Metadiario – 107 – Quelle demande? (AG 1982-003)
Era più o meno da un anno che avevo il conto in sospeso con il Verdon: la visita con Popi Miotti e Guido Azzalea, tormentata dalle piogge, ci aveva impedito di salire la voie de la Demande e altro.
Così il 21 maggio 1982 calammo in forze in Provenza, stipati nel mio minibus verde, decisi a farci le vie che da qualche anno riempivano le cronache delle riviste di arrampicata e di alpinismo.
La prima via ad essere spuntata il mattino dopo fu Tuyou d’Orgue: dalla ringhiera ci calammo a corda doppia in quattro con Giovanni Rosti, Anne-Lise Rochat e Piero Ravà.
Già l’anno prima, per fare Necronomicon, avevamo provato l’ebbrezza delle doppie in Verdon. Certo, nulla di speciale come manovra. Ma garantisco emozione assicurata ogni volta che dall’orlo del canyon ci si butta giù in quel vuoto del tutto particolare. Tuyou d’Orgue non è memorabile, risente un po’ di una concezione un po’ vecchia di intendere l’arrampicata, forse perché inserita in questo luogo in cui si sono sviluppate idee così moderne. Una linea in fessura e camini, peraltro non esaltanti, può entrarci come i cavoli a merenda. Ma sapevamo che era una delle vie da fare e la facemmo.
Il 23 maggio con Piero Ravà ritornai alla Demande, la splendida via che Joël Coqueugniot e François Guillot avevano aperto nel 1968. Con noi erano anche Giovanni Rosti e Guido Azzalea.
Quelle demande?
La Demande? «Una delle più classiche vie della Provenza», un itinerario che prima ancora dello scoppio del Verdon aveva già oltrepassato i confini del canyon in cui è scolpito. Fino a vent’anni prima l’eldorado dell’arrampicatore era sulle Dolomiti, ma in seguito ci fu uno spostamento d’energia e di amori e le falesie più sconosciute assursero a tempio delle moderne religioni dell’arrampicata. Si deve riconoscere che la Demande, pur essendo moderna, non figura nel ristretto numero delle vie «in»: forse è troppo lunga, forse è troppo «facile» in confronto ad altri nomi più alla moda, vedi Pichenibule, Necronomicon, Mangustine Scatophage, Mirroir du Fou. È quindi un itinerario di transizione, una via di mezzo tra il classico e il supermoderno. Ma se si considera che ogni epoca ha i suoi miti, ecco che nel futuro la Demande non sarà più transizione, sarà solo passato, com’è destino di tutte le cose: le auguro solo un passato storico, che almeno nei libri sia citata come «uno dei primi itinerari del mitico Verdon».
Il canyon del Verdon è ambiente assai singolare, forse unico al mondo. Scalando le sue pareti, ad esempio in spaccata sul camino finale della Demande, ogni tanto ci si guarda attorno, quando non si è troppo impegnati. Si vive un’atmosfera non definita, fatta di tenui sensazioni immerse in forti contrasti. Il torrente che scorre al fondo e spinge in alto uno scroscio sempre diverso e sempre uguale; un leggero vento che mitiga il sole già forte di maggio; i colori che sembrano tutti riflessi dal bianco accecante del calcare; infine la sensazione del vuoto che ti circonda senza soffocare, che esclude qualunque altra presenza. Un vuoto racchiuso dalle pareti del canyon magico, dalle quinte non tutte visibili, così da poter apparire più lungo e sterminato di quanto non sia. Ma in questo gioco di specchi, labirinto segnato da pance gialle, ginepri contorti, gocce di pietra, provai una sensazione tenue più forte di tutte. Mi sembrava di essere in una cattedrale gigantesca, ma non in una costruzione che assomigliava ad una cattedrale, piuttosto ero assorbito nell’idea di cattedrale, quindi di quel luogo dove si esprime la fede di una gente. Nel Verdon si stava facendo storia. Migliaia di ragazzi accorrevano da ogni parte dell’Europa e perfino dall’America e dal Giappone. I libri, le riviste non potevano dimenticare queste gole, i più bravi arrampicatori facevano copertina. La nuova filosofia dell’arrampicata sportiva, il rifiuto almeno parziale dell’alpinismo eroico, volevano il loro tempio, il loro Triomphe d’Eros.
Io, ormai non più giovanissimo, non sentivo di dover decidere. Oggi ero lì, domani non lo sapevo. Ma era importante che la via che stavo salendo potesse esprimersi dentro di me.
La Demande ha provocato in molti il solito quesito: domandare che cosa? È destino che dobbiamo sempre domandare? Domandare qualcosa di preciso e di materiale non è opportuno, forse è squallido; e chiedere senza sapere cosa chiedere è infantile.
Il Verdon era probabilmente un bel palcoscenico che molti scambiavano per un altare, come se non ci fossero altre chiese e altre religioni. Ma sullo stesso palcoscenico si possono recitare gli spettacoli più diversi, da Eschilo a Molière oppure dall’operetta allo spettacolino di spogliarello.
In quel momento c’era chi diceva che eravamo molto vicini all’ultimo stadio, ci piacevano il muscolo nudo, le posizioni plastiche, i movimenti dinamici, la levitazione fisica. Eravamo affascinati dalle nuove potenzialità del nostro corpo. Era forse questa la domanda che ci veniva suggerito di porci? Dove saremmo arrivati? Il muscolo era triviale? Dov’era andata la purezza della montagna, il nobile ideale che aveva sorretto tante generazioni?
Oppure bastava un ginepro con il suo tronco filamentoso e duro, contorto come una mente, a suggerire che quella era la nostra posizione in questo mondo di domande che esigono una risposta, quella esatta e solo quella?
La bellezza di un luogo, se aggredita e profanata, può diventare volgare. Ma chi stabilisce chi aggredisce e quando? Se due ragazzi dello Yorkshire arrivavano lì senza soldi e senza nome e salivano la Demande erano o no in sospetto di aggressione? Per me erano false colpe, false accuse, si può essere soli anche in mezzo alla fila di cordate, si possono trovare amici anche se non c’è nessuno, il tempo in cui il robot Mazinga farà la Demande era ancora lontano, forse quando il rosmarino non sarebbe stato più profumato. Probabilmente non abbiamo mai avuto a che fare con il Verdon reale perché trattavamo e discutevamo solo con l’immagine che in quel momento storico ce ne facevamo. E quando ci trovavamo ad arrampicare non succedeva automaticamente che ci liberassimo dalle idee. Rimanevamo incastrati nei nostri condizionamenti, pretendendo che essi fossero le nostre scelte in libertà.
Ma c’erano dei momenti, a volte quando agganciavamo un chiodo, quando sistemavamo un coinceur per rinforzare una sosta, oppure quando ti sentivi aprire in due da una spaccata dolorosa, non sapevi comunque quando, momenti in cui sentivi che c’era qualcosa di arcano, di misteriosamente bello e normale, qualcosa che prima sfuggiva e che non si poteva domandare. Un’apertura verso un altro mondo di cui forse il Verdon era solo un simulacro e la Demande era solo una via fra le tante. Grazie agli alpinisti del XIX secolo, e poi grazie a Preuss, a Comici, a Guillot, a Coqueugniot e a tanti altri, grazie agli sconosciuti, potevamo arrampicare su quella fessura meravigliosamente obliqua senza paura, semmai solo con il timore di non aprirsi a sufficienza, di non vedere, di non urlare la nostra gioia interiore. L’amore per la pietra, il linguaggio minerale sono doni che bisogna portare e offrire, senza sperare di ricevere e senza cercare di riavere. Il paradiso è perduto, possiamo solo ricordare, in questa dimensione. Più che una Domanda è un impegno che io sento: l’impegno di rispettare l’assoluta insignificanza di idee quali, giustamente contrapposte, suonano: classico-moderno, elegante-volgare, spirituale-atletico, mente-muscoli e pelle, serio-sguaiato, accarezzare i gratton-bucare a spit. È un impegno che viene naturalmente, dopo anni di discussioni sterili, dopo aver spaccato in quattro il capello e dopo essersi ritrovati più poveri di prima.
Il resto della vacanza
Quella sera ricordo che tornai al campeggio particolarmente gasato e, complice quella felicità, gustai ancora di più le libagioni, già peraltro iniziate all’uscita con le bottiglie di vino bianco tenuto fresco nel miracoloso cassone di legno che faceva da base al letto. Quando ci sentivamo a livello iniziavano i preparativi per la cena che in genere preparavo io per tutti (anche nove-dieci persone): si trattava di piatti assai semplici e veloci da preparare, dove il riso e il peperoncino imperavano. Di lì la “favola” che il “Capo” preparava per la truppa il Viet cibo. Viet cibo? Può darsi, ma il vino rosso che tutti trangugiavano non veniva certo dal Vietnam…
Dopo cena e dopo le solite accanite discussioni, era la volta di un giro in paese, alternando i due bar, entrambi forniti di calcetto, scusa per feroci competizioni con altri arrampicatori di tutt’altra nazionalità. E pretesto anche per qualche altro giro di “bière pression”.
Ma siccome avevamo tutti un “fisico bestiale” la mattina dopo eravamo pronti per altre avventure. Il 24 maggio mi attendeva l’Éperon Sublime: ci andai con Guido Azzalea e altri due suoi amici valdostani. Due chiodi mi fecero un po’ dannare, ma alla fine li usai… Bella via, espostissima, su una roccia esemplare.
Il 25 per attaccare Ula, con Gabriele Beuchod e il suo amico Osvaldo, scendemmo all’inizio del sentiero Martel e ci facemmo la strada con le gallerie. Ula è fantastica, una classica per gli amatori della scalata in fessura: dura, atletica, richiede continue contorsioni, quelle evoluzioni in cui Beuchod era maestro ma anche un po’ noi, tutto sommato… visto che l’abbiamo salita on sight. Quando se ne esce spiace perfino!
Dopo quattro giorni abbastanza impegnativi era giusto che il 26 maggio facessimo qualcosa di più “turistico”. Così andammo alla classica Arête du Belvedere. La compagnia era composta da Nella, Gabriele Beuchod, Momo, Osvaldo e Giuliana Scaglioni. Bello quando si divertono tutti e nessuno sta solo ad aspettare.
Ma il 27 maggio si ricominciò con la solita musica: questa volta ancora calandoci dall’alto su Dingomaniaque, con Piero Ravà, Gabriele Beuchod e Vittorio Neri. Di questa via ricordo molto poco: solo che era molto bella ed esposta. Con Gabriele, non contenti, subito dopo ci calammo per salire O.R.N.I., altro itinerario che quasi non ricordo. Ho solo scritto che l’ho fatto on sight.
Il 28 maggio con Gabriele andai a fare il Diedre des Rappels. Ne valse davvero la pena, perché è una via magnifica, al suo livello molto sostenuta e omogenea, ben proteggibile e con roccia e arrampicata di grandissima bellezza. Se non ricordo male l’ultima lunghezza è stata la più coriacea, certo da non sottovalutare. E on sight anche lei!
Il 29 maggio non potevamo mancare l’altra grande classica in fessura, LunaBong, assieme a Giovanni, Gabriele e Osvaldo. Forse ero un po’ stanco, ma su quella via mi aggrappai a “ben” 3 protezioni… Di certo non ritenni la cosa così importante, però lo scrissi sulla mia agenda.
L’ultimo giorno (30 maggio) fu speciale perché avemmo l’onore di fare una scalata con Patrick Edlinger. Lui stesso suggerì, per fare delle belle foto su una via che potessimo fare anche noi senza fare troppa artificiale, di prendere in considerazione una via chiodata da poco, Dure en Dalle (gioco di parole con Durandal, o Durlindana in italiano, la mitica spada di Orlando, il paladino di Carlo Magno). Ci calammo Gabriele, Giovanni ed io assieme a Patrick. Scalando da secondo, bombardai Patrick con un centinaio di scatti.
Saliva con una facilità e una scioltezza impressionanti, a volte non avevo il tempo di fermarlo nei movimenti più plastici. E non avevo neppure il coraggio di chiedergli di ripetere… Anche se, lo avessi fatto, mi avrebbe certamente accontentato.
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Vittorio ..un amico.. e un indizio..come pergogna
Il Verdon non esiste , si vede chiaramente la manipolazione fotografica, anche se c’è del mestiere bisogna ammetterlo.. La ricostruzione in studio è lampante e pure Patrick mi pare sia stato assoldato e pagato già allora con franchi falsi.
firmato
Movimento Negazionista del Verdon…😉
Le foto di Edlinger con le EB ai piedi sono una vera chicca…
Per chi fosse interessato a rileggere la storia dell’arrampicata nelle mitiche Gorges, ricordo (fra gli altri) due articoli proposti qui sul Blog qualche tempo fa:
https://gognablog.sherpa-gate.com/verdon-la-nascita-di-un-mito-1/
https://gognablog.sherpa-gate.com/verdon-la-nascita-di-un-mito-2/
Arrampicare senza porsi domande su cosa si prova quando si guarda la linea di una via, quando si spingesse un piede, quando si stringe un appiglio, quando dopo ci si beve una birra con gli amici e quando si pensa prima di addormentarci, avrebbe senso?