Resting
di Giovanni Cenacchi
(già pubblicato su Rivista della Montagna n. 123 dell’ottobre 1990)
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort***, disimpegno-entertainment*
Si deve innalzare la capacità degli arrampicatori alla difficoltà delle pareti o si deve ridurre la difficoltà delle pareti alle capacità degli arrampicatori? Due domande semplici e antiche, due opposti inconciliabili ma pure indivisibili; soprattutto due grandi archetipi dalla cui differenza di potenziale è sprigionata l’energia motrice di tutta la storia dell’arrampicata.
Claude Remy. Foto: Archivio Remy
Nel reciproco superarsi, cancellarsi e ritornare di queste due concezioni possiamo scorgere l’eterna lotta tra libera e artificiale, l’ira luddista di Preuss, la malinconia estetizzante di Comici, il positivismo dei carpentieri della chiodatura a pressione, la forza scanzonata dei climber californiani. Ma non solo.
Tra queste due precise domande oscilla da più di un secolo il pendolo che scandisce il tempo dell’arrampicata d’elezione: le falesie degli 8c e i muri sintetici delle gare non sfuggono al suo eterno correre e ricorrere verso nuove consuetudini.
La prima delle due domande fonda il suo senso tra difficoltà e impossibilità, e trova nella moderna arrampicata in falesia una delle sue risposte più congeniali. Una breve parete viene disseminata di spit, ma nessuno può garantire che il percorso sia superabile, e comunque il gioco consiste proprio in questa umanizzazione della morfologia verticale mediante un sempre nuovo oltrepassamento del limite umano. Il poter essere (potestas), la possibilità di essere lassù dove è difficile essere, deve, in questo caso, fare i conti con l’impossibilità: l’arrampicata su falesie naturali non alterate dall’aggiunta di appigli è dunque un gioco tra possibile e impossibile la cui condizione è l’innalzamento delle capacità degli arrampicatori alle difficoltà delle pareti. Una risposta positiva alla seconda domanda – quella che suggerisce la riduzione delle difficoltà alla possibilità di arrampicare – è ovviamente di segno opposto e fonda il suo senso nella cancellazione dell’impossibile.
Marco Preti. Foto: Giorgio Daidola
Il riassassinio dell’impossibile
Proviamo ad ascrivere a questo secondo tipo l’esperienza sui muri artificiali di cui ci si serve per le gare oppure per l’allenamento invernale. Appigli e appoggi vengono in questo caso sistemati lungo una parete, permettendo così di programmare sequenze di movimenti il cui grado di difficoltà è facilmente predeterminabile. Nell’arrampicata su strutture artificiali, invece, non si tratta più di innalzare le proprie capacità oltre il proprio limite e verso la difficoltà verticale, quanto piuttosto di saper trovare tra le molte possibilità di movimento quella che coincide con il progetto dei tracciatori lungo un percorso che, per quanto impegnativo, mantiene per statuto la sua difficoltà entro il limite conosciuto e che, per quanto selettivo, è ancora una volta per statuto certamente superabile.
Alberto Gnerro. Foto: Oscar Durbiano
È a questo punto inevitabile un confronto tra l’arrampicata in falesia e quella su strutture artificiali, interpretandole come risposte alle domande iniziali. Se nel primo caso il referente oggettuale dell’arrampicatore è la difficoltà, nel secondo caso questo diventa la complessità. Se nel primo caso le pareti sono un mistero che può anche non avere una soluzione, nel secondo caso il mistero delle pareti viene ridotto in un enigma la cui complessità suppone sempre e comunque una soluzione. Arrestiamo a questo punto la speculazione: se il gioco della complessità può ragionevolmente sedurre gli arrampicatori, certo non dobbiamo permettere che contagi le ragioni della riflessione su una domanda – quella iniziale – che è semmai difficile per semplicità. Semplicissima è d’altronde la risposta, semplicissima perché già tutta evidente nei comportamenti dei climber: si tratta solo di connettere le parti. Due modi diversi ed egualmente moderni di concepire l’arrampicata d’elezione si sono qui presentati al cospetto di un’antica opposizione di modelli etici ed hanno trovato in essa una perfetta collocazione.
Se l’arrampicata su falesie naturali – seguendo la tradizione dell’arrampicata libera di ogni genere ed epoca – si propone di innalzare le capacità degli arrampicatori alla difficoltà delle pareti, l’arrampicata su strutture prefabbricate – in modo analogo alla vecchia progressione artificiale – implica la riduzione delle difficoltà alle possibilità degli arrampicatori.
Il nesso tra i codici della libera e la moderna arrampicata in falesia è, per quanto discutibile, ampiamente compreso dalla cultura degli arrampicatori; meno evidente, e quindi da ribadire, è invece la relazione privilegiata tra l’arrampicata su strutture artificiali e la metafora basilare dell’arrampicata artificiale. Questa metafora ci indica che la difficoltà oggettiva deve essere modellata alla capacità soggettiva: a tale concezione la progressione sui muri di resina deve il suo senso più che a ogni altra.
Patrick Edlinger. Foto: Roberto Mantovani
Calza perfettamente all’arrampicata sulle pareti di resina un revival del grido di allarme di Messner alla fine degli anni ’60: oggi come allora non è scorretto affermare che è in corso un nuovo “assassinio dell’impossibile”. La nuova artificiale è dunque una pratica criminale? La libera è invece buona e innocente? Non è questo il punto. Ancora una volta bisogna togliere di mezzo l’equivoco pericoloso che esige da ogni pensiero una soluzione univoca, capace di discriminare il bene e il male. Il problema non è quello di condannare chi pensa che l’arrampicata debba scaturire da un’opera di trasformazione delle difficoltà oggettive (i muri prefabbricati), né quello di lodare chi invece preferisce lavorare sulle capacità soggettive: si tratta piuttosto di iscrivere i caratteri dell’attualità in un più vasto senso storico, si tratta di scorgere come un’opposizione di modelli, sorta alla genesi dell’alpinismo, si sia riprodotta nel tempo e possa ancora oggi comprendere in sé tutte le nuove tendenze di un mondo, quello dell’arrampicata, che a volte sembra erroneamente essersi reso inaccostabile alla storia dell’alpinismo.
Heinz Mariacher e Luisa Iovane. Foto: Dario Ferro. A destra, Lynn Hill. Foto: Roberto Mantovani
Jean-Baptiste Tribout e Corinne Labrune. Foto: Dario Ferro
La necessità della contraddizione
La contraddizione della domanda iniziale ha saputo rigenerarsi in mille forme e ritornare nel tempo animando il rinnovamento di tutta la storia dell’arrampicata. Come? Un piccolo esempio provocatorio: grazie ad un processo di reazione critica, l’arrampicata libera deve all’artificiale più che a ogni altro stile le ragioni della sua nascita. Se non fosse esistito un tempo un così spiccato accanimento nella scelta di staffe e chiodi a pressione, avrebbe mai potuto avere luogo quella volontà a esso contraria che ci spinge oggi a cercare la libera a costo di ogni sforzo? Alla contraddizione della domanda iniziale dobbiamo l’energia motrice di ogni rinnovamento nelle consuetudini degli scalatori nella storia, ed è quindi necessario restituire a essa luce e voce, ma anche imparare a riconoscerla nelle sembianze delle nuove convenzioni per non privarci del suo potere di trasformazione. Le contraddizioni sono dunque necessarie, indispensabili allo sviluppo degli stili e delle idee. Le domande suscitate dalle contraddizioni, d’altronde, non trovano mai nella storia delle idee una risposta definitivamente risolutrice. Le contraddizioni possono solo essere dislocate, differite. Le domande che queste ci pongono possono essere investite in nuovi ambiti, tradotte in nuovi linguaggi, trasferite oppure dimenticate, ma mai cancellate da una risposta definitiva, una risposta che possa davvero dare fine alla loro urgenza. Ecco perché è inutile pensare di risolvere le contraddizioni e credere di rispondere alle domande: le contraddizioni possono solo essere abitate, le domande possono solo essere formulate. Noi possiamo solo farci buone domande, ammoniva appunto un filosofo paragonando le risposte definitive al paradiso. Per noi non esiste il paradiso – proseguiva – ma esistono le strade verso il paradiso. Dunque dobbiamo ancora chiederci: si deve innalzare la capacità degli arrampicatori alla difficoltà delle pareti oppure si deve ridurre la difficoltà delle pareti alle capacità degli arrampicatori?
Le infinite risposte che l’esperienza verticale ha dato e continua a dare a questa domanda lastricano per tutti noi quella via al paradiso che è l’arrampicata.
Giovanni Cenacchi (1963-2006) si è sempre occupato di montagna. Appassionato alpinista, autore di documentari, ha collaborato con le più importanti riviste del settore. Fra i suoi libri Dolomiti di Sesto e di Braies. Il grande libro delle escursioni (1998), I Monti Orfici di Dino Campana (2003), K2. Il prezzo della conquista (con Lino Lacedelli, 2004), Teatri di guerra sulle Dolomiti 1915-1917. Guida ai campi di battaglia (con Mario Vianelli, 2006). Con il documentario I cavalieri delle vertigini ha vinto nel 2000 il Film Festival della Montagna a Trento.
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il vecchio chiodino a pressione è l’assassinio dell’impossibile.
Ma: trapano, fittoni, resina bicomponente, miscelatore per posizionare la resina, tasselli ad espansione.
Tutto questo invece è arrampicata libera?
– è una questione di educazione, di sensibilità, di mondo ideale che ci portiamo dentro. i chiodi a pressione messi durante la salita dal basso li ho sempre disprezzati, perchè è come possedere una donna violentandola. e non importa se ci sono voluti 20 giorni di bivacchi in parete e sofferenze indicibili, per metterli. giustifico i chiodi a pressione unicamente se utili a salvarsi il culo, scendendo e non volendo chiamare i soccorsi. – la montagna va lasciata com’è. se non passiamo noi in libera o con mezzi tradizionali (nut e friend compresi) passeranno altri più forti; in caso contrario il mito viene ucciso e il terreno di gioco, distrutto. – le vie aperte in libera devono essere lasciate come sono, senza aggiungere altra attrezzatura, perchè sono opere d’arte (esempio Lomasti alla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza o fessura nord Cima Grande della Scala). – le falesie e le vie fixate sono belle e godevoli e allenanti, ma hanno altri scopi e attengono ad uno sport, che ha poco da spartire con l’apertura di vie difficili e/o la loro ripetizione leale. (da uno che va in montagna soprattutto per sparare cazzate).
Bellissimo, interessante e vero: complimenti!
Aggiungo solo che “l’arrampicata libera deve all’artificiale più che a ogni altro stile le ragioni della sua nascita” ma anche i mezzi per essere praticata: i perforatori (e quindi gli spit), nut e friend (preceduti da cunei, stoveleg e cric delle 1100) sono stati impiegati per primi in artificiale.
E l’artificiale deve all’idea di libera almeno parte della sua evoluzione, quella più stupefacente, a base di skyhook, micronut e “follie” varie.