Metadiario – 227 – Rätikon (AG 2000-003)
Il 21 giugno 2000 con Giovanni Alfieri salimmo alla Punta Nino Calvi 2907 m, per facile arrampicata lungo la cresta nord-ovest. Lo scopo era quello di afferrare una bella alba sulla parete nord dell’Adamello. Inutile dire che per ottenere lo scopo arrivammo in vetta ancora prima che il sole arrossisse la parete nord.
Circa una settimana dopo, approfittando del bel tempo, salii da solo lungo la Val Biandino fino alla Bocchetta dei Vaghi di Sasso e da lì alla Cima delle Miniere 2060 m, con bella vista sul Pizzo dei Tre Signori (Alpi Orobie). Mi fermai a dormire al rifugio Grassi e il giorno dopo (27 giugno) salii alla Bocchetta Alta 2235 m e alla Bocchetta di Piazzocco 2252 m, per poi scendere ancora la lunga Val Biandino.
Il primo luglio ci muovemmo verso il Rätikon: da tanti anni sognato, questo gruppo di montagne stupende, estremamente varie, finalmente era in programma. Sapevo dei panorami che cambiano veloci, ad ogni angolo diversi, e delle pareti verticali grigie o giallastre che si susseguono alla vista, tra vette e creste che basta una nuvola a trasfigurarle.
Siamo nella zona dei Grigioni svizzeri più ricca di storia. I primi abitanti di Arosa 1739 m furono i Walser, che dal XIII al XIV secolo abbandonarono la Valle del Ròdano alla ricerca di nuovi pascoli e alpeggi. Per lunghi secoli le loro case in legno e pietra furono gli unici elementi costruiti in un paesaggio di prati e pinete. Poi, alla fine del XIX secolo, la strada di Schanfigg fu prolungata fin qui e, nel 1914, entrò in funzione il collegamento ferroviario con Còira. Iniziò allora lo sviluppo turistico di Arosa, oggi una delle più celebri ed eleganti stazioni di soggiorno e di sport, distesa sopra un mosso pianoro costellato di piccoli laghi. Il museo regionale di Schanfigg raccoglie ricordi storici e artigianato locale. Lenzerheide 1476 m è una piacevole e ben attrezzata località di villeggiatura invernale, sotto le pareti del Rothorn, al margine di grandi foreste di conifere. Costeggiando l’Heidsee, che in estate si colora delle vele di barche e di sfreccianti surfisti, si giunge alla vicina Valbella 1535 m, altro importante centro di vacanze, famoso soprattutto per le sue ampie distese di pascoli, adatte all’escursionismo e allo sci.
La valle è, da sempre, terra romancia (e lo ricordano i doppi toponimi che, in quella lingua e in tedesco, quasi tutti gli abitanti vantano) legata alle origini stesse dei Grigioni. Immaginate di tornare indietro alla metà dell’VIII secolo e figuratevi alcuni religiosi alla ricerca di un luogo appartato per meditare e pregare. L’alta valle del Reno Anteriore si prestava benissimo, chiusa da una chiostra di montagne boscose, come luogo ideale per il ritiro spirituale. Qui essi fondarono il primo nucleo del Benediktinerkloster, le tre piccole chiese di cui restano tracce nel chiostro interno dell’attuale abbazia benedettina. Proprio da Benediktinerkloster deriva il toponimo romancio Müstair, cioè Monastero, nome con cui l’abitato di Disentis 1142 m è anche noto. Dell’originaria fondazione, che la tradizione ascrive a San Placido e che viene raccontata dagli affreschi novecenteschi della volta, resta poco a causa delle ricostruzione operata nel 1683-1695.
La chiesa vera e propria fu eretta nel 1696-1712 su progetto del monaco Kaspar Moosbrugger, con facciata racchiusa fra torri a cupola e interno a navata unica secondo modelli architettonici importati dal Vorarlberg. Tipica del gusto settecentesco è la profusione di stucchi e affreschi, mentre rimandano al passato di potente centro religioso e politico, il trecentesco gruppo ligneo dell’Addolorata e la pala Castelberg del ‘500. Una peculiarità la riserva anche la piccola Sancta Gada, Cappella di Sant’Agata, del secolo XII: in essa convivono affreschi quattrocenteschi di mano italiana (Nicolao e Cristoforo da Seregno che operarono sulla parete destra e nel coro) e tedesca (di anonimo pittore della Germania meridionale è la vita di Sant’Agata sulla parete sinistra). Ai piedi dell’Oberalppass 2044 m, che segna il confine tra i Grigioni e il Canton Uri e la demarcazione tra l’area elvetica di lingua tedesca e quella romancia, si trova il principale centro della severa Val Tavetsch (in romancio Tujetsch), Sedrun 1406 m. È un grazioso luogo di vacanza, con il museo La Truiasch e con la parrocchiale di St. Vigilius, di fondazione romanica.
Capoluogo dei Grigioni è Còira, caratteristica cittadina di sapore medievale (è la più antica della Svizzera, duemila anni nel 1986). La città, Cuera in romancio e Chur in tedesco, deve la sua importanza storica al fatto di trovarsi all’incontro di grandi vie di comunicazione, favorite dai valichi alpini, ed anche perché è punto di partenza della Ferrovia Retica, la Rhätische Bahn, costruita nell’arco di 26 anni proprio per controbattere la perdita di traffico dovuta alla nuova linea ferroviaria del Brénnero tra Austria e Italia e a quella svizzera del San Gottardo. Il nucleo antico di Còira (Altstadt) è composto da edifici dei secoli XVI e XVII con resti delle fortificazioni medievali. Da visitare certamente il Rhätische Museum, che presenta interessanti testimonianze sulla storia e il folclore locale, e il Buendner Kunstmuseum, con opere di Augusto, Giovanni e Alberto Giacometti, di Angelica Kauffmann e di Giovanni Segantini. Di antica fondazione è la Cattedrale dell’Assunta (St. Maria Himmelfahrt) che, nonostante i rimaneggiamenti dei secoli XVIII e XIX, conserva forme romanico-gotiche.
Tra le opere custodite, particolarmente preziose sono le pale cinquecentesche nelle cappelle laterali, il bellissimo altare maggiore in legno intagliato (1492) e le quattro statue di Santi poste davanti alla cripta, riconducibili all’arte lombarda del ‘200. Accanto alla cattedrale è il palazzo vescovile, elegante edificio barocco del XVIII secolo; alle sue spalle sorge il seminario vescovile che ingloba la romanica chiesa di St. Luzi (XII secolo) e la piccola cappella di St. Stephan, risalente al VI secolo. Còira diventa stupenda d’inverno, sotto la neve, quando le tozze costruzioni grigie risaltano sullo sfondo bianco.
Tutta questa cultura me l’ero fatta prima di mettere piede in quella terra, anche in previsione dell’articolo che avrei dovuto scrivere.
Ma soprattutto sapevo anche dei miti e delle leggende arrampicatorie che hanno fatto di queste montagne il vero simbolo dell’arrampicata libera spinta all’estremo. Le pareti calcaree del Rätikon hanno, infatti, visto le nuove gesta che hanno conservato radici tradizionali, pur cercando giustamente una propria strada evolutiva. Non a caso questa regione ha prodotto fino ad oggi alcuni talenti superspecializzati che si esprimono ai massimi livelli di questo momento, ma anche ha sfornato ottimi «climber d’avventura».
E quando si cammina alla base di queste grandi pareti non si può non pensare che proprio qui sono state confezionati alcuni tra gli ultimi capolavori dell’arrampicata. Martin Scheel su Hanibal’s Alptraum oppure Beat Kammerlander su New Age ci hanno fatto ancora una volta sognare.
Queste non sono le Dolomiti, ma camminare sotto alla muraglia della Drusenfluh per due ore è come essere sotto alla Parete delle Pareti, la Nord-ovest della Civetta; con la differenza che noi italiani sappiamo poco della storia della Drusenfluh (e probabilmente anche gli alpinisti di lingua tedesca): una storia c’è, basta guardare, essere disposti al fascino di ciò che ci è sconosciuto, ma che comunque è avvenuto. Un giorno qualcuno scriverà la storia di queste pareti che, assieme a quelle del Karwendel, rivoluzioneranno molto di ciò che si crede di sapere sulle cosiddette tappe storiche.
Eravamo in tre, con Marco Milani ed Eugenio Dall’Omo: era previsto, infatti, che arrampicassimo assieme al custode della Carschina Hütte, la locale guida alpina Roman Guidon.
Da Küblis proseguimmo per Partnun, ma lasciammo l’auto poco prima, a Untersäss. Dal posteggio 1620 m c. salimmo per una sterrata a tornanti che ci portò all’alpeggio di Mittelsäss 1942 m, dovemmo avemmo la prima bella visuale sulla catena orientale del Rätikon. Proseguimmo verso il largo valico erboso della Carschinafurgga 2221 e subito dopo fino alla vicinissima Carschinahütte 2235 m, dove facemmo subito conoscenza con Roman, davvero simpatico e gentile.
Il mattino dopo preferimmo prendere un po’ di mano con la roccia locale e andammo alla paretina sud dell’Avancorpo orientale della Sulzfluh. Salimmo, assieme a Roman, la Touristenweg (VI-) e le due lunghezze di Jaffa (VII-); poi, assicurato da Roman, salii la prima lunghezza di Siebenschläfer (VI+).
La bellissima giornata ci indusse a fine pomeriggio a salire l’elementare cresta nord-nord-est dello Schafberg 2456 m. Il panorama spazia dalla Schijenflue 2625 m e Wiss Platte 2628 m alla Sulfluh fino alla movimentata e grandiosa catena della Drusenfluh 2830 m e alle Kirchlispitzen 2552 m.
Il 3 luglio di mattino presto ci trovavamo all’attacco di uno degli itinerari più classici e frequentati di queste montagne: la via Neumann-Stanek alla parete sud-ovest della Sulzfluh 2817 m. I viennesi Karl Neumann e Willi Stanek avevano aperto questa via di 300 m nel 1947, con difficoltà di V/A0, che poi i tempi diversi hanno modificato in VI-. La via era attrezzata a chiodi normali, con qualche spit per recente riattrezzatura. Fu una salita di tutto piacere, amplificato da una facile quanto spettacolare discesa.
Purtroppo fu necessario, per pioggia, attendere in rifugio tutto il giorno dopo, ma il 5 luglio fummo ricompensati da un’altra bella scalata, quella alla parete sud della Quinta Kirchlispitze 2428 m per la via Haldejohli. Questa via di 400 m la dobbiamo a Vital Eggenberger, L. Roffler e F. Tschirky che la salirono nel 1981, con difficoltà di VI- e A0 (oppure VII-). Anche questo itinerario è attrezzato con chiodi normali, ma sono necessari una serie di nut e friend di media dimensione.
Raggiungemmo l’attacco della parete seguendo dalla Polenhütte il sentiero per la Schweizertor, piegando poi a sinistra per il Caveljoch, ma subito salendo per erba e detriti fino alla base della parete. Per fortuna eravamo assieme a Roman che ci fece notare come l’attacco non fosse così evidente: occorreva seguire un canale bagnato per qualche metro, poi non proseguire direttamente ma puntare a destra sotto un evidente strapiombo (che poi si sarebbe superato a sinistra con la seconda lunghezza).
Anche questa via fu un piacere: dalla Sosta 9 preferimmo non fare le ultime due lunghezze e scendemmo nel facile canalino a nord, ricongiungendoci quindi con la discesa della via normale.
Il giorno dopo Roman era impegnato e Marco preferì non venire. Andai con Eugenio sulla parete sud-est della Kleiner Drusenturm 2754 m, 450 metri di IV grado, la classica del gruppo e forse la via più ripetuta. Dobbiamo la prima ascensione a Otto Dietrich e J. Mader, nel 1928. C’è una variante diretta di H. Uibrig e G. Heinke (1935). È attrezzata a spit, presenti sia alle soste che sulle lunghezze. Raggiungemmo l’attacco della parete seguendo dalla Carschinahütte il sentiero per il valico del Drusator, ma lasciandolo non appena accenna a salire decisamente verso il passo, per seguire una traccia che per ghiaioni traversa in diagonale fino alla base della parete, circa a quota 2300 m.
Salimmo per più lunghezze la successione di placche di destra di una vaga concavità che incide tutto il primo terzo di parete. Raggiunta l’estremità sinistra di una cengia erbosa (ascendente da destra, itinerario dei primi salitori), salimmo un camino dall’apparenza ostica (V-, passo chiave) e quindi una serie logica di camini e fessure che ci condusse ad un grande canale che solca decisamente la parete. Da qui, tenendosi sulla destra, salimmo un canale-diedro liscio che ci portò in posizione esposta ad aggirare sulla destra la successiva parete verticale; quindi continuammo per il fondo del canale che poi si apriva a bellissimo diedro (IV+) per portare al camino finale dotato di una bellissima finestra naturale di roccia. Scendemmo sul versante opposto in un breve canalino e da qui, senza itinerario obbligato, salimmo le ultime due lunghezze per raggiungere la croce della vetta.
Nell’estate del 2000 riprendemmo le operazioni nell’ambito di Save the Glaciers. Armati di registratori, piccozza, ramponi, corda e contenitori sterlizzati, Mario Pinoli, Luca De Franco e io ci ritroviamo il 25 luglio a scarpinare sugli assolati pendii del Ghiacciaio del Presena.
Su questa non ampia e non ripida estensione ghiacciata, a imitazione dello Stélvio, funzionavano da tanti anni alcuni impianti sciistici che svolgevano la loro funzione in abbinamento con gli impianti del Passo del Tonale, via via potenziati nel tempo, per molte stagioni anche d’estate.
Oggi la notevole riduzione del bacino glaciale e la sua predisposizione a smagrire proprio in corrispondenza dell’inizio dell’impianto a ski-lift, con conseguenti enormi problemi di manutenzione non solo estiva, ha determinato una riflessione seria se continuarvi l’attività o rinunciare. Ma la presenza dell’impianto a fune del Passo Paradiso e il collegamento essenziale con le piste del Tonale avevano convinto i responsabili a tentare l’impossibile per tenere in piedi il Presena.
Ci capitò, perciò, di ritrovarci nel frenetico andirivieni di gatti delle nevi a impianto chiuso, per assistere a una scena mai vista prima: le aree di discesa e le linee di risalita degli ski-lift erano ricoperte da neve prima riportata e poi compressa, quindi su di esse veniva stesa una gigantesca serie di lenzuola sintetiche, il cui colore bianco avrebbe dovuto limitare lo scioglimento estivo. L’apocalisse di questa inutile barbarie era sottolineata dall’evidente e inquietante presenza, là dove il ghiaccio andava a morire sulle morene, di immani festoni grigiastri di tessuto attorcigliato e masticato dal ghiacciaio, cioè i teli apposti nel 1999 e poi ovviamente non rimossi.
Beh, eravamo lì per lavoro, dunque continuammo a lavorare per due giorni, infastiditi dal frastuono dei gatti delle nevi, arrivando a pensare perfino che forse sarebbe stato meglio lavorare in un cantiere cittadino che non in quella bolgia.
Salimmo sul Cornicciolo della Presena e sulla Cima Presena per scattare foto panoramiche, intervistammo i gestori delle funivie e degli impianti sciistici, alcuni albergatori locali, i gestori dei rifugi e delle strutture che insistono sull’area glaciale, i responsabili dell’Esercito Italiano della Caserma militare presente al Passo del Tonale; questo allo scopo di redigere l’eco-audit specifico dello stato ambientale e della gestione, in funzione della protezione del ghiacciaio, delle strutture presenti sull’area glaciale, quali la capanna Presena, i depositi dei gatti delle nevi, l’officina meccanica, il deposito dei carburanti, gli impianti di risalita e la teleferica per il trasporto dei materiali; e naturalmente effettuammo il campionamento specifico e dettagliato dell’area glaciale, con la raccolta di 24 campioni, che rivelarono in seguito la presenza di tensioattivi (ionici, anionici, cationici), solfati, ammoniaca, fosfati, nitrati, nitriti, solfiti, cloruri e piombo.
In serata (ma solo Luca ed io) ci trasferimmo al Lago di Fedaia, sotto alla Marmolada. La mia conoscenza di questo ghiacciaio ci rese il compito più facile, andavamo a colpo sicuro nell’individuazione dei siti più compromessi. La bonifica delle sozzure e dei rifiuti sparsi nel ghiacciaio, a cura della provincia di Trento, era prevista per qualche tempo dopo e questo ci consolava. Anche se il ricordo dei cumuli di spazzatura a poca distanza dalla vetta della Punta Penìa (che avevamo salito per la via normale), il 27 luglio, è difficile da dimenticare.
Luca e io svolgemmo lo stesso lavoro di due giorni prima al Presena, però eravamo più sereni: almeno qui avevano accettato la morte dello sci estivo e non si era neppure pensato a inutili coperture.
Oltre alle varie interviste, tra il 27 e il 28 luglio raccogliemmo 30 campioni: i risultati sarebbero stati assai simili a quelli del Presena.
Ma era venuto anche il momento di tornare in Appenzell, dopo il frettoloso abbandono invernale.
Le aspettative del passare una settimana in Appenzell erano circondate dall’incertezza di come le mie due bambine avrebbero preso quel soggiorno con la nuova donna del papà. Eravamo incoraggiati perché, oltre alla conoscenza di fondo, c’era già stata un’uscita a Compiano che era andata benissimo, però a volte le incognite sono imprevedibili, quindi incrociavamo le dita.
Quelli dell’Ufficio del Turismo ci riservarono un’accoglienza calorosa, ben diversa dal freddo cliché svizzero. Prima di accompagnarci a casa, il direttore Willy Raess ci aveva portato a casa sua, dove anche la moglie ci aveva riservato un trattamento non solo formale. Ovviamente avevamo lasciato Tara in auto. Guya per fortuna si accorse, solo pochi secondi prima che io mi accomodassi sul bel divano di pelle, che sulla spalla portavo appiccicata una chewing-gum. Durante il lungo viaggio Elena (eravamo partiti da Levanto), stufa di masticare, me l’aveva attaccata senza che nessuno se ne accorgesse. La gentilezza della famiglia non cancellava, però, il rigore formale tipicamente svizzero che temevamo mal si accompagnasse al nostro essere casual e alla vivacità di due bambine italiane. Avevano girato tutta la casa e Petra aveva fatto le domande più disparate nel suo inglese allora elementare. Avevano saputo che le foto esposte ritraevano uno o due figli della coppia. In una foto si vedeva una ragazza nera.
– Ma anche questa è vostra figlia?
– Sì, certo, anche lei.
– Ma come mai è nera di pelle?
A quel punto Guya era intervenuta dicendole che avrebbe ricevuto una spiegazione più tardi…
L’appartamento che ci avevano riservato (in via Loretto a Gonten, a 5 km da Appenzell) non era una reggia, ma era assolutamente dignitoso. Forse aveva solo il difetto di avere poca luce.
Le dolci e verdissime colline dell’Appenzell, punteggiate di rade e ben disposte fattorie, hanno uno sfondo comune, non visibile da ogni angolo ma sempre riconoscibile: una lunga barriera di rocce esposta a nord-ovest che culmina, in corrispondenza della vetta, con una torre che assomiglia ad una sottilissima ciminiera. La costruzione, alta 123 metri, è un’antenna emittente, figlia dell’ultima tecnologia delle telecomunicazioni: alla cima del Säntis, a 2502 m, si arriva con una capace funivia che ogni giorno porta centinaia di persone ad ammirare lo splendido panorama.
Ma questa Svizzera moderna, turismo avanzato ed efficienza di installazioni high tech, allorché si svolta l’angolo delle ultime colline ed appaiono le frastagliate e precipiti vette di bianco calcare dell’Alpstein, scompare per incuriosire con le sue meraviglie di piccolo gioiello di montagna: pareti e creste si raggruppano come tanti raggi di una stessa ruota, convergenti all’unico centro, la vetta del Säntis. In fondo alle valli così disegnate s’annidano gli specchi d’acqua del Seealpsee, del Fälensee e del Sämtisersee, tanto ridenti e gioiosi in una giornata di sole quanto tetri e minacciosi nei momenti più grigi, d’inverno sempre ghiacciati.
Le falesie di calcare disegnano le parti alte di questi rilievi e si appoggiano su ripidi pendii erbosi o sull’ultima vegetazione, e alla radice di una di queste lunghe pareti si apre la grotta del Wildkirchli. All’inizio del XVII secolo era già luogo di culto e il Padre Paul Ulmann nel 1656 vi costruì un eremo che fu abitato dagli eremiti fino al 1853. Oggi si possono vedere l’altare, un piccolo campanile e la casetta di legno ricostruita a copia dell’originale. Agli albori del turismo alpino, gli eremiti del Wildkirchli vendevano all’affascinata borghesia cittadina denti d’orso della caverna, a ricordo della visita. Soltanto, però, all’inizio del XX secolo gli archeologi riportarono alla luce arnesi in pietra preistorici in quantità sufficiente a giustificare una supposta presenza dell’uomo di Neanderthal nelle Alpi.
Nel contempo erano raccolte anche dalle 600 alle 800 ossa di ursus speleus, animali presumibilmente morti durante gli inverni rigidi mentre cercavano rifugio nella grotta. Le leggende fiorite attorno a questa località, assieme all’atmosfera romantica e misteriosa ch’essa era in grado di evocare, fecero aumentare le visite turistiche tanto da convincere gli eremiti ad ospitare sporadicamente gli studiosi, ma anche i poeti ed i letterati interessati in maniera diversa a quel luogo. Nel 1846 fu costruita, praticamente accanto, in una grande concavità giallastra della roccia, una locanda. Oggi l’Äscher Gasthaus non si differenzia di molto dalle mille altre località panoramiche e suggestive: con i suoi ombrelloni e le centinaia di comitive giunte fin lì con la vicina funivia, ha poco da raccontare ad una visita superficiale. Occorre un po’ di sforzo per rivivere mistero, raccoglimento e preistoria.
È più facile, invece, vivere atmosfera e cultura rurale: i costumi vivaci, i ricami famosi nel mondo sono base essenziale all’amorosa mimica della danza, che in pochi movimenti ritmati riassume le emozioni degli innamorati, piccoli litigi compresi; gli orecchini degli uomini fatti a forma di mestolo per il formaggio, la pipa con il fornello rivolto in basso (Lendauerli) ed altre caratteristiche usanze non sono momenti di folklore turistico, ma spontanee manifestazioni popolari. La musica tradizionale, vivace ma non troppo, a volte seriosamente classica, sottolinea feste particolarmente vive in occasione dell’inalpamento o della discesa a valle del bestiame; la musica è ciò che aggiungiamo noi con il pensiero alla suggestione visiva dei dipinti del XIX secolo conservati al museo di Stein. Lunghe tavole rappresentano il motivo fisso del corteo di animali e di pastori che parte o torna al villaggio: gli animali con i loro nomignoli, i pastori che camminano sotto il peso di una coppia di enormi campanacci da festa delle mucche. Un motivo campestre e naif iniziato ai primi dell’800 da Conrad Starck e continuato con poche varianti per tutto il secolo.
L’insieme di queste tradizioni determina lo stile di vita appenzellese, per nulla simile al resto della Svizzera di lingua tedesca. Non per nulla gli abitanti di questo cantone sono considerati dagli altri svizzeri un po’ come i nostri toscani, sempre pronti alla battuta sagace e ad avere l’ultima parola. Un esempio? Ad Appenzell furono gli ultimi a concedere, solo nel 1990, il voto alle donne a livello cantonale…
Abbandonare questo mondo colorato e gioioso è facile. Oltre alla già citata funivia del Säntis, che porta alla vetta massima, con quelle di Ebenalp e di Hoher Kasten in pochi minuti si è in alto, ma ancora abbastanza in basso da iniziare lunghe traversate su panoramiche creste; oppure si può cominciare con belle passeggiate dal fondo delle valli, sostare alla quiete dei laghi, poi pian piano raggiungere posizioni dominanti lungo gli ultimi valloni ed alpeggi.
Il panorama è eccezionale: a settentrione sfuma il gigantesco Bodensee (il nostro Lago di Costanza), preceduto dalle colline dell’Appenzell che riescono a nascondere la città di St. Gallen; se si è sulla cresta che collega l’Hoher Kasten con la seconda vetta del gruppo, l’Altmann, oltre alla processione di torri della catena di Kreuzberge, lo sguardo abbraccia la valle del Reno, con la linea del grande fiume tra verdi coltivazioni. Verso sud, se si è in posizione alta sul Säntis o sull’Altmann, ecco la catena dei Churfirsten, decisamente caratteristica, quasi unica per le sue forme che sembrano ripetersi all’infinito, sia da questa visuale che da quella opposta dal Walensee. In lontananza, l’arco alpino.
Imparai presto che fare escursionismo in Alpstein è facile, per le dimensioni del gruppo, ma i tempi di percorso a volte sono più lunghi di quanto verrebbe da pensare. La lentezza di esecuzione dipende dagli avvallamenti, dai continui saliscendi: ma tutto ciò è garanzia di continua variazione del paesaggio. A volte bastano pochi metri per cambiare, quasi in maniera irriconoscibile, una veduta che prima si dava per scontata ed acquisita. E allora ci si ferma di nuovo, si scatta un’altra fotografia e i tempi si dilatano ancora…
Il 30 luglio, con tempo mediocre, raggiungemmo la Scheidegg Gasthaus sotto al Kronberg 1662 m. Più fortunati fummo il giorno dopo. Salimmo con la funivia all’Hoher Kasten 1794 m, del tutto impreparati all’emozionante vista a picco sulla valle del Reno. Tutto andò bene finché la cresta che volevo percorrere era rimasta in discesa. Seguivamo i saliscendi del Geologischer Wanderweg Alpstein, che si svolge sulla lunghissima cresta che porta verso sud-ovest fino alla lontana vetta del Säntis. Non era passata neppure un’ora che già mi sentii rivolgere la classica domanda: “Papà, quanto manca?”. Non tentai neppure di mentire e risposi che avevamo appena incominciato. Ma, giunti allo Staubernkanzel 1750 m, decisamente la domanda era stata ripetuta un numero tale di volte che decisi di lasciare al loro destino tutte e tre. Io “dovevo” proseguire. Un sentierino segnalato scendeva da lì direttamente ai 1209 m del Sämtisersee. Non sapevo che quello era un percorso costruito per i turisti e che perdeva dislivello molto in fretta con una serie di gradini che imponevano una bella ginnastica a chi, come loro, non fosse munito di bastoncini: a Guya l’uso esagerato delle ginocchia, a Petra l’allungamento delle gambe e a Elena il ricorso al salto di volta in volta. Per di più, combinazione, erano del tutto sole e a Guya cominciavano a frullare in testa i pensieri più cupi.
Eppure cercava di mantenere l’umore generale a un livello ottimistico:
– Vedete, bambine, come papà sceglie le cose belle per noi (che, tradotto, significava “quel bastardo farabutto guarda in che situazione mi ha messa”)…
E Petra:
– E’ perché tu non sai… ma io è una vita che sono costretta da lui a fare queste cose…
Per fortuna il fondo valle, i prati e il lago si avvicinavano e, con essi, le speranze di giochi con animali vari e il ritorno dell’ottimismo.
Io intanto non sapevo nulla del dramma che si stava consumando e proseguivo, finalmente a passo di carica, lungo la mia cresta. Ogni tanto mi fermavo per fare foto. Giunto al Saxer Lucke 1649 m, però, avevo capito che ormai il paesaggio non sarebbe cambiato più di tanto se proseguivo. Così decisi, anche per via di un vago senso di colpa, di scendere velocemente al Fälensee 1452 m e da lì in breve al Sämtisersee, dove venni accolto con grandi feste e relativi racconti della loro avventura.
Il giorno dopo fu la volta dello Schäfler 1925 m. Petra, Elena e Guya mi accompagnarono fino a Ebenalp, poi mi lasciarono andare da solo. Anche questa montagna, a picco sul Seealpsee, mi permise adeguata documentazione fotografica.
Seguirono giornate mediocri, nelle quali per due volte presi da solo la funivia del Säntis, senza grande successo. Ma da fare ne avevamo, tanto turismo, compresa una bellissima visita a St. Gallen.
Molto interessante fu la visita al caseificio di Stein. L’impianto è un caposaldo dell’economia appenzellese, non solo per la sua produttività ma anche perché simpatica attrattiva turistica. Si può seguire, infatti, l’intero processo di caseificazione dell’«Appenzeller» da dietro enormi vetrate, prima della finale ed inevitabile degustazione.
In questo modernissimo caseificio, al centro di uno dei più bei villaggi di Appenzell, ogni giorno confluiscono 16.000 litri di latte fresco, da mucche alimentate con solo fieno o erba.
Dopo averne scremato della panna una parte, latte scremato e quello intero sono riscaldati assieme nello scambiatore di calore e versati in un paiolo di 6.000 litri a 31°C. Dopo l’aggiunta di caglio e di culture batteriche, inizia il processo di precaseificazione e dopo trenta/quaranta minuti il latte è ormai diventato cagliata. Con il tagliacagliata la si divide in grani grossi e in latticello. Poi, con altro calore, i grani acquistano la consistenza voluta, fino a che si può dire che il formaggio ha «preso». La massa dei grani, assieme al latticello, è pompata direttamente nelle forme. Queste sono poi pressate, per l’eliminazione definitiva del latticello, e messe a sgocciolare su appositi scaffali. Qui comincia a formarsi la crosta, per la quale ci si aiuta con un bagno di salamoia. In seguito, la stagionatura (fermentazione e maturazione) si svolge a 14/15°C e umidità superiore al 90%. Dopo 5/7 settimane le forme sono ritirate dai commercianti, i quali, con formula assolutamente segreta, le trattano con una miscela di vino bianco, erba e spezie. Soltanto dopo 14/20 settimane dalla produzione il formaggio «Appenzeller» può essere venduto e consumato.
In una delle ultime sere ci fu l’invito a cena ufficiale da parte dell’Ufficio del Turismo. Avevo fatto loro una relazione dell’operato e sembravano molto contenti. Il ristorante era uno dei più eleganti di Appenzell e Guya ed io, oltre che curare l’aspetto di tutti e quattro, ci eravamo affannati a spiegare alle bambine che era una cosa importante, che si dovevano comportare bene, ecc. Oltre alla coppia che già conoscevamo, direttore e signora, c’erano altri due o tre personaggi di cui non ricordo la funzione. Le signore erano assai eleganti, gli uomini in tiro con giacca e cravatta. Nel locale risuonava la tipica musica di Appenzell che, ripeto, è assai melodiosa ma abbastanza seria, quasi classica.
Petra ed Elena erano così eccitate dalla situazione così nuova che, a dispetto delle nostre raccomandazioni, presto si misero a toccare tutto girando tra i tavoli e curiosando tra i vari commensali. Questi sorridevano, probabilmente vedevano con favore quello sprazzo di vita straripante che le bambine fornivano loro. Tentavamo di redarguirle senza urlare, ma ben sappiamo che il rimprovero non seguito da minacce non serve a nulla… In più i nostri commensali minimizzavano e sorridendo dicevano di lasciarle stare, che si divertissero pure… Ci fu un continuo visitare i bagni perché avevano scoperto che potevano spruzzarsi una incredibile quantità di campioni di profumo… Questo era veramente imbarazzante.
Poi ci fu il momento dell’esecuzione di quattro brani di musica di Appenzell da parte di un quartetto. Per i primi dieci minuti stettero buone, stupite solo che non ci fosse da ballare proprio perché mancava il ritmo… Ma dopo una dozzina di minuti dovetti tenerle ferme per le braccia, schiacciandole alla sedia e impedendo loro di fiatare e di muoversi. Nel frattempo speravo che quella bella musica, diventata però nel frattempo una tortura, finisse al più presto.
Se Dio vuole anche quello ebbe termine. Dopo la sceneggiata dell’arrembaggio ai dolci, venne l’ora del caffè e finalmente anche quella dei saluti e del commiato. I convenevoli si protrassero fino all’inizio delle scale che occorreva scendere per uscire. Eravamo assiepati proprio alla fine della rampa ed Elena era scesa di un gradino. Improvvisamente vedemmo uno degli uomini piegarsi in due gemendo. Cosa era successo? Probabilmente molto annoiata da quella conversazione in inglese, Elena si era ritrovata vis à vis con l’inguine del poveretto. Nessuno potrà mai sapere cosa le sia scattato nel cervello, ma di fatto e di punto in bianco strizzò i testicoli al poveretto: come avrebbe detto Enzo Jannacci, “così, per vedere l’effetto che fa”. Quello spiegò concitato quello che era successo. Ci fu un momento di silenzio in cui Guya ed io avremmo voluto scomparire, anche morire. E invece il gruppo svizzero, compreso il malcapitato, produsse una risata che ancora oggi mi risuona come il momento più vero dell’intera serata. Liberatorio, per tutti.
Dall’Appenzell ci trasferimmo direttamente in Engadina, dove ci attendeva un’altra splendida settimana. Questa volta la casa era magnifica: ci ricorderemo sempre della Chasa Müfaits a Tschierv. La bellezza di quell’alloggio che rende indimenticabile l’incidente che ci fu con Tara che, non per colpa sua, sporcò una poltrona. Guya si accanì nella pulizia, abbiamo buone ragioni di credere che nessuno ebbe mai ad accorgersene.
La Val Monastero, o Val Müstair, è un piccolissimo lembo di territorio, estrema propaggine sud-orientale della Svizzera incastonata fra Engadina, Val Venosta e Bormiese. Forse anche per questa sua posizione isolata, il territorio è riuscito a mantenere intatte le caratteristiche umane e ambientali che ora ne fanno un esempio unico di conservazione.
La valle, che chiude idealmente il circuito attorno ai Parchi Nazionali dello Stélvio e quello Svizzero, già di per sé è un parco etnografico, tanto che di essa si è parlato come di un ecomuseo, spontaneamente sorto e mantenutosi grazie alla maturità culturale e civile delle popolazioni locali e ad una legislazione rigorosa e rispettata.
Il nome della valle deriva dalla presenza presso l’omonimo centro abitato di un millenario insediamento monastico la cui fondazione si vuole far risalire a Carlo Magno. Nonostante il migliore valico di accesso sia quello di Tubre con la Val Venosta, a parte una brevissima parentesi, la valle è sempre stata sotto il controllo del meno accessibile territorio delle Leghe Grigie e, successivamente, della Svizzera, dipendenza ecclesiastica del vescovo di Coira. Molto più probabilmente l’imperatore carolingio non transitò mai per questi luoghi ma, sensibile alla posizione strategica del luogo, vide in un monastero un ottimo avamposto culturale e al contempo militare. Pertanto su sollecitazione imperiale, il vescovo di Coira, Costanzo, diede inizio ai lavori nel 780.
Per la sua posizione di confine con i domini austriaci, la valle fu teatro di conflitti territoriali fra gli Absburgo, la Confederazione Elvetica e le Tre Leghe (Leghe Grigie). Nel 1499 in seguito ad un ulteriore tentativo absburgico di penetrazione, le truppe svizzere e delle Leghe Grigie si affrontarono in un’epica battaglia presso Calven, in territorio oggi italiano, nel punto ove la valle è maggiormente stretta. Seppure inferiori numericamente gli alleati sbaragliarono i Tirolesi e penetrarono in territorio nemico, fino a Silandro massacrando la popolazione maschile di quei luoghi.
Se la battaglia riuscì a scoraggiare per sempre le mire egemoniche degli Absburgo, tuttavia non salvò gli abitanti della Val Monastero dalla vendetta imperiale: solo in pochi scamperanno al passaggio dei 15.000 soldati, mandati colà pochi anni dopo per lavare l’onta della sconfitta di Calven.
La maggioranza della popolazione della valle è di origini ladine e la lingua parlata è il romancio, derivato della latinizzazione della antichissima lingua retica. Oggi l’unità linguistica è un po’ spezzettata, ma resta nelle linee generali a testimonianza di un’antichissima unità etnica e di migrazioni ancestrali. La lungimiranza della legislazione elvetica ha mantenuto in vita questa millenaria parlata e ne protegge ancor oggi l’individualità favorendone in tutti i modi la conservazione: a scuola, alla radio, in televisione e negli spettacoli teatrali si parla romancio; persino il prete officia nella medesima lingua.
Monastero (Müstair) 1248 m è il primo centro abitato della valle oltre il confine con l’Italia e la Val Venosta: vanta case assai graziose, ma soprattutto il Monastero di S. Giovanni Battista dal quale prende nome la valle intera.
Passammo ore nella visita di questo splendido complesso. Nel 1983 l’abbazia è stata inserita dall’UNESCO fra i più importanti beni culturali dell’umanità. Il complesso monastico primitivo era costituito dalla chiesa abbaziale e da un’annessa casa-torre. Successivi ampliamenti e migliorie lo hanno poi portato alle attuali dimensioni, facendone il maggiore centro di culto di epoca carolingia delle Alpi Centrali: ancor oggi parte del complesso è attivo e ospita un ordine di monache di clausura.
Purtroppo, un rifacimento risalente al 1492 ha fatto scomparire l’originaria copertura a travi del soffitto, che venne sostituita da una volta gotica a costoloni, poggiante su sei colonne.
Le maggiori attrattive dell’edificio sono, però, offerte dalle decorazioni risalenti al IX secolo, il meglio conservato ciclo di affreschi carolingi del mondo, e da alcune importanti sculture romaniche fra cui spicca la celeberrima statua di Carlo Magno, 70×190 cm. L’appartamento riservato al vescovo di Coira durante le sue visite è oggi il museo conventuale. Nella prima sala sono conservati rilievi carolingi in marmo di Lasa, gigantografie di affreschi non visibili nell’abbazia e il plastico del complesso conventuale. La seconda sala presenta affreschi seicenteschi e sculture di Johan Patsch che operò presso il convento dal 1628 al 1638. I pezzi più pregiati della terza sala sono una Madonna con il Bambino in legno dipinto, di epoca romanica, e un’altra Madonna con il Bambino di fattura gotica. La quarta sala contiene gli affreschi romanici strappati dalla basilica per mettere in luce i sottostanti affreschi carolingi. La quinta sala, quella dei principi-vescovi, è una grande stua foderata in legno con stufa in maiolica. La sesta sala è pure una stua ed era adibita a camera da letto del vescovo.
S. Maria Monastero 1380 m sorge poco dopo Müstair, allo sbocco della Val Muraunza, percorsa dalla strada che sale al Passo Umbrail e si congiunge alla SS 38 dello Stélvio. Proprio il fatto di trovarsi su un incrocio di tanta importanza ha determinato la pianta cruciforme dell’abitato. L’urbanistica ordinata e le antiche case engadinesi ben restaurate e conservate rendono assai piacevole una visita all’abitato. Di particolare interesse la Chasa Carpol, del 1651; altri interessanti edifici sono le Chase Ritter del 1671 e Nolfi del 1800. A Valchava 1412 m, nell’antica casa colonica di Chasa Jaura, risalente al 1724, ha sede il museo della valle. Oltre all’arredamento originale, nel sotterraneo si possono ammirare oggetti e attrezzi di uso comune.
La valle non avrebbe le caratteristiche che offre se da tempo immemorabile non si fosse creata con intelligenza e sensibilità una vera e propria simbiosi fra uomo e ambiente. A questo proposito il territorio della Val Monastero rappresenta un esempio purtroppo poco conosciuto di come turismo, vita montanara e ambiente possano benissimo convivere e trovare reciproci vantaggi, con reali vantaggi per la popolazione locale, in barba alle mondane stazioni invernali che si trovano a poche decine di chilometri di distanza.
Tutte le opere che l’uomo ha deciso di costruire per favorire il suo lavoro, dalle strade di campagna alle opere di regimazione dei torrenti, dai sentieri alle opere di bonifica, sono state pensate in rapporto organico con l’ambiente circostante, fauna compresa. Ogni cosa ha una sua funzione precisa, ma è realizzata nel rispetto del mondo in cui è inserita, delle sue esigenze e di quelle della comunità.
La attività economiche sono basate sullo sfruttamento delle risorse della montagna ed in particolare del patrimonio forestale che viene in parte esportato e in parte lavorato sul posto in piccole aziende artigiane per la realizzazione di mobili e di opere in legno scolpito. Una fetta minore del reddito viene dall’allevamento del bestiame e dai prodotti caseari.
Del tutto particolare e rilevante è, invece, l’attività turistica che, per scelta comune degli abitanti, ha generato un tipo di offerta unica nelle Alpi. Lo sci di pista è stato limitato, per non dire scoraggiato (solo Tschierv offre qualche pista) e si è preferito puntare sullo sci di fondo.
La regione della Val Monastero si presta ad innumerevoli gite, raramente davvero impegnative. Nel Parco Nazionale dell’Engadina è vietato camminare al di fuori dei sentieri e delle aree attrezzate per la sosta e l’osservazione degli animali. Anche per questa curiosità, nonché per la facilità del percorso e la grande visibilità di animali, l’Anello di Margunet fu la nostra prima meta (7 agosto). Raggiunta l’Alp Stabelchod salimmo verso nord-ovest fino al poggio panoramico del Margunet 2328 m. Le bambine furono bravissime e rispettose, non solo per non sgarrare dal tracciato del sentiero ma anche per il religioso silenzio osservato. Data l’ora, riuscimmo a vedere solo qualche camoscio, ma ci accontentammo delle innumerevoli marmotte. Per comodità riscendemmo per lo stesso itinerario, rinunciando all’anello.
Il giorno dopo lo dedicai all’escursione solitaria al Piz Terza. Con l’auto andammo a Lü 1920 m: volevo coprire più punti di osservazione per le mie fotografie, perciò dovevo procedere al mio passo. Diedi istruzioni perché seguissero la carrozzabile fino al Pass da Costainas 2248 m.
Per sterrata raggiunsi l’AlpTabladatsch 2245 m, poi per pascoli salii a nord-nord-ovest fin quasi alla Fuorcla Sassalba 2619 m. Qui per un valloncello verso ovest salii a raggiungere la vetta del Piz Terza 2909 m, in posizione strategica tra l’Ortles e il Piz Sesvenna. Da lì scesi al luogo dell’appuntamento, assai bucolico.
Il 9 agosto altra escursione solitaria al Piz Daint 2968 m, con partenza dal Pass dal Fuorn (o anche Ofenpass) 2149 m. Dal valico stradale seguii a sud-ovest un sentierino che traversa l’accidentato versante sud-est dell’altura dello Jalet 2392 m (belle formazioni rocciose). Giunti al colle erboso tralasciai il sentiero che prosegue per lo splendido pianoro dello Jufplaun 2289 m e seguii a sinistra un sentierino che sale in direzione del Piz Daint, prima per pendii erbosi poi per sfasciumi. Giunsi, così, al detritico costone ovest-nord-ovest della montagna e lo risalii fino alla croce della vetta. C’erano luci particolarmente belle.
Il 10 agosto altra escursione con appuntamento. Partii da Buffalora e salii al Munt la Schera 2587 m, vero cuore del Parco: la vista spazia dall’Ortles al Bernina e si affaccia sul Lago di Livigno. Per un ripido pendio esposto a sud di pini mughi e detriti di pietra arenaria scesi all’Alp La Schera 2091 m, ampio terrazzo prativo circondato da secolari piante di làrici e cembri e popolato da numerose marmotte. Proseguii per bosco di pino cembro e larice fino alla frazione di Fuorn 1794 m. Da lì, attraversato uno splendido bosco di pini, risalii nel solco della Val da Botsch per quella che rappresenta la seconda parte dell’Anello del Margunet. E puntualmente là, al poggio panoramico 2328 m, ritrovai le mie donne che, essendoci già state tre giorni prima, non avevano avuto alcun problema a tornarci da sole. Purtroppo anche quella volta non vedemmo i cervi.
Infine, l’11 agosto, approfittando di una giornata del tutto azzurra, mi feci portare da Guya al Pass Umbrail 2498 m (o Giogo di Santa Maria, al confine con l’Italia, nei pressi del Passo dello Stélvio). Per magri pascoli salii obliquando leggermente a destra per poi riportarmi presso la cresta di confine. Poi ancora obliquamente verso destra attraverso un ghiaione fino a che giunsi alla base della cresta terminale. Sfruttando un facile sistema di cenge, più o meno seguendo la cresta sud-est, raggiunsi la vetta del Piz Umbrail 3033 m. Dalla cima scesi verso nord-ovest per un grande pendio detritico nella magnifica conca del Lai da Rims 2396 m, dai colori incredibili. Per ripido sentierino scesi, poi, alle baite di Tschuccai 1943 m in Val Vau. Seguii poi la valle fino al luogo dell’appuntamento a Valchava.
Questo è un autentico trattato!
Molto interessante, ben scritto (ma che te lo dico a fà) e complesso .
Le salite acquistano ben altro significato in questo modo.
Articolo molto interessante e ben scritto.La Suisse inconnue per me che conoscevo solo il Parc Naziunal e Val Mustair.