Sci estremo
(scritto nel 1996)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Sono in molti ormai a trovare un po’ noioso lo sci di pista con annessi e connessi di folla, code, costi proibitivi e ripetitività d’esercizio. Una valida alternativa è stata trovata con il cosiddetto fuoripista. Questo sta subendo però pesanti costrizioni nella maggior parte delle località invernali, anche se non si può dire che i divieti siano fatti rispettare rigorosamente ovunque. Infatti il fuori pista, se praticato in massa, si sta rivelando assai invasivo e dannoso per l’ambiente. Alcune stazioni sciistiche che hanno un tempo fatto promozione alla bellezza del loro fuoripista oggi cercano di far marcia indietro e non sanno come conciliare allettamenti e suggerimenti del passato con i divieti che, loro malgrado, sono state costrette a decretare. Ad esempio, il comprensorio sciistico dei Grands Montets (Chamonix) è più affollato fuori che sulle piste stesse. Dopo una nottata di neve fresca, le prime funivie sono letteralmente prese d’assalto per correre a essere i primi a tracciare ghirigori sui pendii: dopo tre ore, tutto il comprensorio è solcato. Trent’anni fa occorrevano tre giorni. Questo comporta gravi problemi di sicurezza e, se un tempo le valanghe venivano provocate artificialmente con piccole cariche esplosive dagli stessi addetti agli impianti, oggi provvede l’elicottero al distacco delle masse nevose dalla loro sede prima del passaggio delle centinaia di appassionati del fuoripista. Con ciò aggiungendo inquinamento a inquinamento, rumore a rumore, costi di gestione a costi ambientali.
Se non abbiamo voglia di passare direttamente allo sci o allo snowboard estremi, un’altra valida alternativa è lo scialpinismo. Ma anche il boom di quest’attività sta rischiando di provocare danni e comunque di non rispondere più all’esigenza di solitudine che, nell’alpinista, è all’origine di quest’evoluzione. Quando si pensa allo scialpinismo si vedono grandi montagne bianche di neve, cielo azzurro, creste esposte al sole e al vento, ghiacciai assai innevati e tanta solitudine. Ci si vede in salita, soli, tracciare le nostre piste; poi, in discesa, decollare con grazia per disegnare curve geometriche e perfette su un pendio completamente vergine: soli con i nostri compagni. Questa visione idilliaca in genere non è neppure minimamente scalfita da altre realtà che invece, nel concreto, rendono assai più prosaica questa bella attività. Mi riferisco per esempio alla neve che non è quasi mai quella da sogno dei depliant patinati perché è crostosa, oppure bagnata o, peggio, a consistenza variabile; mi riferisco al vento a volte gelido, allo zaino pesante e ad altre spiacevolezze. Ma tant’è, il piacere di percorrere le montagne d’inverno o di primavera è così grande che ci si dimentica volentieri di tutti i disagi. Di tutti, meno uno: l’affollamento. E allora ecco che lo sci estremo rimane l’ultima spiaggia dei romantici estremi, là dove l’affollamento non ci sarà mai.
Dice Jean-Franck Charlet: «La forte impressione che mi resta: una diagonale bene in equilibrio… la curva… e per qualche istante, la rottura totale dell’equilibrio come l’avvio d’una caduta, termine che bisogna scacciare da se stessi; poi gli sci fanno perno, mordono, s’agganciano, restano sospesi sul pendio e scivolano verso un nuovo equilibrio. L’anticipo, sguardo già rivolto al prossimo punto d’equilibrio, minimizza l’istante della curva, come se questo momento cruciale, questo cambio di direzione, fosse rimosso per lasciare spazio solo agli equilibri che lo precedono e lo seguono e che permettono di restare sospesi lassù».
È questa la specialità che maggiormente richiede le doti di polivalenza in montagna: grande esperienza alpina e grandi capacità sciatorie. La discesa delle grandi pareti di neve può seguire solo la salita delle stesse con gli sci addosso, per verificare metro per metro le condizione dei pendii di neve. Dopo Sylvain Saudan al Couloir Gervasutti del Mont Blanc du Tacul, dopo Anselme Baud e Patrick Vallençant alla cresta di Peutérey del Monte Bianco, dopo Daniel Chauchefoin alla parete nord-est dei Courtes, Pierre Tardivel al Pilier d’Angle e Jean-Marc Boivin alla Nord dell’Aiguille du Plan e al versante Nant Blanc dell’Aiguille Verte, come si sono evolute le cose e quali sono le prospettive? Alcune di queste «classiche» dello sci estremo sono oggi percorse relativamente spesso, alcune guide vi portano perfino dei clienti, ad esempio sul versante sud delle Grandes Jorasses, o sul Canalone Marinelli al Monte Rosa. Sopra i 55° non esiste pendio di neve, almeno sulle Alpi. Infatti a 60° la neve non si ferma e c’è solo il ghiaccio vivo. Tra i 55° e i 60° si possono scendere a sci solo brevi sezioni. Occorre non dare credito a chi parla di aver sceso pendii a 65°, ciò non è ancora tecnicamente possibile.
Esiste grande differenza tra pareti che presentano in alto una sezione assai ripida che poi degrada verso il basso con pendenza regolarmente sempre più bassa e pareti dove invece la sezione difficile è sovrapposta a una barriera di risalti rocciosi o di seracchi di ghiaccio. Il vero progresso degli ultimi venticinque anni è stato proprio la discesa di pareti di questo secondo tipo, scegliendo tra quelle che i predecessori avevano scartato non perché la pendenza fosse eccessiva, ma perché la sciata sarebbe stata interrotta più di una volta per usare la corda doppia. Ha queste caratteristiche la Cresta dell’Innominata al Monte Bianco, scesa nel 1986 da Stefano De Benedetti. Il Linceul alle Grandes Jorasses presenta 400 metri di sci e 400 di corde doppie.
Schematicamente la tecnica di curva su pendio ripido è la curva saltata. È fuori questione di tracciare grandi curve che richiederebbero troppa velocità. L’appoggio sul bastoncino dev’essere ben diviso dall’inizio della curva, altrimenti provoca un fastidioso disequilibrio del corpo verso valle. Concentrarsi e trovare subito l’equilibrio sulla gamba a valle, poi rilassare quella a monte. La difficoltà dell’appoggio semplice sul bastoncino è stata superata con la tecnica «pédalé-sauté» messa a punto da Anselme Baud. Si tratta di prendere appoggio sui due bastoncini: ciò permette di disporre dell’energia necessaria per sgravare successivamente gli sci ed i bastoncini, conservando il proprio equilibrio.
Riprendere a spigolare è l’altra fase assai delicata, perché la distanza alla quale si possono trovare i due piedi tra di loro (a volte anche 60 centimetri) quando si termina la curva a salto può essere responsabile dell’improvviso trovarsi con il peso suddiviso tra due nevi differenti (più o meno polverosa, più o meno crostosa). Occorre adeguarsi con grande prontezza di riflessi a questa eventualità. Nello snowboard estremo questo pericolo è meno presente, in quanto entrambi i piedi sulla stessa tavola si trovano allo stesso livello allorché la curva si conclude. D’altra parte lo sciatore con i piedi indipendenti ha la possibilità, che il surfer non ha, di smorzare più facilmente gli eventuali disequilibri. Non esistono grandi differenze tra i limiti tecnici raggiunti dallo sci estremo in paragone con quelli dello snowboard. I moderni film che si vedono a ripetizione nelle televisioni a circuito chiuso delle stazioni sciistiche propongono immagini a volte incredibili di gente che scende dappertutto con ogni mezzo: chi ha assistito alla lavorazione del film sa che ci sono state più ossa rotte che mai, ma dal filmato finale non si direbbe.
Freestyler e Alpin
Una buona dose di surf da onda, un’aggiunta di skateboard e un pizzico di sci d’acqua. Agitare e servire molto freddo. Ecco lo snowboard, la «dimensione glisse» per intenditori. Proprio i surfisti da onda lo inventarono negli USA negli anni ’70: lo snowboard ha presto raggiunto l’Europa, dapprima Francia e Svizzera, poi Austria e Italia. Il mondo degli snowboarder è spaccato in due distinte realtà. A dividerli in freestyler e alpin sono le calzature, e quindi gli attacchi. Per i freestyler è d’obbligo la scarpa morbida, soft: l’unica surfata è quella su neve fresca e con quella scarpa. Alle calzature soft si abbinano gli attacchi a guscio a due o tre ganci che esaltano la libertà di caviglia. Le tavole da freestyle sono ottime per il fuoripista e meno efficaci su neve dura; oppure in un half-pipe (pista a lati ricurvi e parabolici), con spericolati salti ed evoluzioni (tricks) dalla terminologia rigorosamente americana, inaccessibile ai non iniziati. La tribù dei freestyler ha subito negli ultimi anni l’influenza della moda street dello skateboard: obbligatori camicia a quadrettoni, larghi bragoni con rinforzo e berretto da baseball calcato al contrario. Dall’altra parte, gli alpin (o carver) amano i curvoni in conduzione e le discipline agonistiche classiche degli slalom su neve battuta. Indossano scarponi rigidi, hard, come quelli da sci ma con un maggiore gioco laterale per il lavoro di ginocchia. Per gli alpin, le tavole da pista asimmetriche sono il vangelo, con forti sciancrature e ponti accentuati, sovente molto strette quanto più il carving è estremo. L’abbigliamento è sempre più lontano da quello sciistico, con taglio assai ampio e minore imbottitura.
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Belle Parole …. ma si vede che è stato scritto nel 1996 … lo snowboard è cambiato lo Sci pure …. e di conseguenza mi rimane solo la poesia di cio’ che non e più come era o come era bello immaginare …
Bellissimo articolo … come e’ cambiato il mondo dal 1996! Con la stella cometa Marco Siffredi nello snowboard, e tanti altri che fanno sognare noi scialpinisti “normali” .. Edmond Joyeusaz, Andrzej Bargiel. Credo comunque che in ogni curva “saltata” riviva lo spirito di Heini Holzer … alla fine restiamo tutti innamorati delle montagne in un modo tutto personale!
Bellissimo articolo. Grazie.
L’avevi scritto per Novella 2000?