Quinta dimensione
di Lorenzo Merlo
(scritto il 14 aprile 2020)
Del dopo-virus. Se ne parla con 1. preoccupazione, 2. incertezza, 3. fiducia, 4. curiosità.
1. La crisi economica che seguirà quella sanitaria sarà più dura di quanto il virus e le politiche della sua gestione abbiano imposto.
2. Non sappiamo a cosa stiamo andando incontro. Sarà tutto diverso o riprenderà tale e quale? Cosa cambierà?
3. Ce la faremo e presto ripartiamo per recuperare il tempo perduto. È stato solo un tunnel. Finirà.
4. Vediamo se la lezione fisica e metafisica imposta dallo stop forzato corrisponde a un passo evolutivo.
Quattro posizioni, non certo tutte, ma sufficientemente emblematiche di quattro psicologie, sentimenti e quindi realtà. Si tratta di modelli, tutti autoctoni, tutti con radici occidentali, già presenti nella nostra cultura.
1. La paura deriva da un dio a noi esterno che per noi sceglie e provvede. Senza però mai anticiparci cosa farà per noi, nonostante le preghiere. È il retaggio del cristianesimo. La morale occidentale ne è pregna. Di base, nessuno può sfuggirle. Chi ritiene di essersi svincolato dalla vischiosa religione, a mio parere l’ha solo sostituita con l’elezione della ragione a supremo e solo riferimento della buona vita e dell’espiazione – nel senso di assoluzione – dai peccati commessi in nome del business.
2. L’incertezza invece, sebbene con forti parentele con la paura, ha più un valore che esprime l’individualismo quale solo riferimento per il pensiero ormai di tutti. Senza la comunità solo i pazzi e gli eroi possono fare i conti con se stessi.
3. Dai giovani arriva l’afflato di speranza e fiducia. Quale momento migliore di una crisi radicale e per rinnovare il mobilio, i programmi, le attenzioni, il futuro.
4. Chi invece si sente in attesa degli eventi per capire come stanno davvero le cose non può che essere ronda di se stesso mentre passa in rassegna tutti gli stati d’animo che lo attraversano. Punti cospicui, di guardia, garitte dalle quali tutti gli orizzonti precedenti si affacciano ad ogni angolo del fortino col quale vorremmo comunque proteggerci e trovare le sicurezze di prima, al momento traballanti anche per il curioso.
Ma c’è un quinto modello di pensiero forse ancora poco presente e considerato. Lo si può vedere, diciamo chiaramente, appena si acquisiranno le doti per la muta. Appena si riuscirà a svestirsi dai drappi in cui alloggiamo dalla nascita. In parte una morte simbolica è necessaria, per accedere a nuova vita, spesso più ricca, nel senso di più adatta a noi. E in generale più adatta a comprendere le dinamiche delle relazioni, della realtà, del mondo.
Lo si può vedere a causa della solita prospettiva che ora – gioco-forza, o quasi – ha ruotato il suo sguardo. Fino a ieri aveva sempre puntato a Ovest ora si è girata e guarda a Est. Da una parte c’era sempre stato il cestino pieno del ben di dio, dall’altra solo stranieri gialli senza dignità.
È il modello confucianista che si sta prendendo uno spicchio crescente nel giro d’orizzonte. E se lo è preso nonostante l’egemonia occidentale che fino a ieri affermava il suo diritto di prelazione per tutti i posti a sedere in sala. Se la testa d’ariete è economica, ad essa seguiranno modelli di pensiero. Al momento non pare cosa di poco conto.
Hollywood cesserà di diffondere i suoi standard di pensiero. E in poco tempo avremo a che fare col confucianesimo. L’uomo è duttile e accetterà di far sopravvivere la propria azienda con il nuovo ordine.
Confucio, il confucianesimo è il primo riferimento culturale per gran parte della cultura cinese.
La dimensione individualista, e le sue derive predatorie, non fanno parte del confucianesimo, così come non c’è un dio col quale instaurare rapporti personali. Non c’è neppure la frammentazione del Tutto. Spirito e materia non trovano separazione e gli opposti non sono che indicatori dell’alternanza di tutte le cose della vita. La ragione non ha il presunto privilegio che le diamo noi di discernere il varo dal falso, il bene dal male. Essa è solo uno strumento non portante di niente se non di se stesso. La tendenza all’equilibrio, alla non prevaricazione, alla disponibilità di vedere sempre la complementarità degli opposti è nello spirito confuciano. Non servono filosofi concettuali per sapere come dirigere la vita e la società perché ognuno ha la responsabilità del proprio ruolo in famiglia, tra amici, tra genitori e figli, verso lo stato e gli altri. E chi dovesse cercare i guadagni personali sostituendoli alla rettitudine, avrebbe i suoi inconvenienti secondo un criterio assai meno tollerante di quello al quale siamo abiti.
Non è una religione in senso occidentale, ma una serie di indicazioni comportamentali intorno alle quali evidentemente ruota gran parte del pensiero dei cinesi. Sia la Rivoluzione maoista di ieri, che il galoppo capitalista di oggi, pare ne esprimano l’essenza.
I precetti individuati da Confucio (551-479 a.C.) sono fina dalla sua concezione destinate al miglioramento sociale. Per lui era necessario educale i singoli uomini per realizzare la migliore società.
Erano e sono infatti dedicati ai doveri più che ai diritti, sebbene con una accezione organica più che gerarchica. Ognuno sentiva – e sente? – la responsabilità di tutto il contesto sociale.
Sommariamente, riguardano la famiglia, l’autorità, lo stato. Tre punti fermi di tutte le relazioni di ogni individuo.
Organica in quanto rispettando le gerarchie che ogni relazione comporta si realizza la miglior società. Nessuno si sente escluso dal risultato finale. Una specie di opposto dell’individualismo.
Ma detto così, il discorso si presta a facile critica. L’assolutismo cinese è inaccettabile per il pensiero democratico.
Bisogna infatti aggiungere i cinque riferimenti che presiedono alla concezione confuciana:
Ren (benevolenza), Yi (rettitudine), Li (lealtà), Zhi (conoscenza), Xin (integrità).
Ognuno, di loro, parla da sé. E ognuno, di noi, volendo, purché con la medesima responsabilità confuciana per la buona riuscita della società, vi troverà spunti di riflessione o rivisitazione di ciò che ha condotto le nostre vite finora.
Cinque punti che forse ora, pur coniugati attraverso la nostra provenienza superiore, non permettono più di ridere dei cinesi. Forse ora sembrano affascinanti e – perché no? – adatti a fare da quinto modello.
Se quanto hanno fatto i cinesi in questi ultimi decenni dovesse proseguire – e vista la pericolante situazione americana, potrebbe essere giusto pensarlo, magari anche moltiplicato –, iniziare a familiarizzare con le abitudini del nuovo padrone potrebbe tornare utile alla sopravvivenza. E, perché no, a valori nuovi o dimenticati.
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