Questa è l’Outdoor Education – 2

Questa è l’Outdoor Education – 2
a cura di Vendül

Prepararsi ad essere impreparati
(pratiche e teorie emergenti dell’Educazione Avventura)
di Tommaso Reato

“E ora che ne sarà
del mio viaggio?
Troppo accuratamente l’ho studiato
senza saperne nulla. Un imprevisto
è la sola speranza. Ma mi dicono
che è una stoltezza dirselo (Eugenio Montale, Prima del viaggio in Satura, 1971)”.

1. Per un’educazione dell’incertezza
Oggi, nel tempo della pandemia, la riflessione e la pratica pedagogica sono costrette per forza di cose a confrontarsi sul significato di incertezza e imprevisto. Da un lato, tutto il mondo dell’educazione è stato investito dalla necessità di cambiare e adattarsi a condizioni operative nuove, come è accaduto a tutti gli ambiti di vita e di professione. Dall’altro, la situazione pandemica può rappresentare l’opportunità per approfondire il significato educativo di aspetti quali incertezza, mutabilità ed imprevedibilità, non solo da un punto di vista organizzativo e strumentale. Resistendo alla tentazione di accettare l’incerto solo nella misura in cui esso si dimostra docile e si fa controllare, gestire, depotenziare, si propone di sostare nell’incertezza per coglierne la struttura ed esplorarne le opportunità d’apprendimento in una sorta di esercizio di pensiero antifragile (Taleb, 2012).

In questa direzione si sviluppano, ad esempio, le prospettive delle ricerche sulla leadership adattiva in ambito organizzativo e sulle competenze d’improvvisazione in ambito educativo. La prima delinea un modello di gestione sollecitato da situazioni di disequilibrio e cambiamento irriducibili a soluzioni tecniche o procedurali (Grasham, Heifetz, Linsky, 2019). La seconda intende valorizzare la dimensione improvvisativa propria delle professioni educative, mostrando come saper improvvisare significhi mostrare attenzione al presente della pratica e all’accadere dell’incontro con altri che comportano un insieme di noto ed ignoto, atteso e inatteso, prevedibile e imprevedibile (Zorzi, Camedda, Santi, 2018). In entrambi i casi, vogliamo cogliere l’invito a oltrepassare la sfera della resilienza, procedendo verso la descrizione di una competenza dell’incerto, una capacità di agire in modo generativo, perché “ciò che è resiliente resiste agli shock e rimane identico a sé stesso. L’antifragile migliora” (Taleb, 2012, p. 1).

Resta, allora, da comprendere come coltivare una competenza dell’incertezza o, detto altrimenti, come prepararsi ad essere impreparati (1). Il presente contributo intende muoversi in questa direzione, ed esplorare le opportunità di un incontro generativo fra apprendimento e incertezza facendo riferimento all’ambito pedagogico dell’Outdoor Education (di seguito OE), in quanto ci sembra un approccio particolarmente attuale rispetto alle sfide poste della questione ecologica. All’interno della moltitudine di esperienze d’apprendimento outdoor ci concentreremo sulle esperienze di Outdoor Adventure Education, ambito di pratica traducibile nella nostra lingua come Educazione Avventura (Gigli, 2018), in quanto, più di altri, rappresenta una scommessa sul valore generativo e formativo di aspetti quali rischio, incertezza e imprevedibilità connessi all’esperienza in natura.

2. Apprendere fuori: fra opportunità e criticità
Pensare i processi di apprendimento a partire dal contesto sembra essere il tratto comune di tutte le esperienze che ricadono sotto la definizione di Outdoor Education (OE). A livello nazionale ed internazionale, con questa espressione si intercetta l’insieme di pratiche educative, esperienze e progettualità formative che interpretano intenzionalmente i contesti esterni all’aula come ambienti d’apprendimento e non solo come spazi ludici o utili all’esercizio fisico (Farné, 2018; Zanato Orlandini 2020). Non è nuova l’idea che il contesto fisico sia un fattore chiave del processo educativo. Anzi, essa rappresenta un vero e proprio principio di molti classici del pensiero pedagogico, basti pensare alle figure di Froebel, di Dewey e, soprattutto, all’opera di Maria Montessori, emblematica nella convinzione di mettere al centro della riflessione educativa il ruolo dell’ambiente (Montessori, 1948).

Collegandoci al tema del presente contributo, potremmo domandarci se abitualmente i contesti d’apprendimento siano pensati e allestiti per neutralizzare l’incertezza o, invece, per valorizzarla, rendendola generativa. Se scuola e contesti educativi indoor evocano per lo più il progetto di un’esperienza d’apprendimento a complessità ridotta, il contesto naturale sembra, invece, possedere caratteristiche tali da renderlo complesso ed imprevedibile, denso di significati attuali e possibili, carico di opportunità, attrattivo ma allo stesso tempo potenzialmente ostile, selvatico fino ad essere pericoloso. La natura emerge, allora, come contesto intelligente (Guerra, 2020), ricco di opportunità per la formazione di conoscenze e competenze, anche e soprattutto per l’esercizio di un pensiero complesso (Bertolino, 2017).

D’altra parte, collocare i percorsi educativi in ambiente naturale non chiude la questione pedagogica, anzi, la apre. La questione di come attraversare i contesti outdoor, tema squisitamente pedagogico, ci porta a intercettare la domanda sulla relazione con gli elementi imprevedibili e aleatori dell’esperienza, ed è per questo che vogliamo considerare più da vicino la pratica dell’Educazione Avventura (di seguito EA) di cui ripercorreremo brevemente le vicende storiche e concettuali.

3. L’Educazione Avventura: pratica in cerca di buone teorie
Una data di nascita simbolica dell’EA potrebbe essere il 1984, anno di pubblicazione di The Adventure Alternative a firma di Colin Mortlock, figura autorevole di area anglosassone dell’EA (Nicol, 2007). Qui si intende delimitare il campo delle pratiche di Educazione Avventura, segnando il confine con le altre esperienze formative in natura di educazione ambientale, quali ad esempio visite naturalistiche e orticoltura didattica, e con l’ambito ludico sportivo proprio di alpinismo, escursionismo e così via.

Gli elementi che definiscono l’EA sono fondamentalmente due e ci sembrano ancora validi, nonostante gli sviluppi di cui brevemente diremo. Il primo si riferisce al genere di esperienze proprie di un approccio avventuroso e in particolare al valore del rischio, assunto come fattore determinante del rapporto con la natura che l’attività avventurosa istituisce (Wurdinger, 1996). Avventura significa, perciò, esposizione intenzionale ad ambienti non familiari, ostili e che richiedono un confronto con situazioni rischiose le quali provocano l’esercizio e l’affinamento di risorse tecniche e personali (Gigli, 2018).

Il secondo elemento riguarda, invece, il significato pedagogico attribuito all’esperienza, ovvero la scelta di valorizzarla innanzitutto come vissuto interiore e solo secondariamente rispetto ai suoi contenuti oggettivi. L’EA sembra votata alla formazione di competenze personali e trasversali, connesse alla consapevolezza di sé, alla sfera emotiva e all’educazione del carattere.

In realtà, il testo di Mortlock non è che il punto di arrivo di una storia più lunga e articolata, sorta dalle sperimentazioni dell’Outward Bound School fra le due guerre mondiali. Sono soprattutto le istituzioni educative promosse da Kurt Hahn, dapprima in Germania e quindi nel Regno Unito, ad essere le fonti di riflessione e di studio delle prime ricerche sull’EA (Bortolotti, 2018). Non a caso, la diffusione dell’Educazione Avventura privilegia i paesi di cultura anglosassone, quali Regno Unito e Stati Uniti ma anche Australia e Nuova Zelanda. Gradualmente pratiche di Educazione Avventura si diffondono anche altrove, come in Germania, Belgio e Repubblica Ceca. Quanto all’Italia, lo stato dell’arte della pratica e della ricerca sono state recentissimamente recensite restituendo un’immagine per certi versi non dissimile da quella internazionale (Gigli, Melotti e Borelli, 2020) seppur ad un livello inferiore di evoluzione.

Non intendiamo qui recensire quanto emerge dalle principali revisioni della letteratura internazionale rispetto all’efficacia delle pratiche di AE (Bortolotti, 2018) né in relazione all’impatto delle singole componenti dei programmi sulle dinamiche di apprendimento (McKenzie, 2003). Ci interessa, piuttosto, seguire l’evoluzione del quadro teorico in cui l’EA si riconosce, percorso ancora del tutto aperto e in fieri, guardando al quale si può dire che l’adventure education sia una pratica in cerca di una adeguata teoria (Brown, 2009).

Ecco, allora, che in una fase iniziale, assolutamente pionieristica e sorretta da suggestioni filosofiche (Platone, Aristotele) e letterarie (Thoreau, London, Leopold fra gli altri) l’approccio educativo sembra identificarsi con un motto che recita: mountains speak for themselves (Bacon, 1983). Grandi esperienze per durata ed intensità sono affiancate da momenti non strutturati di riflessione individuale o in gruppo, senza che ciò comporti particolari attenzioni pedagogiche o criteri di progettazione. Evidentemente, non vengono elaborati dispositivi d’apprendimento o specifici programmi di riflessione. Tutto si edifica a partire da una fiducia incondizionata nella capacità evocativa e formativa della natura estrema o, per meglio dire, della wilderness.

Successivamente, questo approccio spontaneo e un poco romantico, viene a confrontarsi con l’esigenza di una maggior struttura pedagogica. La durata dei programmi tende a diminuire, in modo da facilitare la replicabilità e la diffusione delle esperienze. Queste iniziano ad essere rivolte a diversi ambiti oltre a quello genericamente educativo e l’outdoor training diventa interessante per lo sviluppo organizzativo, con programmi consolidati in aziende ed università. Anche il lavoro con gruppi con bisogni speciali (alcolisti e tossicodipendenti, giovani a rischio, reduci di guerra) induce ad un approfondimento teorico e metodologico. Gli elementi centrali del processo d’apprendimento diventano il ruolo dell’istruttore-facilitatore (instructor) che struttura i diversi momenti di debriefing (Walsh, Golin, 1976) e l’adozione di metafore che accompagnano il divenire concreto dell’esperienza (Bacon, 1983).

In questa fase, l’esplorazione avventurosa della natura tende a declinarsi come un insieme di attività a difficoltà crescente, intervallate da momenti di revisione il cui senso globale, molto spesso, è già racchiuso nelle cornici metaforiche che pre-figurano l’esperienza. Arrivare alla cima della montagna rappresenta il raggiungimento dell’obiettivo personale o organizzativo; preparare lo zaino e scegliere il sentiero è metafora di strategia e organizzazione; la fatica fisica corrisponde all’impegno personale e così via. L’industria dell’adventure education sembra ottenere vantaggi da questa forma di standardizzazione, ma diventa legittimo chiedersi dove sia finita l’avventura laddove tutto è programmato sia in termini pratici che rispetto alla costruzione dei significati (Hovelynck, 2001; Beames, 2006).

Attorno al cambio di millennio, voci dissonanti iniziano ad accumularsi e si profila l’esigenza di una comprensione teorica più complessa e integrale dell’EA. Il modello prevalente viene criticato come schematico, ripetevo e rigido, così come vengono stigmatizzate le sue origini militaresche ancora influenti (Loynes, 2002). Allo stesso tempo, viene invocata una maggior attenzione per la dimensione ecologica con un approfondimento del significato attribuito all’ambiente naturale (King, Hardwell, Brymer, Bedford, 2020). Se l’unica caratteristica pedagogicamente rilevante sembrava essere l’ostilità (wilderness) ora si recupera una maggior attenzione alla capacità ristorativa e accogliente del contesto naturale e alla possibilità di esperire in natura un senso dei luoghi (Nicol e Higgins, 1998). Allargare la visione circa il ruolo dell’ambiente apre alla progettazione di esperienze in contesti non estremi ma vicini ai luoghi di vita e di istruzione avvicinandosi all’ambito di una pedagogia del luogo (Orr, 1992) e ai temi della sostenibilità.

La maggior efficacia di esperienze avventurose intese in senso ampio, rispetto ad attività brevi e dal forte impatto emotivo in quanto “estreme” (Rubens, 1999), porta a riconsiderare il ruolo dell’istruttore, meno come tecnico e più come orientato alle dinamiche di apprendimento con maggiori competenze relazionali e riflessive (Ringer, 1999).

La visione d’insieme del processo di apprendimento in EA appare ora molto diversa da quella di un percorso lineare, schematico e prevedibile; sembra, piuttosto, la risultante di una complessità di fattori interconnessi, tenuti in tensione educativa dal ruolo chiave attribuito alla riflessività (Martin, 2001; McKenzie, 2003). In questo modello emergente, un ruolo trasformativo di primo piamo è attribuito a singoli eventi d’apprendimento, momenti serendipici non previsti ma promossi indirettamente e riconosciuti come i fattori maggiormente significativi dell’esperienza di apprendimento (Asfeld, Beames, 2017).

4. L’avventura: un tempo per il non-so-che
Il concetto di avventura, seppur analizzato criticamente per il suo utilizzo retorico e considerato funzionale al consumo d’esperienze (Brown, Beames, 2017), rappresenta ancora una chiave di lettura utile per prepararsi ad essere impreparati. Uno dei rari contributi teoretici che abbiano messo a tema è quello del filosofo francese Vladimir Jankélévitch, le cui riflessioni sono contenute in un suo lavoro del 1963, intitolato L’avventura, la noia, la serietà. Da qui vorremmo partire per rilevare alcune coordinate teoriche utili a guardare all’avventura così come ad un aspetto generativo in senso antropologico e in prospettiva pedagogica. Avventura, noia e serietà sono per il filosofo francese tre diverse modalità di intendere e sperimentare la dimensione temporale dell’esperienza umana, ognuna legata ad una diversa percezione e significazione del tempo. Se noia e serietà appaiono legate principalmente alla durata e al presente, l’avventura si rivela come la modalità di intercettare il futuro che irrompe nell’istante presente. Scrive Vladimir Jankélévitch (1963):

«L’ambito dell’avventura è l’avvenire. Ma ciò che entra in gioco qui è un motivo ancor più profondo, e cioè il carattere anfibolico, ambiguo, equivoco dell’avventura. Come verificheremo, l’avventura è avventurosa in virtù della sua stessa ambiguità. L’avvenire è ambiguo innanzitutto perché è certo e incerto allo stesso tempo. [] So che, e non so cosa. L’avvenire è un non-so-che»(p. 10).

Nell’avventura non ci si rapporta ad un tempo lontano rispetto al quale si distendono progetti e pianificazione ma al prossimo futuro, quasi all’istante successivo. Si guarda, cioè, alla «zona infinitesimale del futuro prossimo e immediato». Questa, continua Jankélévitch, «si accorda all’improvvisazione più che all’escatologia» (p. 11), e descrive la tentazione di gettarsi in imprese estemporanee, le uniche capaci di cogliere «quello che ha in serbo per noi l’imprevedibile istante dell’attimo in istanza, e che ci fa battere il cuore» (p. 12).

Oscillante e contraddittoria, l’avventura si colloca esattamente sulla soglia, in uno spazio liminare di continuo passaggio fra dimensioni diverse e opposte, in primis fra il gioco e la serietà. La dimensione ludica o disinteressata del gioco apre ad una sospensione del quotidiano, delle sue regole e delle abitudini che lo guidano. Tuttavia, l’avventura non è gioco in senso stretto perché se lo fosse perderebbe del tutto d’interesse. «Provate ad eliminare uno dei due contrari, gioco e serietà, e l’avventura cessa di essere avventurosa: eliminando l’elemento ludico, l’avventura diventa una tragedia; se invece è la serietà a venire meno, l’avventura si trasforma in una partita a carte, un ridicolo passatempo e un’avventura da strapazzo» (p. 14).

Essa è, allora, un gioco serio, attività ludica in cui ci si gioca qualcosa di profondo e significativo. Ritroviamo qui la logica del serious game, in consonanza con pratiche d’apprendimento comuni all’ambito educativo e della formazione degli adulti.

Oscillante, ancora, è il rapporto dell’avventura con la decisione e con la responsabilità. Come annota Jankélévitch, «l’avventura dipende da me nel suo inizio, non sempre nella sua prosecuzione, e ancor meno per la sua fine» (p. 15). C’è nell’istante-che-viene una possibilità, un’indeterminatezza, un’apertura che non viene saturata dal progetto o dal problema che abbiamo dinnanzi ma rimanda sempre ad un non-so-che di incontrollabile, giocoso, tragico, imprevedibile e, forse, indicibile.

5. Quattro ipotesi (più una) di carattere metodologico per un apprendimento avventuroso
Oltre che una visione d’insieme, possiamo trarre dal pensiero di Jankélévitch alcune chiavi di lettura utili ad interpretare le pratiche di Educazione Avventura. Ecco allora, a chiusura di questa incompleta esplorazione fra educazione, natura e avventura, quattro ipotesi di carattere metodologico, quattro possibilità per promuovere un apprendimento avventuroso, in ambito outdoor ma non solo.

Preferire la mappa al navigatore, ovvero costruire progettazioni aperte. E’ un’esperienza comune quella di farsi guidare dal navigatore per raggiungere una destinazione, anche per diverse volte, e poi scoprirsi incapaci di ritornarci senza le indicazioni dello strumento. Usare una mappa, al contrario, richiede di formarsi in itinere una certa conoscenza del territorio, dovendo verificare in ogni momento dove ci si trova rispetto alla meta. Fuori dalla metafora, una progettazione educativa aperta implica un certo livello di indeterminazione rispetto ad obiettivi, contenuti, percorsi e tempi. Processi di apprendimento open ended possono realizzarsi a differenti livelli, lasciando ampi spazi di negoziazione fra educatori e discenti (Beames, 2006). Questo, oltre a attivare le dimensioni del desiderio, dell’interesse e della responsabilità supporta l’emergere delle risorse già presenti e in formazione (Land, Hannafin, 1996), in un movimento fortemente abduttivo (Paparella, 2010). Preferire la mappa vuol dire, in sede di programmazione, non saturare tempi e spazi con attività concatenate in senso lineare ma piuttosto provocare i discenti alla scelta, proponendo opzioni alternative o mettendosi al seguito degli inviti (affordance) che emergono direttamente dal contesto quando viene attraversato con sguardo esplorativo (Guerra, 2019).

Correre il rischio, ovvero esporsi consapevolmente a ciò che potrebbe contrastare le nostre aspettative. Il tema delle attività rischiose va pensato in profondità, tenendo in conto sia istanze teoriche (Beck, 1992) che questioni di ordine pratico e organizzativo. Valorizzare la dimensione del rischio non significa per forza esporsi a rischi fisici; considerato in un senso allargato, la dimensione rischiosa dell’esperienza include molteplici declinazioni, fisica e emotiva, relazionale e cognitiva (Wurdinger, 1997; Frison, 2020). A seconda dei contesti, della tipologia di discente e degli obiettivi d’apprendimento si potrà considerare quali rischi conviene correre e quali no, mediando fra il bisogno di sicurezza e quello di offrire un adeguato livello di rischio benefico (Frison, 2020) e di incertezza generativa di apprendimento (Beames, 2006).

Favorire l’avventura dell’incontro, ovvero dare spazio all’incertezza nelle relazioni. La dimensione relazionale dell’esperienza è un ulteriore fattore di complessità che è possibile esplorare in modo avventuroso. La relazione educativa e la relazione fra pari diventano un luogo privilegiato di esercizio e formazione di competenze sociali e di un’autentica educazione all’incontro con altri. Un apprendimento relazionale avventuroso contempla lo svilupparsi di una dinamica di gruppo in cui hanno spazio frustrazione e conflitto, accanto a scoperta e simpatia, tenuti in equilibrio da una mediazione ad opera del conduttore da realizzarsi in diretta e volta per volta, improvvisando con competenza (Zorzi et al., 2018).

Raccontare l’avventura, ovvero costruire il senso a posteriori. Se l’avventura tocca il dominio dell’indicibile, ciò non significa che essa non possa venire alla parola. La riflessione (Frison, Fedeli, Tino, Minnoni, 2016) e la narrazione (Ricoeur, 1983) appariranno, allora, come i dispositivi formativi privilegiati per procedere in primis ad una descrizione e ad una documentazione dell’esperienza e, quindi, ad una sua ri-figurazione (Ricoeur, 1983). L’emergere dei significati diventa, in questo modo, il nucleo decisivo del processo d’apprendimento, anzi, rappresenta probabilmente la più intima specificità dell’EA. Mantenere anche rispetto alla riflessione un alto livello di apertura progettuale significa creare le condizioni per un apprendimento potenzialmente trasformativo, capace di incidere sulle prospettive di significato e non solo sui singoli aspetti della proposta educativa (Mezirow, 2003; Grandi, 2014).

Se poi l’avventura è davvero tale non potrà escludere un quinto movimento, un’ipotesi ulteriore che Jankélévitch suggerisce nelle ultime righe del suo saggio sull’avventura: «Aperta o chiusa, chiara od oscura, la vita appare così quando si è insieme dentro e fuori. […] Ma questo socchiudimento ci dà già modo di intravvedere l’infinito» (Jankélévitch, 1963, p. 37). Aperto nelle sue possibilità di sguardo e in relazione autentica con ciò che gli viene incontro, soprattutto se questa è la maestà della natura, un apprendimento avventuroso potrà intercettare le esperienze della meraviglia e dello stupore, vie d’accesso alla dimensione spirituale propria dell’esperienza umana ed educativa. Un ulteriore territorio da esplorare.

Nota
(1) L’espressione Prepararsi ad essere impreparati nasce dalle esperienze di apprendimento in natura del collettivo Vendül, di cui è parte l’autore, rivolte a giovani e adulti per lo sviluppo di competenze di leadership e di gestione di rischio e complessità.

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Questa è l’Outdoor Education – 2 ultima modifica: 2023-02-13T05:44:00+01:00 da GognaBlog

6 pensieri su “Questa è l’Outdoor Education – 2”

  1. Per quanto l’intento – l’integrazione in noi della disponibilità all’imprevisto – sia condivisibile, la mia personale modalità di perseguirlo si sviluppa in altra direzione.
     
    L’accettazione è una disponibilità che corrisponde alla consapevolezza che la nostra mappa mentale, quella che utilizziamo per procedere, non è altro che una nostra interpretazione del reale e che sempre contiene pretese.
    Senza le opportune prese di coscienza che permettono di osservare quanto sopra, la disponibilità all’accettazione non può affermarsi in noi, incarnarsi, se non intellettualmente. Capire non conta nulla. Ricreare è necessario.
    Ricreare è il termine che allude al processo individuale che permette di esprimere una certa consapevolezza a propria misura, con parole nostre, con intelligenza nostra.
    Formare è l’esatto opposto. Allude ad un modello ideale al quale il discente deve attenersi, deve riferirsi, un po’ come accade quando si segue un metodo e questo si accredita la verità, autocastrando così, inconsapevolmente, la propria creatività.
    Il corpo, il sé corporeo è nodale. Esso è assente nell’educazione e nella cultura se non come oggetto da vantare o nascondere. Esso è invece il terreno in cui scorrono sentimenti ed emozioni. Non dedicare spazio alla consapevolezza del corpo proprio, come viene detto in ambito psicomotorio, è un modo per favorire l’intellettualizzazione di qualunque proposta. Ovvero per relegarla a restare fuori da noi come un qualunque dato tecnico. Per accontentarsi dell'”ho capito!”, vero impedimento alla conoscenza di sé.
    Qualunque proposta che non ponga al centro il destinatario e tolga dal centro quanto si vuole affermare, sostenere, insegnare (ripugnante!) o formare (blasfemo!), alza il rischio di non essere in grado di cogliere la motivazione, la condizione, la cultura, i timori, il pensiero e il sentimento del destinatario stesso. Impedendo così di evolvere la nostra comunicazione al fine di trovare attraverso quale momento emozionale entrare in contatto con la persona. Diversamente siamo nel meccanicismo a pieno titolo.
    Osservazione del terreno ancora prima dell’impiego della mappa. Fare i cartografi (come, se non ho letto male, ha fatto Paolo) è proposta pertinente per riconoscere la propria relazione col mondo. 
    Più inglese elimineremo più avremo ricreato la nostra proposta.
    Sostituire educazione-avventura sarebbe cosa opportuna. Un po’ come aver eliminato il “pacchetto sicurezza” dal vocabolario.

  2. Articolo tecnico, direi propedeutico allo specifico tema didattico. Tuttavia focalizzato sul pianeta adulto: manca infatti un focus sul piano pedagogico della prima età. Scusate se torno ogni volta sui bambini, ma sono il mio campo e quindi mi interessa e mi piace prendere spunti da quello che leggo qui.
    Eppure l’avventura può essere vissuta come esperienza trasversale al confronto diretto con “l’ignoto” naturale, quasi una meta-esperienza, nelle quali classe e ambiente esterno si incontrano a metà strada.
    La scuola impone sicurezze che un’uscita outdoor non è in grado di garantire. Ma con fantasia (e l’inserimento di obiettivi trasversali differenti) è possibile coinvolgere i bambini in un’avventura reale, con tutti i rischi e le incertezze del confronto con un ambiente ostile e pericoloso.
    Nel 2012 e nel 2013, con due classi IV diverse, ho potuto condurre una “missione”, da scuola, in cui i bambini hanno predisposto il viaggio, i campionamenti, l’esplorazione di un monte fuori dalle rispettive città… inviando un robot. Missione che, con tutti i rischi di fallimento, incidenti, previsioni sbagliate, è stata in entrambi i casi trasmessa in diretta streaming a genitori, altre scuole, nonni e così via. 
    Avete presente le missioni Apollo sulla Luna? Stessa cosa.
    I bambini hanno sempre guardato la montagna da lontano, è rimasta sconosciuta e misteriosa. Ma hanno lavorato mesi, sulle mappe, sulle procedure delle squadre impegnate in vari compiti, sulle comunicazioni da tenere, sugli obiettivi da raggiungere, sulle capacità e i limiti del robot da radioguidare lassù.
    Robot che era una specie di massiccio trattore cingolato, grande solo una quarantina di cm, ma carico di sensori, telecamera, antenne.
    L’addestramento e la pianificazione sono durati quattro mesi, nei corridoi della scuola e in giardino. Hanno persino ricostruito le difficoltà e le asperità del terreno che le mappe (in parte preparate da noi) lasciavano intuire.
    Prove su prove, errori, incidenti, fallimenti e ancora prove.
    Poi la diretta e l’invio del robot, fino al raggiungimento degli obiettivi, con mezzo mondo che guardava, una squadra addestrata che correva tra le postazioni in classe per capire cosa stava avvenendo e raccontarlo al pubblico, gli altri impegnatissimi e sudati (e incasinati) a confrontarsi con una Natura che, per quanto prevista, non collaborava, spingendo il robot al limite.
    Alcune cose sono andate bene, altre no. Ma era proprio quello il bello: aver provato a prevedere tutto e cercare di cavarsela con quel che si poteva ancora fare.
    Si è trattato di una esperienza outdoor? O di una esperienza in classe senza confronto reale? Come classificare un ibrido-tentativo di mediare le due cose?
    Soprattutto: quanto hanno imparato e sperimentato sul piano didattico e pedagogico, ma anche su quello psicologico, individuale e di gruppo.
    Una cosa è certa: ci siamo divertiti un sacco e poi su quelle montagne, insieme ai genitori, ci siamo andati sul serio!

  3. “Preferire la mappa al navigatore”, ovvero costruire progettazioni aperte. 
     
    Parole sante! Non solo in montagna. Oggi sempre più spesso incappo di individui (m e f) che “non sanno dove sia il Nord”. Anche nelle vita di tutti i giorni. Non avendo una “stella polare” non hanno la minima idea della progettualità, professionale, individuale, esistenziale… Questa è la società degli zombie che vagano senza minimamente rendersi conto di sono siano e cosa stiano facendo. Non avendo chiaro “dove” vogliono andare, non sanno di certo improvvisare delle soluzioni a fronte di intoppi. Si perdono in un bicchier d’acqua.
     
    L’esperienza sul terreno è molto formativa a tal fine. Per questo bisogna prendere in mano la cordata il prima possibile, nella vita. la società della sicurezza a tutti i costi in montagna impedisce (o almeno rallenta) il processo formativo dell’individuo.

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