma non ci limitiamo a mangiare i ravioli, Achille ed io ci intestardiamo a connetterci. Il miglior sistema è l’hot spot, ma siccome dentro c’è poco campo, Elena è costretta a stare delle mezzore fuori dal locale a maledirci con il telefono acceso. E comunque non riusciamo a fare neppure un quinto di ciò che vogliamo. Neanche una successiva migrazione al Burger King riesce ad accontentarci. Nel frattempo si è scatenata anche la bagarre della prenotazione del traghetto, che dovrà avvenire tramite un amico di David che lavora a Batumi. Non ci sono informazioni precise, abbiamo solo assicurazione che possiamo fidarci: il traghetto sarà domani sera.

Guya in una moschea di Batumi

Il viaggio di trasferimento a Batumi è pacifico, con un traffico scorrevole e abbastanza ordinato. Al tramonto, Elena e Achille si buttano a fare il bagno nel Mar Nero, seguito da una gradita doccia in apposita cabina incustodita. Nel frattempo Guya ed io cerchiamo un luogo dove lavare i piatti. C’è un lavandino accessibile solo tramite un vero e proprio guado in un torrentello, con qualche attimo di apprensione sulla riuscita senza danni della manovra.

A questo punto è ora di cena, vince l’idea di mangiare subito e poi di cercare un luogo adatto al pernottamento. La cena avviene in un ristorante sul mare a una decina di km a nord di Batumi, ma non siamo fortunati perché i piatti che ci portano non hanno nulla che giustifichi la nostra affamata presenza qui, in questo locale mal frequentato e ricco di sgraziate esibizioni canore.

Batumi

Di certo l’allegria non diminuisce, così pieni di speranza e con musica a tutto volume saliamo i tornanti di una collina fitta di residenze e per nulla selvatica, alla ricerca di una minor concentrazione umana. Dopo lungo peregrinare, stufi, ci fermiamo in un posto che soddisfa le esigenze della bolla ma non quelle dei proprietari del terreno antistante un cancello che sembra abbandonato. Facciamo a tempo a fare gli ultimi preparativi notturni quando veniamo apostrofati da due uomini che, senza buone maniere, ci intimano di andarcene. Achille russava già. Svegliato di brutto, pensa di scendere con il soffietto alzato, ma un coro di disapprovazione lo blocca.

Trattenendo a stento le bestemmie, guida come un pazzo giù nella notte fino a un piazzale dove, vinti dal sonno e dalla sfiga, ci addormentiamo in pochi minuti.

Batumi

12 luglio
Al mattino piove forte, ci accorgiamo di essere più o meno alla fermata di un autobus e nei pressi di straripanti bidoni dell’immondizia. Abbiamo lasciato fuori la tavola del petranboard: decidiamo di abbandonarla, così fradicia sarebbe stata un ulteriore problema.

Nel richiudere il soffietto bagnato, Achille nella concitazione lascia il suo i-phone nello spazio di chiusura del soffietto. Lui sente che c’è un ostacolo e tira ancora di più… poi l’evidenza, l’i-phone reso illeggibile e inutilizzabile.

Al problema della prenotazione traghetto e del relativo cambio soldi, si aggiunge quello dell’i-phone da riparare.

Così, nel centro di Batumi e sotto la pioggia battente ci dividiamo i compiti: Achille ed io per il telefono, Guya ed Elena per l’agenzia di viaggio e banche.

La rituale apposizione dell’adesivo

Dopo aver impostato la riparazione e l’acquisto del pezzo di ricambio, torniamo dalle donne che c’investono del casino in cui siamo. Elena è fradicia perché ha dovuto tornare al furgone per prendere i passaporti proprio nel momento di massima intensità della pioggia. La prenotazione c’è, ma le operazioni di cambio per pagare sembrano davvero impegnative. Basti dire che a un certo punto io mi vedo disabilitare una mia carta di credito… il tutto in mezzo a una sensibile coda di gente che deve fare bancomat. E poi moduli, carte, firme… un’odissea senza fine, un vortice di burocrazia che in seguito sarebbe diventato ancora più abissale. Nel primo pomeriggio le cose si dipanano, sembra che ce l’abbiamo fatta e dobbiamo solo aspettare di trasferirci nella zona portuale per quelle formalità che già ci hanno preannunciato piuttosto lunghe e complicate. Dopo un due orette rilassanti per Guya ed Elena che vanno in giro per la città e per moschee, mentre noi ci ostiniamo a cercare di connetterci in un pub, raggiungiamo la fila degli autotreni in attesa. Passiamo almeno due ore sotto a un ponte, assistendo al passaggio di molti autotreni appena usciti dal traghetto: tre o quattro sono carichi di maiali, dopo il loro passaggio rimane una scia di puzza stomachevole. Talvolta chiacchieriamo con i proprietari di altre auto e fiduciosi attendiamo la partenza delle operazioni di sdoganamento. Nel frattempo Elena e Achille trovano pure modo di battibeccare tra di loro isolandosi a qualche decina di metri. Le nubi litigiose si dissolvono solo quando, seguendo un rito preordinato dall’anno precedente, i due appongono a Cielo l’adesivo della Georgia accanto a tutti quelli degli altri stati attraversati. Almeno due caffè e altrettanti tè per ingannare l’attesa. Perfino propongo di indovinare qual è quella montagna alpina che è alla sommità di ben tre bacini idrografici che portano le loro acque a tre diversi mari, Mare del Nord, Mar Nero e Mare Adriatico. I miei compagni si sono arresi dopo molti giorni, solo allora gli rivelerò la risposta: Piz Lunghin 2780 m, vicino al Passo del Maloja.

La nave traghetto

Finalmente, verso le 19.30 qualcosa si muove. Veniamo disposti secondo un ordine imperscrutabile, poi finalmente ci mettiamo in coda a un primo sportello. Sappiamo benissimo di non essere in regola. Il furgone è rimasto in terra georgiana non per 90 giorni, bensì per 104. Quindi ci aspettiamo i problemi da questo punto debole. Confido ai miei compagni che non ci rimane che sperare che i nostri documenti li ispezioni un uomo, non una donna di quelle con la faccia da uomo che sono molto più puntigliose e ligie al regolamento. Ma naturalmente sarà proprio una donna a prendere in mano le nostre carte, trattenerle per un irragionevole numero di minuti e decretare di metterci da parte e lasciar passare avanti gli altri. Non vale neppure che Elena esibisca il suo tesserino dell’ONU risalente al tempo del suo master a Istanbul. Dopo pesante attesa veniamo a sapere che non solo dobbiamo pagare una multa per le due settimane in più, ma anche che dobbiamo pagare quell’assicurazione RC che nessuno aveva chiesto ad Achille ed Elena al loro ingresso di marzo. D’altronde loro non si erano preoccupati, pensando che la RC di Cielo fosse valida evidentemente anche in Georgia. Invece no. La somma totale da pagare è l’equivalente di 215 euro, ma noi non abbiamo più cash georgiano (ce n’eravamo liberati, pensando che la prossima moneta sarebbe stata quella ucraina). Inoltre a me sembra difficile che si possa trovare una banca aperta alle 20.30, visto che di pagare direttamente agli uffici della dogana non è previsto, anzi sembra quasi un tentativo di corruzione…! Achille si avvia con il ragazzo dell’agenzia, pare che la banca non sia distante. Non rimane che sperare che problematiche del genere siano del tutto usuali, dunque la banca in qualche modo si apra al bisogno. In effetti fuori della banca ci sono delle impiegate, evidentemente in attesa. Tutte s’innamorano di Achille e sorridendo svolgono in breve le pratica del change money e dei due pagamenti diversi. Ma è’ soltanto alle 21 che Achille torna trionfante con le ricevute dei pagamenti. Io sono taciturno e pervaso da pessimismo nero, sicuro che nessuno mai ci rimborserà i soldi dei biglietti. Ormai non c’èa più neppure un’auto sul piazzalone, mi vedo il traghetto alzare il pontile e partire senza di noi. Un’altra mezzora di timbri e firme e finalmente ci lasciano imbarcare. Il natante è davvero enorme. Molto più grosso dei traghetti cui siamo abituati, quelli della Sardegna. Questa nave carica anche interi treni su binario.

Tipico camionista

13 luglio e 14 luglio
Rullano i tamburi sulla qualità e sull’igiene delle nostre due cabine adiacenti, ma soprattutto dei locali doccia e toilet in comune con altri passeggeri. Ma la recente opera di pulizia ha reso decorose le condizioni di presentabilità.

La nave salpa verso l’una di notte.

L’errore più grande l’ho fatto io – ammette Guya – voi tre avete subito fatto la doccia, approfittando della bonifica che qualche donna georgiana o ucraina dell’equipaggio aveva appena fatto. Io ho aspettato, non mi decidevo, e mi sono risolta solo dopo 35 ore di viaggio, quando ormai i locali versavano in condizioni penose. Tutti vi ricorderete dei camionisti in canottiera e ciabatte… Ho dovuto farla, anche perché avevo capito che per il resto del viaggio non ci sarebbe più stata altra occasione. In più, ormai nei pressi del porto di Odessa, devono aver chiuso l’acqua e mi sono trovata insaponata senza poter risciacquarmi. Insomma un vero casino! Ero anche in punta di piedi, perché senza ciabattine… non volevo appoggiare la pianta!

A colazione veniamo a conoscere le modalità del nostro vitto, compreso nel prezzo. Cibi un po’ discutibili, ma al mondo c’è di peggio. Ciò che ci infastidisce sono gli orari rigidi, se ci sei quando te ne danno bene, se no ripassa al pasto dopo! Il nostro servizio militare è più elastico. Colazione, pranzo, merenda e cena.

Selfie in traghetto

Le ore passano lente, ma non possiamo dire di annoiarci. La vista è sempre la stessa, l’azzurro Mar Nero, ma le persone con le quali viaggiamo offrono spunti d’interesse. Guya viene abbordata da un camionista piccolino, di rara bruttezza, mentre Elena è appisolata al tavolino al sole.

Se questa si sveglia, lei che parla anche con i sassi, attacca discorso con questo che mi sta tampinando e non ce lo togliamo più di torno.

Al turno del rancio conosciamo anche un simpatico motociclista, un libraio austriaco che organizza il festival letterario di Salisburgo, tutt’altra persona che la media degli ubriaconi camionisti ligi alla logica “bevendo, il tempo passa prima”.

Vicini del nostro tavolo sono anche un fratello e sorella polacchi, lei piacente e un po’ equivoca: hanno adocchiato uno svizzero. Noi ci facciamo il film che ridendo e scherzando questi si stanno mettendo d’accordo perché lo svizzero faccia una notte di sesso con la polacca. Anzi, ne abbiamo la certezza. Il mattino dopo però ci accorgiamo che tra i tre dev’essere successo qualcosa, probabilmente lo svizzero pensava a una conquista che invece era solo mercimonio. Al rifiuto di pagare dev’essere successo il litigio. Ma non riusciamo a sapere la storia nei minimi dettagli, vediamo solo che tutti sulla nave sono al corrente di quest’avventura boccaccesca.

Notte in traghetto

L’arrivo al porto di Odessa è verso le 14 del 14 luglio. Dall’alto delle nostre posizioni assistiamo alla complicata manovra di attracco di questo mostro di nave. Poi inizia un’attesa spasmodica, vorremmo uscire, risalire sul furgone e fare dogana. Invece realizziamo che sarà la polizia a salire sulla nave e la prima pratica la faremo qui. Non siamo preoccupati, qui non si sta ancora parlando di far entrare un furgone in territorio ucraino bensì solo dell’ingresso di quattro cittadini dell’UE. In effetti non ci sono difficoltà, però riusciamo a salire su Cielo e ad approdare sulla terraferma soltanto verso le 15.30. Ora inizia la più fantastica storia di burocrazia cui abbiamo mai assistito. Le vittime sono tutti i passeggeri, senza distinzione di nazionalità. E’ un continuo andirivieni per firme e timbri, moduli e vidimazioni, da un ufficio all’altro, superando delle linee immaginarie e invisibili. Quando si pensa d’aver finito si riapproda al primo ufficio e tutto sembra ricominciare. Verso le 18.30 ci lasciano partire, ma un km dopo, all’ultimo gate della dogana, c’è un ufficio che proditoriamente ci rimanda indietro. Come se non avessero i telefoni. Torniamo al porto, riceviamo gli insulti che i funzionari incazzati indirizzano ai loro colleghi. Ci intimano di sparire e di tornare là a dire che è tutto in ordine.

L’attracco a Odessa

E così, miracolosamente, quando tutto sembrava perduto, alle 19.30 riusciamo a lasciare la zona doganale. Nella mia mente nasce il disegno che, per non subire ulteriormente altre ore di questi supplizi, una buona tattica può essere quella di cercare di attraversare il confine con la Romania in piena notte, sia per le code magari inferiori che per la sperabile maggiore disattenzione di funzionari meno zelanti. Mentre Achille soffriva in silenzio l’iter di tortura, Elena aveva chiesto a qualche militare se sapevano se di notte quel confine con la Romania fosse aperto. Perché il tutto è complicato dal fatto che quello è un confine con quattro passaggi burocratici: uscita da Ucraina, ingresso in Moldavia; poi, dopo neppure un km, uscita dalla Moldavia e ingresso in Romania! Nessuno sapeva nulla, neanche dopo premurosa consultazione dei loro cellulari.

Il malumore di Achille in Ucraina

Praticamente privi di cash ucraino e soltanto desiderosi di affrontare l’ultima battaglia doganale, percepiamo la campagna ucraina come luogo davvero triste. Ci fermiamo a una bancarella tenuta da un antipatico donnone per comprare qualche verdura. Abbiamo infatti qualche spicciolo ucraino che in dogana ci hanno dato come resto nel pagare qualche balzello. Non conoscendo il valore di quei soldi, Elena prende cipolle, pomodori, patate e zucchine. Mentre le porge le monete per pagare, la donna la guarda severamente, di certo il denaro non basta. Allora Elena toglie qualcosa, ma non basta lo stesso. Così per altre quattro o cinque sottrazioni fino a che rimangono solo tre cipolle…

Dopo una lauta cena a bordo strada dalle parti di Tatarbunary c’è una violenta discussione tra me e Guya che non vuole che guidiamo di notte.

Il passaggio a livello di Reni

Sedata la rissa, “tanto si fa sempre e solo quello vuoi tu”, e dopo una bella moka, quando ormai è buio ci avviamo verso la città di Izmajil. La strada è abbastanza buona e ben segnalata e io guido, assistito da Guya, mentre i due ragazzi dormono. Musica a manetta su brani scelti. Giunti sulla circonvallazione di Izmajil, non esiste più segnalazione per Reni, il confine dove siamo diretti. Neppure il numero della strada (M15) appare più mentre aguzzo gli occhi. Succede così che mi trovo a guidare su una strada piena di buche profonde che solo dopo parecchi chilometri mi fa capire che ho sbagliato e sto in realtà andando a nord verso Bolhrad. E’ infatti proprio un cartello per Bolhrad che mi avverte, anche se già sospettavo l’errore. Dopo l’inversione a U, Achille si sveglia all’ennesima botta per buca nell’asfalto. Facciamo gasolio con la carta di credito. Si offre di guidare lui e io gli cedo volentieri il volante: se avevo preso qualche buca, potevo sospettare di non averle viste magari per stanchezza. Invece anche per il padrone riposato non c’è verso, ancora altre buche da non credere, voragini che si ripercuotono dilanianti sui semiassi. In seguito vedremo che dei quattro coprimozzo ne sono rimasti solo tre. Finalmente recuperiamo la M15, e per un’altra cinquantina di km si va regolari. Nei pressi di Reni l’ipnotico viaggio s’interrompe brusco a un passaggio a livello chiuso. Subito dopo entriamo in città e inizia un incubo da non credere. La strada non c’è più in quanto tale, ci sono solo vie non asfaltate in una città fantasma senza alcun cartello, neppure in cirillico, né illuminazione pubblica, né punto di riferimento. In giro non c’è anima viva. Google map ci aiuta, ma spesso anche lui va in confusione. Finalmente riusciamo a raggiungere una specie di centro, dal quale più a naso che altro, riusciamo a recuperare quella direzione ovest che in neppure dieci km dovrebbe portarci al border. Magicamente riappare anche il cartello M15, salutato dalle nostre ovazioni silenziose per non svegliare le donne.

Il sonno dei giusti

15 luglio
Arriviamo alla frontiera verso l’1.30 e ci mettiamo in coda con auto e camion. Più o meno siamo in dodicesima posizione e, dopo aver verificato che non fosse tutto chiuso, ci mettiamo lì tranquilli ad aspettare che qualcosa si muova. Verso le 2.30 mettiamo in moto per guadagnare qualche metro: siamo invitati a presentare passaporti e documentazione. Raccontare come e qualmente si stiano riproponendo gli stessi meccanismi burocratici di Odessa sarebbe davvero noioso. Preferiamo tenere per noi il ricordo di quelle odiose attese, di quegli spostamenti da ufficio a ufficio, da funzionario a funzionario. L’ostacolo più grosso è stato l’ingresso in Moldavia, avvenuto più o meno verso le 5.30 di mattina. Usufruisco dei servizi igienici per il pubblico, perché non si può fare altro. Una turca invasa di feci e orina, senza possibilità di normale posizionamento dei piedi. Un’esperienza agghiacciante, seconda solo per intensità a quella da me vissuta a Kabul nel 1974. Non faccio a tempo a uscirne scombussolato che vedo Elena avvicinarsi. Le dico “guarda, se puoi evita, è un posto pazzesco”. Elena pensa “se lo dice papà, di certo non ha nulla di umano… però mi scappa proprio”. Tra cani, reti e poliziotti non ha altre possibilità, non è che può accucciarsi e via andare. Così entra, e a me spiace davvero che le sia così inevitabile quell’inferno. “Un’esperienza tossica, un odore che ti entra nelle narici e non ti molla più”, racconterà.

Sotto l’attacco delle zanzare

Dopo il chilometro in terra moldava, ritroviamo il confine per uscire, altra coda micidiale, mitigata dalla bellezza di una poliziotta. Alla fine riusciamo a entrare in Romania verso le 7.30.

Achille ed io ci stendiamo sul letto, ora saranno Elena e Guya a guidare verso Galati, per scoprire che lì non c’è ponte e bisogna traghettare sul Danubio per pochi minuti. Le due si divertono un casino a commentare le anziane signore con il foulard o le “sciure” rumene scese da un pullman che continuano a fotografarsi ridendo, salvo diventare serissime al momento degli scatti. Di Braila non vedo nulla, anche se poi mi diranno essere tutto molto bello, e ci risvegliamo soltanto a Tulcea, mentre Elena cerca posteggio. Dobbiamo assolutamente cambiare denaro in moneta locale.

La nostra autista, come un’anguilla che entra nella trappola con ingresso a imbuto e non sa che non potrà uscirne mai più, s’infila in una viuzza a fondo cieco e abbastanza affollata, dove non solo sarà impossibile posteggiare, ma sarà anche complicato fare retromarcia.

– Elena, guarda che qui non ci puoi passare…
– Ma pensi di trovare posto, qui?
– Ma poi come fai a fare retro? Vuoi che faccia io?
– Cazzo, ma vi siete appena svegliati e subito rompete i maroni!

Inizia il giro sul delta del Danubio

Sentiamo gli sguardi di tutti addosso, è chiaro che stiamo violando un codice di comportamento. E quando finalmente, usciti dalla morsa, troviamo un possibile posteggio, questo è pure in leggera discesa, quindi freno a mano, manovre, sbuffi. La tensione tra i giovani sale ancora, è chiaro che Elena vuole dimostrare di avere tutto sotto controllo e d’essere capace di fare quella manovra che sta mettendo a dura prova la frizione: mentre Achille teme, dovendo poi rifare il posteggio, di dover sottolineare l’inadeguatezza di chi ha fatto quella scelta.

– Va bene Guya, lasciamoli qui a farselo loro ‘sto cazzo di posteggio e noi andiamo a cambiare i soldi!

Rimasti soli, dico ad Achille che Elena voleva lodi per il lungo viaggio dalla frontiera a lì e invece si è presa solo riprovazioni. Ci ripromettiamo di rimediare mentre cerchiamo un altro posteggio.

Il Delta

Nel risolvimento della questione diplomatica, ci avviamo anche alla ricerca dei battelli in partenza per il delta del Danubio. Dopo lunga ricerca una gentile signorina di un’agenzia ci convince, contro il suo interesse, che la partenza migliore per il tipo di escursione che vogliamo fare noi non è Tulcea, bensì Murighiol, a 37 km da qui. Il tragitto si svolge su una bella strada tra colline e campi coltivati, un panorama che finalmente possiamo goderci tutti e quattro assieme. Non facciamo a tempo ad arrivare ad alcun molo d’imbarco che veniamo catturati da un venditore nato: questi ci convince che abbiamo incontrato l’uomo giusto. Conveniamo con lui un orario di partenza, le 17, che ci permetta di girare per il delta con la luce del tramonto. L’uomo, non potendo sapere che noi preferiamo l’ora serale, si spinge a dire che adesso, di primo pomeriggio, fa troppo caldo; e poi, guardando proprio me aggiunge: “per persone di una certa età questo è sconsigliato…!”.

Anche il prezzo sembra onesto, così ci allontaniamo alla ricerca di un posto dove finalmente mangiare qualcosa e riposarci. Invece, all’ombra di uno sparuto albero accanto a un campo di mais, veniamo divorati vivi da un nugolo di zanzare mentre ci intestardiamo a lavare le stoviglie.

Elena modella per Thule

Fosse per me, non laverei mai nulla, andrei avanti anche dieci giorni a mangiare nello stesso piatto con la stessa forchetta e bere nello stesso bicchiere: ma non mi permetto di fare questo genere di osservazione.

Dopo aver rigovernato nello stress la roba ancora della sera prima, ci decidiamo a cercare un’altra location, al sole ma più ventilata, che ci permetta di cucinare e lo stravacco sull’erba. E la troviamo. Finalmente, per due ore possiamo tirare il fiato. Abbiamo un programma che, incredibile, sta per realizzarsi.

Ci presentiamo puntuali all’appuntamento. La barca è proprio di quelle turistiche, assieme a noi c’è una famiglia di rumeni e una coppia di cinesi. Il marinaio non sarà il nostro imbonitore ma suo fratello, decisamente più taciturno. Iniziamo il nostro giro traversando rami del grande fiume, ma anche canali più riposti e quasi paludosi, passando per barriere vegetali e imprevedibili corridoi e incontrando uccelli di ogni specie. Il nostro “skipper” è più loquace di prima e ci elenca i nomi dei volatili, noi intanto osserviamo incantati lo svolgersi di tanta vita selvatica. Era ora! Dopo tanti giorni di strada, traghetto, dogane e tirate notturne finalmente possiamo dire che il nostro viaggio comincia ad avere un senso! Siamo così felici e sereni che non c’importa di fare esattamente ciò che fanno i turisti normali. Francamente un po’ lo desideriamo, essere normali.

Tramonto e girasole

Achille è scatenato, produce una quantità di foto, al paesaggio, agli uccelli ma anche a Elena che fa da modella per lo zainetto della svedese Thule.

Il momento più bello è indubbiamente il primo incontro con i cormorani, dei quali c’è grande abbondanza. E con i giganteschi pellicani. Ci avviciniamo piano, per non farli alzare in volo subito. Ma poi la cosa accade, come a un segnale a noi invisibile, ed è uno spettacolo della natura. Notiamo anche di essere soli, non ci sono altre imbarcazioni in questo magnifico ecosistema di uccelli e pesci. Non c’è una gran luce, il sole non riesce a filtrare neppure un raggio di colore attraverso la nuvolaglia dell’orizzonte, indefinito tra il cielo e la massa d’acqua, quasi perduto nella sottile striscia di alberi che li divide.

E’ ancora chiaro quando ritorniamo, ora la luce è più bella.

Facciamo rifornimento a una fontana, riempiendo tre o quattro taniche di un’acqua che solo dopo ci apparirà verdastra. Butteremo via tutto, anche le taniche “infettate”, pensando sia l’acqua del Danubio…
Ci avviamo tra meravigliosi campi di girasole, tra colori e solitudini che non dimenticheremo mai.

Verso Murighiol

Un tempo avrei inveito contro la sorte: perché solo adesso i raggi di sole? Non potevano arrivare prima, quando li aspettavamo? Per fortuna, nessuno dei miei compagni sembra abbia questo problema. Io di certo sono guarito, anzi gioisco della mia guarigione: ciò che arriva è ciò che è giusto. Ciò che non arriva, non doveva arrivare, non in quel momento, almeno. E’ la prima regoletta per la felicità.
A Murighiol ci regaliamo anche un ottimo ristorante, dove vanno giù un po’ duri con l’aglio e dove siamo costretti a cenare dentro per via delle zanzare. Poi ripartiamo nella notte alla ricerca di un luogo in cui fermarci a dormire.

Siamo Elena ed io coloro che dovrebbero guidare e nello stesso tempo scegliere il luogo di sosta notturna. Ma siamo così concentrati nel nostro chiacchierare che il tempo scorre e ci troviamo allo stesso traghetto di Galati di cui ho raccontato sopra. E’ l’una di notte, scelgo il punto più lontano dalle luci del piazzale, quasi a sbalzo sul Danubio, e spengo il motore. Va detto che tanto interesse nel nostro dialogo non è giustificato dagli argomenti, principalmente cosa significhi in psicologia il defecare, quanto io sia lontano dal provare piacere ogni volta che espleto le mie funzioni corporali e cosa sottolinei nella psiche di un individuo la momentanea o ripetuta stitichezza.

E’ bello pisciare direttamente nel Danubio, prima di dormire. E anche domattina appena svegli.

(continua su https://gognablog.sherpa-gate.com/quel-che-resta-di-un-culo-2/)

Quel che resta di un culo – 1 ultima modifica: 2020-06-24T05:09:16+02:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Quel che resta di un culo – 1”

  1. Da buon genovese, un bel racconto con alcuni toni “fantozziani” 🙂
    Molto bello e divertente!!

  2. Racconto molto bello e divertente! Scrivi bene Capo. È stato interessante seguire il vostro viaggio Con i tuoi occhi. Guya ne era entusiasta!

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