Una vita d’alpinismo – 118 – Rock Story – 3 (AG 1983-006)
La fine dell’estate 1983 fu segnata dall’inizio di due grandi lavori. Il primo era stato procurato da Popi Miotti, grazie alle sue entrature alla Banca Popolare di Sondrio: si trattava di realizzare un bel libro sull’escursionismo in Valtellina e Valchiavenna. Con la nostra doppia firma, si sarebbe chiamato A piedi in Valtellina e sarebbe stato regalato dalla Banca a tutti i suoi clienti (un elenco di 10.000 nomi). In realtà l’opera in seguito ebbe così fortuna che l’Istituto Geografico De Agostini volle stamparne altre 10.000 copie, così in sostanza noi fummo pagati due volte… Averne di lavori così. Definimmo con Popi che avremmo lavorato ciascuno a venti itinerari diversi, quindi avremmo provveduto a fare le foto e a scrivere i testi, per un totale di 40 itinerari.
Il secondo lavoro era il ciclopico progetto di scrivere per la Collana dei Monti d’Italia la guida di una consistente porzione di Alpi quasi del tutto priva di precedente documentazione: il crinale che dal Passo di San Jorio corre tra Italia e Svizzera fino al Passo dello Spluga e da lì fino al Passo del Maloja. Bisognava descrivere tutte le montagne e le catene che si diramano dalla cresta principale sui due versanti, sia il settentrionale che il meridionale. Non ricordo se fummo Angelo Recalcati ed io a proporre la cosa a Gino Buscaini (direttore della Collana) o se sia stato il contrario. In ogni modo solo Angelo aveva conoscenza parziale di quel territorio: e io capii in che ginepraio c’eravamo cacciati solo dopo due o tre uscite…
Approfittando di alcune belle giornate settembrine pregai Angelo di accompagnarmi per le prime uscite relative a A piedi in Valtellina. Così il 7 settembre 1983 salimmo da sud-est al Passo del Corno di Dosdé, l’8 al Monte Confinale per la cresta nord-nord-ovest, il 9 fu la volta della grande traversata dalla Valle di Gàvia alla Val di Rezzalo fino a una qualche frazione che non ricordo ma che comunque era raggiungibile con il furgone. Eravamo andati all’inizio della Valle di Gàvia e avevamo risalito una bellissima e solitaria valletta fino al Passo dell’Alpe. Lì Angelo era tornato indietro, aveva ripreso il furgone posteggiato al Ponte dell’Alpe e passando per Bormio era risalito fin dove possibile lungo la Valle di Rezzalo.
Per queste gite, sveglie antelucane, per approfittare delle prime luci. Fotografavo tutto ciò che ritenevo valido per documentare l’itinerario. Furono le prime esperienze di una metodologia che in seguito sarebbe diventata essenziale per il mio lavoro.
Il 10 riposo, probabilmente per brutto tempo, l’11 anche, con la variante che passammo dalle parti del Sasso Remenno, dove riuscii nel famoso passaggio boulder di Goldrake.

Il 12 andammo sul versante valtellinese delle Alpi Orobie. Precisamente salimmo la Val Madre fino al Passo Dordona. La chiamammo la “valle dei tralicci”, sorpresi dalla quantità di quelle strutture. Il 13 all’Alpe Trela e alla Bocchetta di Vallelunga, il 14 salimmo al bivacco Resnati in Val Arigna e da lì facemmo un giretto fotografico sul piccolo ghiacciaio della Vedretta del Marovin, sotto al Pizzo Coca.
Concludemmo con il Pizzo Scalino il 15 settembre. Lo salimmo da nord per la via normale. Anche lì adottammo il sistema di dividerci in cima, perché io volevo scendere lungo tutta la Valle Painale. Per la seconda volta il predestinato a queste galoppate ero io, perché ero io che facevo le foto… scesi dunque da solo la cresta sud-ovest e poi lungo l’infinita ma tutt’altro che monotona Valle Painale e poi lungo la Valle di Togno fino a Spriana.
Si concluse così la prima settimana di lavoro per A piedi in Valtellina.
Qualche parola sulla Valtellina
La prima volta che vidi le montagne della provincia di Sondrio fu in occasione del nostro tentativo di ascensione invernale alla parete nord-est del Pizzo Badile, in quel lontano fine d’anno 1967. Proveniente dalle mie liguri terre natie, pur avendo già una discreta conoscenza di altre Alpi più note e celebrate, non mi ero mai spinto su queste montagne delle Alpi Centrali. L’impatto fu violento, perché per la prima volta mettevo piede su terreno a me sconosciuto e per di più nella stagione più rigida. L’impressione che n’ebbi fu sconvolgente e in seguito si mantenne nel tempo: la violenza iniziale si perse lentamente nei ricordi ottimistici di una splendida esperienza vittoriosa e rimase un languido ricordo di quelle valli, una malinconia di distacco, una gioia rinnovata ad ogni mio ritorno. Infatti in seguito tornai, decine e decine di volte, in ogni stagione: divenni amico di queste montagne.
Giuseppe Miotti (Popi per tutti gli amici) è invece nato tra questi monti e, contrariamente a tanti altri suoi concittadini, sentì molto presto dentro di sé, innata, l’esigenza insopprimibile di amare questa terra così aspra e quindi di percorrerla e di conoscerla. Sviluppò così una solida esperienza, un archivio mentale di dati ed episodi, un’atipica e pervicace volontà di difesa della propria terra.
Con motivazioni così differenti e con nascite così diverse e lontane, si può dire che ciò che ci ha spinti nell’idea di questo lavoro è stato proprio l’amore comune per queste montagne.
A vette molto note come il Pizzo Bernina, il Pizzo Badile o l’Ortles e il Cevedale, i rilievi attorno alla Valtellina e alla Valchiavenna accostano cime e valli assolutamente sconosciute, dove si può camminare per chilometri e chilometri senza incontrare altri escursionisti. Nella scelta di quei quaranta itinerari non abbiamo privilegiato le montagne o le località più note: non era nei nostri intenti proporre itinerari famosi con la segreta speranza di raccogliere più successo. Al contrario la nostra preoccupazione si rivolgeva all’effettiva bellezza delle singole proposte, cercando pure di differenziarle tra loro in maniera tale da non sottoporre mai all’attenzione del lettore due itinerari abbastanza simili tra di loro. Naturalmente non è detto che siamo riusciti nel nostro intento: può darsi che qualcuno abbia fatto critiche più o meno consistenti dopo una lettura del testo, critiche che d’altronde, almeno in teoria, eravamo ben disposti ad accettare.
Un puntiglioso esame dell’opera rivela che per principio non abbiamo ritenuto una valle più importante di un’altra: per la mia estraneità a origini valtellinesi e per la professionale onnicomprensività delle conoscenze valtellinesi di Miotti, questo non era proprio possibile. Abbiamo evitato quindi ogni campanilismo, ogni insistenza su un luogo piuttosto che su un altro, nella certezza che quando si parla di qualcosa non è tanto importante la sua vivisezione quanto la considerazione di questo qualcosa nel suo aspetto più totale e soprattutto nei confronti di ciò che lo circonda. In questa visuale non soltanto abbiamo visto la Valtellina come un valligiano potrebbe vedere la sua valle, ma l’abbiamo considerata come montagna lombarda e quindi come montagna italiana.
Scopo dell’opera
Si sa che un fondamentale presupposto per amare veramente la montagna è il conoscerla non soltanto nei suoi aspetti geografici o nel merito di ciò che è percorribile o impercorribile: per reale conoscenza s’intende anche l’interessarsi con curiosità e attenzione ripetuta nel tempo all’aspetto umano, e quindi alla storia, ai costumi e alle tradizioni di chi lassù ha sempre vissuto e ancora vive; agli animali che popolano i boschi e i luoghi alti; alle piante, ai fiori; ai minerali e alle rocce che compongono l’ossatura di ciò che si ama. È importante, se non conoscere nei più dettagliati particolari, almeno intuire le relazioni tra tutti questi elementi naturali e l’ordine armonico che risulta dalla loro mirabile fusione. Come già qualcuno ebbe a dire, da una vetta il panorama non offre mai nulla di simmetrico: eppure mai più che da una vetta si ha l’impressione che tutto sia in ordine…
Per conoscere e amare la montagna è quindi necessario frequentarla, saper camminare per prati e boschi, gioire nella risalita delle valli come nelle ascensioni alle cime, facili o difficili. Tutte queste azioni è necessario però compiere ad occhi ben aperti, con orecchio pronto ad ogni stimolo e con l’attenzione rivolta ad ogni curiosità.
Purtroppo non è possibile documentare tutto ciò che si vede e soprattutto ciò che si sente: anche opere più importanti di questa che ci siamo appena accinti a fare hanno i loro limiti. Tante sono le pubblicazioni che hanno mostrato e divulgato la montagna valtellinese in ogni aspetto particolare: dall’uomo e la sua sopravvivenza alla cultura e alle usanze montanare, dai boschi ai fiori, dai funghi agli insetti. Anche geologia, litologia, idro e glaciologia hanno avuto documenti validi. Molte sono le guide apparse in libreria che descrivono i sentieri e il modo di raggiungere le cime, guide tascabili pratiche soprattutto per chi abbia già idea di come sono fatte queste montagne. Infine nel dicembre 1982 è apparsa anche una bella monografia di storia dell’alpinismo valtellinese, preziosa testimonianza di studiosi, di pionieri e di grandi guide alpine (Montagne di Valtellina e Valchiavenna, a cura di Antonio Boscacci, Mario Pelosi, Giovanni Bettini e Ivan Fassin).
Mancava un’opera che mostrasse, con semplicità e passione, le bellezze della natura valtellinese e la ricchezza delle sue risorse di solitudine e di incontaminatezza. Mancava un libro che portasse a tavolino l’essenza della montagna di Sondrio, di Bormio e di Chiavenna, in specie sul tavolino di chi per istinto sarebbe portato a conoscere di più e ad amare di più ma che per tante ragioni deve seguire una strada sedentaria. Ecco lo scopo delle nostre fatiche: puntare tutto l’interesse del libro sulla natura della montagna, nei suoi aspetti più spettacolari, più tenui, più selvaggi, più grandiosi, più timidi.
Percorrere con gli occhi gli itinerari da noi proposti era un primo invito, una presentazione limitata ma non limitante, almeno nelle nostre intenzioni. Le immagini avrebbero raffigurato esattamente ciò che chiunque può ripercorrere, proprio ciò che qualunque turista può vedere. Solo in alcuni casi forse ci vuole una grande fortuna: certi animali non sono così facilmente avvicinabili e solo l’abilità e l’esperienza di Adriano Turcatti e di Giuseppe Bocchio hanno potuto rimediare alla grande difficoltà di attendere il passaggio di un animale nel punto giusto al momento giusto.
Non sono questi gli unici amici che avremmo dovuto ringraziare per il loro prezioso aiuto. Anche Giorgio Brambilla, Walter Togno, Lodovico Mottarella e Angelo Recalcati, per non parlare di Ornella Antonioli, Francesco Bedogné, Roberto Bianchini, Roberto Bogialli, Giancarlo Cavagnolo, Antonio Costa, Felice Della Torre, Rosanna e Fausto Fiorelli, Fiorelli Sport – Valmasino, Enrico e Livio Lenatti, Giovanni Majori, Carlo Pozzoni, Riccardo Tagni, il Tecnic color service di Sondrio e Piero Tognini, hanno contribuito alla realizzazione delle immagini. Ancora oggi voglio ringraziarli di cuore.
L’altra fatica di Ercole
Per il weekend andai a Torino da Anne-Lise: il sabato 17 settembre andammo in Sbarua dove salimmo lo Sperone Rivero e la via Barbi. La mattina dopo eravamo sotto la parete orientale della Punta Figari (gruppo Castello-Provenzale) e scegliemmo di salire la via Ghirardi-Gay. Dalla vetta raggiungemmo la vera meta della giornata, la via dei Genovesi alla parete sud della Torre Castello: una via che già mi sarebbe piaciuto mettere nei Cento nuovi mattini, ma che per vari motivi era rimasta fuori. La salimmo velocemente, entusiasti per la bellezza e per l’eleganza dell’itinerario.
E finalmente era venuto il grande momento: l’inizio della nostra guida Mesolcina-Spluga. Mai avremmo pensato in quel momento che avremmo terminato le nostre fatiche “solamente” 17 anni dopo…

Il 21 settembre non era un gran che e Angelo ed io ci accontentammo, dopo il lungo e faticoso avvicinamento al rifugio Como, di salire alla Bocchetta di Correggia e da lì al Monte San Pio. Un ottimo punto di osservazione sulle montagne, creste e pareti circostanti. Vidi una possibilità tale di vie nuove da impormi già da subito un limite.
Non so perché, ma il giorno dopo eravamo in zona differente, in vetta al Monte Groppera salito da est, per dare un occhio anche alla zona che Angelo conosceva meno. Fummo incuriositi dall’Inner Surettahorn. Un elegante sperone nord-ovest saliva alla Quota 3021 m della Punta Nera. Il 23 settembre ne facemmo la prima ascensione: una via che chiamammo Anime cadenti, forse a causa della roccia non proprio ottimale ma anche per via del toponimo “Cime Cadenti” di questa cresta; e dalla vetta traversammo fino alla Punta Nera, per quella che ci sembrava potesse diventare una bella classica di media difficoltà.
In tutto questo rimescolio di iniziative e di programmi, non bisogna dimenticare che dovevo ancora concludere le ultime operazioni per il libro Rock Story. Essenzialmente mi mancava un itinerario preciso, una via che non si può decidere di andare a fare con leggerezza. Volevo farla anche in modo da ricavarne la foto di copertina.
Il 24 era sabato, perciò partii da Rho la mattina presto per Torino: ero rientrato tardi dal Suretta, non mi ero riposato a sufficienza dalla “sgammellata” del giorno prima. Nel frattempo ero venuto a sapere che di lì a qualche giorno in Valle dell’Orco sarebbero tornati nientemeno che Manolo e Roberto Bassi. Con Anne-Lise quel giorno salii la via di Sinistra e Friction a Borgone basso: mi servivano per le ultime foto.

La domenica 25 con Anne-Lise salimmo la Voie de la Relève alla Tête de Colomb (nel Massif des Cerces), una via aperta nel 1970 da Susy e Vincent Péguy, François Diaféria e C. Polycamp. Per le difficoltà e per le incertezze vissute là sopra, trovai quest’itinerario così impegnativo da sospettare, in seguito, di averne salito un altro, magari quel Winayataki aperto nello stesso anno 1983 da Bernard Francou e Gian Carlo Grassi. Non c’erano relazioni, e i ricordi nel frattempo sono svaniti. Chissà che via abbiamo fatto, ma certo la Voie de la Reléve ci apparve di tutt’altra razza rispetto a ciò che qualcuno ci aveva consigliato…

Rock Story
E finalmente qualche giorno dopo (il 29) ci fu l’incontro con Manolo e Bassi alla base del Caporal. Con me erano anche Marco Lanzavecchia e Stefano Magagnoli. Quel giorno non badai all’arrampicata, troppo impegnato a scattare foto a ripetizione a Manolo, che volevo mettere in copertina a tutti i costi sulla via del Diedro Nanchez. Ricordo con particolare impressione le foto che feci sull’ultimo tiro, in un vuoto davvero impressionante.
Da poco avevo fatto amicizia con Stefano Magagnoli, un ragazzo di un’intelligenza tale da non dubitare che avrebbe fatto strada. Appassionato bibliofilo, nel corso della sua lunga carriera di stimato editor Magagnoli ha lavorato a lungo a Segrate. Si è occupato di narrativa straniera (prima in Mondadori e poi in Rizzoli), e tra le altre cose, è stato direttore del Club Editori, dell’edicola Mondadori e del Mass Market. Negli anni ’90 ha lavorato per la televisione (Diritto di replica, Rai3). Tra le sue scoperte in ambito narrativo, diversi bestseller, tra cui Il codice da Vinci di Dan Brown. Purtroppo il 2020 ce lo ha portato via: per Luca Ussìa “se n’è andato un grande dell’editoria italiana. Era il genio della lampada dell’intuizione, del gusto, dell’originalità, della simpatia, dell’umanità del nostro lavoro. Era la classe, fatta persona. Era un amico, uno dei pochi sempre sinceri, a volte giustamente brutali, in questo mondo…”.
Le ultime foto per Rock Story le feci l’8 ottobre sullo Scudo d’Enea alla Sbarua (con Anne-Lise e Marco Mola) e il giorno dopo sulla Via dei Tempi Moderni al Caporal (con Anne-Lise, Alberto Papuzzi e Pietro Crivellaro). Il mio diario dice che mi sono attaccato a 7 chiodi in tutta la via, 5 nella placca e 2 sul muretto dopo la cengia…
Alla fine di novembre 1983 riuscii a stampare (ovviamente per la mia Edizioni Melograno) Rock Story. Mi piace qui riportare la recensione che ne fece Lorenzo Merlo su Jonathan.
“Anche se viviamo in un mondo di disuguaglianza e di differenze, anche se il futuro è solo una grande incognita, anche se le sorti del pianeta sembrano quasi appese al filo di menti sconvolte dalla responsabilità che pesa su di loro, non si può dire oggi che l’individuo occidentale viva una vita avventurosa. Proprio per questo forse se ne parla molto e se ne sente l’esigenza.
Jonathan è il mensile dell’Avventura, cioè delle esperienze, delle proposte, dei racconti di eventi vissuti fuori dell’ordinario, a volte ai limiti della vita: poteva non occuparsi delle motivazioni che spingono l’uomo all’Avventura? I grandi esploratori, i velisti più intrepidi, gli alpinisti più incalliti, gli speleologi e quant’altri si confrontarono con le forze naturali nella dimensione ignoto, ad un certo punto della loro esperienza hanno quasi tutti voluto fermarsi un poco, raccogliersi nell’intimo e spiegare (a se stessi prima di tutto) il perché del loro agire. E quasi tutti hanno concluso che la loro esperienza era primariamente un’avventura interiore, una Fantasia cui nella pratica reale loro tentavano di dare contorni reali. A sottolineare questa tesi c’è la grande letteratura di avventure fantastiche dalla quale ogni ragazzo ha attinto. Verne, Salgari, London ci hanno dischiuso orizzonti che la scuola con tutto il suo vasto sapere un po’ noioso non avrebbe mai potuto liberare. Per rimanere sul terreno alpinistico, Roger Frison-Roche nella letteratura e Luis Trenker nel cinema, hanno narrato le loro intime esperienze con la montagna e con tutto ciò che essa può evocare.
René Daumal, nel Monte Analogo, compie il grande passo: liberare l’Avventura dal mero fatto fisico, interiorizzarla per un fine altissimo, quello della propria Liberazione spirituale. La carica energetica, il carisma che sprigionano da quelle pagine sono incommensurabili, perché l’Autore ha avuto veramente le capacità del grande Maestro. Le avventure di quell’esercito di omuncoli pieni del proprio egoismo alla conquista del Monte Analogo sono così simboliche che, al di là della riflessione, ci sprofondano in un abisso di luce. Daumal riesce a trasferire il gusto del fatto avventuroso sul piano dell’energia spirituale, quella che ci muove in qualunque nostra azione, e quindi va alle radici dell’Avventura.
In questo quadro e in questa problematica ecco le avventure di Andrea, in un libro intitolato Rock Story e scritto da Alessandro Gogna. L’eredità di Daumal era pesante e nessuno l’aveva raccolta: molti estimatori, pochi seguaci. Il francese era morto tisico prima di poter chiudere il suo Monte Analogo, che rimase incompiuto. Finalmente, negli anni ’80, qualcuno tenta di raccogliere il fardello, di continuare l’Avventura interiore. Forse è solo un tentativo, ma Gogna con Rock Story ci ha provato. È la storia di un giovane torinese, Andrea, appassionato di free climbing. Egli scopre pian piano, attraverso successive esperienze, quanto limitato sia il mondo dello sport dell’arrampicata libera. Nel mezzo di questa sua trasformazione egli capita a metà tra due mondi opposti: da una parte la sete di gloria, ricercata tramite un lungo campionato di arrampicata indetto dalla Regione Piemonte, dall’altra la negazione di tutto ciò tramite una serie di avventure interiori, allucinazioni oniriche liberamente accettate da Andrea su proposta del Diavolo. Ciò che è più sconvolgente, nel dedalo di peripezie di Andrea, è la tesi che la Liberazione avvenga tramite il raggiungimento della gloria e non con il rifiuto di essa. O meglio, Andrea vincerà sì la gara, ma proprio perché non gli importa nulla di essa. È quindi la convivenza con il male che fa l’uomo adulto, dopo aver scartato sia il matrimonio con esso sia il rifiuto in blocco.
Nel procedere di Rock Story si incontrano spesso passaggi bui e spinosi, a volte delle contraddizioni, morti apparenti che spiazzano il lettore: occorre sempre vedere la narrazione come un processo dei personaggi della nostra mente, come una morte e rinascita dei nostri significati, delle idee, delle novità. Occorre chiedersi che cosa sono per noi i vari Hassan, Safa, Angelo, Ivan? chi è il Pastore? Non sono domande difficili, basta che il lettore non cerchi delle risposte reali, ma le cerchi solo dentro di sé. Sono tutti personaggi vivi, non in cerca d’autore ma di spettatori che vi si identifichino. Al di là di quanto ho detto è del tutto impossibile riassumere la trama di Rock Story: ripeterò solo che l’avventura sportiva genera la vera Avventura, quella dentro di noi, per la nostra Liberazione”.
Di tutta questa lista val la pena ricordare la prima ascensione di Rock Stupid a Rocca di Corno e la ripetizione della via Casarotto al Sass de Trolgia, in Canton Ticino, con gli amici Marco Pedrini, Romolo Nottaris e Fulvio Mariani, in una freddissima giornata.
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Bravo Sandro sull’83 anno terribile e meraviglioso. Mi fa molto piacere che hai ricordato Stefano Magagnoli che tra tante belle cose dette e scritte ha cercato di far diventare anche me un autore (libro purtroppo da altri censurato) e ci è riuscito con Manolo avendo oltremodo insistito fino a fargli comporre quella meraviglia che è “Quando eravamo immortali.”
Che anno formidabile l’83 per Gogna: grandi vie, grandi amori, grandi cambiamenti. Che tenerezza i vecchi come me, quando si guardano indietro e si aprono.
A fine 1983 (presumo, perchè non ho trovato la data) ho ripetuto Rock Stupid a Rocca di Corno con Marco Bernardi. Lui salì la via in libera a vista e la gradò 7a+. Mi disse che si trattava della prima libera. Gli feci diverse fotografie che sono un bel documento storico, data la prestazione che per i tempi ritengo fosse assolutamente notevole
wonderful !!! romolo nottaris giovane……….mai visto !!!
bello, e bellissime le foto. il Gogna che prediligo.
Grazie per il racconto leggero e per l’articolo di Lorenzo che ci riportano alle cose che contano!
Alessandro, questo è un bellissimo ed esaustivo articolo, ha apprezzato molto, essendo io valtellinese conosco bene anche le zone avendole frequentate e le frequento tutt’ora, dirò di più il libro della Bps lo conservo come una reliquia, è stato credo il primo di quel genere in Valtellina e mi è servito come spunto per tanti itinerari, mi era piaciuto in particolare il sentiero dei tralicci della Valmadre..Rivedo Angelo mio omonimo, giovanile ed esploratore con te della Valtellina e Valchiavenna, lo conosco bene ora per i contatti che ho per i libri…I tuoi libri sono stati sempre molto interessanti in particolare,,Sentieri Verticali,,
Racconto poco Rock e molto Story, ma sempre piacevole da leggere. D’altronde non si può brillare sempre. E comunque ci tiene lontani dall’idiozia persistente dell’archiviazione.