Rolando Garibotti: cosa ho imparato
intervista di Michael Levy
(pubblicata su Rock and Ice, novembre 2019 e su rockandice.com il 19 dicembre 2019)
Sulla Traversata al Cerro Torre con Colin Haley, 2008
Quest’impresa simboleggia tutto ciò cui ho sempre mirato… Avevo incominciato da ragazzetto argentino, visitando la Patagonia nel 1987 con equipaggiamento preso in prestito e nessun contatto con la comunità degli scalatori esperti. Provai il Cerro Torre per la prima volta nell’ottobre 1989, avevo 18 anni. Dovemmo scappare. Quell’anno Ermanno Salvaterra e i suoi compagni stavano facendo il primo tentativo alla Traversata al Cerro Torre. Così, vent’anni dopo, essere quello che ci è riuscito per primo fu come chiudere un cerchio. In me scomparve quel bisogno d’essere sempre teso al massimo.
Per molto tempo ho pensato che le mie scalate fossero dei contributi importanti, punti fermi che spingevano in avanti il limite. Ma quando smisi di premere sull’acceleratore e scrissi la guida al massiccio del Chalten, capii che era quello il più grande contributo che io fossi stato chiamato a dare. Pensi che le cose abbiano un certo valore, poi d’un tratto capisci: “Merda, ho sbagliato tutto!”.
Per 20 anni, di base, sono andato da solo tre o Quattro volte la settimana. Visto ora, se c’era qualcosa che in vita mia non dovevo fare era proprio quello. Non posso negare che ne trassi giovamento e che in quel modo saziavo il mio bisogno emozionale, ma l’equazione rischio-premio non va bene. Assumersi dei rischi è il mezzo più facile, in genere quello scelto dai giovani: ma non è quello che dovremmo prediligere. Ci sono molti altri modi di aggiungere valore alla propria vita e di essere creativi. Non c’è niente di peggio dei comici che usano temi come il sesso per far ridere. Un sistema scadente e davvero facile. Penso che l’uso del rischio per dar più valore alle proprie imprese è uno strumento di uguale povertà creativa.
Sul Piolet d’Or
Stabilire chi vince e chi perde è riduttivo e non aiuta. Si farebbe un miglior servizio alla società con una filosofia differente. Scegliere dei vincenti non è mai un buon modo per avere una vita serena e felice: e nel caso di attività come l’alpinismo e perfino tossico. Allorché ogni anno alcuni dei migliori perdono la vita nel tentativo di spingere oltre il limite, c’è necessità di ripensare le poste in gioco per includere la rinuncia e la presa di decisioni buone come misure del successo.
La mia esperienza nella Traversata al Cerro Torre è stata meno pregna di significato della prima torre che ho salito in Patagonia, l’Aguja Guillaumet, quando avevo solo 15 anni.
La Traversata non è stata una partenza. Ecco cosa ho imparato nei decenni del mio alpinismo: che la ricerca di una partenza proprio da ciò che conosci è la cosa più significativa che tu possa fare.
Sui progetti di difesa ambientale
Ho sempre pensato che fosse importante che gli scalatori avessero un posto al tavolo delle decisioni da prendere. Perché sia così, occorre contribuire, partecipare. Guadagnarsi il proprio posto al tavolo. Spesso gli alpinisti scelgono la posizione anarchica di odiare “la società”, in questo caso il parco, ma c’è bisogno di essere alleati con le entità che proteggono ciò che ami.
Puoi perdere una partita o fallire un progetto di scalata e sentirti ugualmente soddisfatto se senti di aver dato il massimo o di aver preso una decisione dopo aver attentamente valutato pericoli e condizioni.
Non faccio parte della categoria degli hippy. Tutti quelli che nella mia famiglia hanno più di 14 anni hanno un dottorato. Quando mi diagnosticarono la sclerosi multipla, mi rifugiai nella ricerca e decisi di prendere strade diverse da quella dell’assunzione dei farmaci disponibili. Costi ed effetti collaterali dei farmaci sono peggio che i benefici. Ho preso la decisione giusta? Non lo saprò mai. E’ una malattia complicata e piena di variabili, ma il rispetto responsabile del mio organismo mi ha aiutato a fronteggiarla, e mi è stato possibile continuare l’attività alpinistica senza che mi fosse d’ostacolo.
Sul rendere pubblica la propria analisi
Ho pensato che fosse importante condividere; che sarebbe stato un bene per la gente sapere che il tizio che ha salito da solo il Naked Edge all’Eldorado Canyon o che per primo ha fatto il Torre Traverse fosse in realtà affetto da sclerosi multipla. Magari saperlo poteva spronare qualcuno. Di sicuro quest’eventualità avrebbe aiutato me.
Nel 2005 salivo per la valle del Torre, per la prima volta dopo aver Saputo della mia malattia. Quelle montagne mi apparivano belle più che mai. Mi ci volle un anno prima di capire che non era una sentenza di morte e prima di imparare a conviverci. Il passo successivo fu realizzare che potevo tornare alla vita e alle attività di prima, senza restrizioni né limiti. Avevo così tanta paura di dover mollare tutto che quando mi ritrovai ancora in gioco apprezzai quel tutto ancora di più.
In quegli anni la malattia mi diede un senso di urgenza che non avevo mai provato fino ad allora. Prima vivevo quella condizione che molti di noi vivono, lasciar passare i giorni senza riflettere sul fatto che loro non torneranno mai più. Il grande motore dietro al Torre Traverse e anche altre mie salite di quel periodo fu proprio la stessa malattia.
Il mio record per il Tetons Grand Traverse resistette più o meno 16 anni. La ragione per cui ero davvero felice quel giorno è che avevo dato davvero tutto. Quando ero sul Middle Teton, sapevo che avevo già migliorato di un’ora il record di Alex Lowe. Perciò avrei potuto facilmente staccare il piede dall’acceleratore. Ma non lo feci, non volevo avere il minimo pentimento dopo quella grande fatica. Non mi sbagliavo e oggi ne sono ancora contento. Non dimenticherò mai quel giorno.
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Non sapevo della malattia di Garibotti. Sarà la battaglia più difficile della sua vita; per quanto si può capire, la sta affrontando con coraggio. Auguri, Rolando.
DOVEROSA???
e se si apre una via ma la si lascia tutta schiodata, è da criminali?
ma via!!!
Solo “tu” sei Rolo. E io ho la fortuna di saperlo e non solo. E la suerte di essermi legato con te. A presto Rolo
Paolo, come ti capisco!
Fabio, parlo solo per mia esperienza e mia illusione nell’andar per monti.
I 25 anni non sono stati superati, per poco, da alcuni miei cari amici .
E ogni 10 anni mi accorgo che devo cambiare visione e atteggiamento mentale, e altri cari amici non li superano, anche se ci arrivano sempre vicinissimi.
Forse mi ci vogliono ritmi decennali per capire cosa cambia di me che invecchio…. e a crear confusione nell’ultimo decennio, superato, si son messe anche delle malattie.
Io dico sempre che (con le dovute proporzioni) il periodo più a rischio della mia attività alpinistica è stato dai 17 fino a 25 anni. Vie selvagge, in posti fuori dal mondo ( Spalti di Toro e Monfalconi o simili) dormire in bivacco per giorni senza collegamenti. Assicurazione a spalla, relazioni delle vie di poche righe, chiodatura inesistente e nessun collegamento. Poi le cose si evolvono e adesso mi piace scalare in falesia.
Io penso che il problema non sia lo spit o meno, usato o in zaino. Penso sia nell’essere onesti e dire esattamente come si è aperta o ripetuta una via. Penso che la spittatura alle soste, ai giorni nostri, sia doverosa, come doveroso era stato mettere chiodi in sosta evolvendo l’assicurazione a spalla con ancoraggi precari.
Dino Marini
Dimmi, Paolo, quale sarebbe l’altra prova che ci attende intorno ai trentacinque anni o poco piú?
E perché “inattesa”? Non te l’avevano detto? 😂😂😂
Una mia opinione.
Se non si impara ad assumersi dei rischi da giovani, non si riuscirà mai da uomini e non si sarà mai creativi in qualcosa di proprio.
Un problema è non morire prima dei 25 anni, poi di solito fila tutto bene per almeno un decennio, poi c’è quasi a sorpresa un’altro test. 🙂
L’altro problema è non imbrogliare se stessi col pensare di essere capaci di rischiare, mentre invece, perdonate se uso questo come esempio, si portano sempre degli spit nello zaino.
Per 20 anni, di base, sono andato da solo tre o Quattro volte la settimana. Visto ora, se c’era qualcosa che in vita mia non dovevo fare era proprio quello. Non posso negare che ne trassi giovamento e che in quel modo saziavo il mio bisogno emozionale, ma l’equazione rischio-premio non va bene. Assumersi dei rischi è il mezzo più facile, in genere quello scelto dai giovani: ma non è quello che dovremmo prediligere. Ci sono molti altri modi di aggiungere valore alla propria vita e di essere creativi….
E ancora: La Traversata non è stata una partenza. Ecco cosa ho imparato nei decenni del mio alpinismo: che la ricerca di una partenza proprio da ciò che conosci è la cosa più significativa che tu possa fare.
Complimenti a un uomo che ha imparato tanto, e comunque anche a chi ha fatto la traversata del Torre!
Resta il mistero della compatibilità di un’attività alpinistica, tanto più a quel livello, con quella malattia. Sarà stato bravo, o fortunato? Lui stesso dice che non saprà mai se ha preso la decisione giusta.
Vorrei aggiungere che ha perfettamente ragione – per quanto concerne i problemi ambientali – quando dice: “Ho sempre pensato che fosse importante che gli scalatori avessero un posto al tavolo delle decisioni da prendere. Perché sia così, occorre contribuire, partecipare. Guadagnarsi il proprio posto al tavolo.”
Ritengo che il contributo degli alpinisti potrebbe rivelarsi molto importante.
Una bella persona.
Mi trovo perfettamente d’accordo con Cominetti.
Sono d’accordo con Marcello.
Per me lui prima è un uomo e poi è anche un alpinista, ma è sempre una notevole e bella eccezione!
E non scala solo laggiù, talvolta lo si incontra.
Credo che, quando per primi si intraprende qualcosa che una volta fatta entra nella storia, nel caso dell’alpinismo, si sia mossi unicamente da un desiderio di bellezza.