Pietro Dal Pra, l’8b+ a 16 anni. Vicentino, classe 1971, un’attività intensissima esplosa sulle falesie di Lumignano.
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Senza chiedere permesso
di Giovanni Cenacchi
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 101 (Roc ’88), ottobre 1988)
Quando si sceglie lo strumento dell’intervista per illustrare un aspetto dell’universo multiforme della verticale, ci si rivolge di solito a personaggi dotati di una certa esperienza, e domanda dopo domanda si cerca di scandagliare i meandri della loro memoria per ricostruire una traccia a cui si possa attribuire anche il valore di riferimento storico. Questo, almeno, in teoria. Talvolta però, ed è il caso dell’arrampicata moderna, alcuni fenomeni sono così giovani da escludere questa divaricazione tra storia e memoria, rendendo superfluo ogni tentativo di ricapitolare in forma di testimonianza orale l’evoluzione di una disciplina. Il peccato originale di ogni intervista, in questo modo, è quello di tradire sempre una presuntuosa vocazione archeologica.
Per quanto riguarda l’arrampicata, ad esempio, da sempre pare essere stato compito supremo di tutti individuare indiscutibili origini, personaggi ispiratori, un destino del quale il passato fornisce ogni presagio ed un senso inequivocabilmente tracciato tra il confine del bene e quello del male. Va bene che «così invero le cose sorsero secondo l’opinione ed ancora sussistono» come diceva il greco Parmenide, ma in questo modo si finisce con il trasformare ogni intervista in uno strazio, in una tediosa logorrea che spesso fa confusione fra testimonianza e giudizio.
Nulla in contrario ai giudizi, quindi, purché questi non abbiano la velleità di sostituirsi ad una storia quasi inesistente, o addirittura di inventarla per giustificare ogni genere di condanna o di assoluzione. Il fatto è che, adducendo motivi di analisi storica, molti si sono sentiti finora in dovere di processare l’arrampicata moderna (o libera, o sportiva, o sintetica, o estrema, non si sono ancora messi d’accordo sul nome, figuriamoci sul significato), senza porsi minimamente il problema di guardarla, semplicemente osservarla per quello che è senza pregiudizi di sorta. Ecco perché, questa volta, per esplorare la natura della giovane arrampicata italiana ci serviamo dello sguardo fresco e disinibito di uno dei suoi più giovani protagonisti.
Pietro Dal Pra ha 16 anni, e se non è abbastanza vecchio per giudicare il presente dell’arrampicata in funzione del suo passato è solo una fortuna, perché di passato la nuova arrampicata ne ha ben poco e tutto il resto è fantasticheria. D’altronde il presente dell’arrampicata che qui ci interessa è solo quello della sua presenza, del suo essere, con il futuro come luogo naturale del poter essere il possibile, onesto prodotto dello stato delle cose e non di luoghi comuni o di pregiudizi inveterati.
Di questi pregiudizi, dobbiamo confessarlo, siamo stati vittime anche noi incontrando Pietro. Se non altro nell’aspettativa inconscia di trovarci di fronte all’epigono di una generazione accecata dal look del business, illusa di vivere in un film dall’onnipresente legge dell’apparire, ma drammaticamente confusa tra Momenti di gloria e Gioventù bruciata. Ci sbagliavamo. Facendo sdraiare Pietro sul lettino di Roc ’88, abbiamo scoperto con sorpresa che per arrampicare sull’8b non è necessario diventare nevrotici come asceti né alienati come veri atleti, e che per parlarne si può fare a meno di essere superficiali come l’elenco del telefono o bugiardi come uno spot pubblicitario. E sufficiente seguire le tracce del proprio desiderio, del proprio godimento, del puro piacere di arrampicare, al di là di chi vorrebbe rendere l’arrampicata triste come un lavoro e gli arrampicatori schiavi infelici del suo prodotto. Pietro Dal Pra, vicentino, s’è dato alle verticali a 12 anni dedicandosi subito all’arrampicata in falesia senza passare attraverso la consueta iniziazione dell’alpinismo. Particolare curioso: Pietro è arrivato all’alpinismo più tardi, quando ormai era già una stella nel firmamento degli spit, ed ha fino ad oggi collezionato una ragguardevole quantità di salite dolomitiche (fra le tante troviamo la Lacedelli-Ghedina alla Scotoni, la Costantini-Apollonio e la Ferrari-Sioli alla Tofana di Rozes, tutte in libera, tanto per intenderci).
A 12 anni Pietro comincia a frequentare la falesia di Lumignano, che diventa in breve la sua seconda casa. Grazie al suo naturale entusiasmo e al continuo confronto con i climber locali, Pietro brucia le tappe ed è subito in grado di destreggiarsi su difficoltà nell’ordine del 7a. A 14 anni, stimolato soprattutto dai risultati di Heinz Mariacher, si cimenta sulle vie più dure infrangendo il limite del 7c. A questo punto, siamo ormai nel 1987, Pietro decide che l’arrampicata conta molto per lui e vi si dedica con più metodo e costanza. I brevi e durissimi strapiombi di Lumignano sembrano subito piegarsi ai suoi desideri, e a soli 15 anni Pietro è il più giovane arrampicatore (del mondo?) a cavarsela sull’8a. Compie 16 anni e passa l’estate tra Arco e il Verdon, poi torna a Lumignano dove sale Boomerang (8a+).
Siamo giunti al dicembre 1987, quando con soli 14 tentativi in 10 giorni, a Pietro riesce, rotpunkt, il miracolo di Mare allucinante, 8b+, venti metri terribili spittati da Martin Scheel proprio di fianco a Boomerang. Con questa salita Pietro si trova ad essere consacrato come il primo italiano ad avere superato un 8b+, anche se, come tiene a precisare, alcune salite precedenti di Manolo meriterebbero valutazioni più generose. Incontro Pietro a Lumignano in una sera d’aprile, proprio sotto la sua falesia del cuore. Credevo che la differenza tra un vero «top climber» (lui) e un climber qualsiasi (io) stesse nel fatto che dopo una giornata di dolorosi buchetti calcarei, mentre il primo cerca di ritemprarsi sorseggiando un’aranciata macrobiotica a calorie programmate, il secondo cerca di dimenticare i gonfiori e le spellature delle dita diluendo a suon di birra l’acido lattico di cui è pieno. Ora che siamo tutti e due seduti di fronte ad una pinta di bionda cervogia mi accorgo che sbagliavo: la sola differenza fra un top climber e un climber qualsiasi sta nel fatto che lui manovra il boccale con tre dita, mentre a me servono entrambe le mani e comunque tremo. Prosit!
Pietro Dal Pra su Mago della Propoli, 7c+, Lumignano. Foto: R. Andolfato
Arrampicare ai tuoi livelli deve comportare non pochi sacrifici, soprattutto alla tua età: a 16 anni, di solito, si conduce una vita piuttosto spensierata. C’è qualcosa che ti pesa in modo particolare nella tua vita quotidiana, qualche sacrificio che sopporti con fatica?
Certo, ma tutti i veri sacrifici che devo sopportare non hanno niente a che fare con l’arrampicata. Piuttosto andare a scuola, studiare per prendere voti e non per imparare davvero, aderire ai modelli imposti dalla società in cui viviamo: questo sì che mi pesa.
Ma l’arrampicata non aggiunge davvero altre costrizioni? Le diete, gli allenamenti?
Guarda: ho abolito la carne e mangio integrale, ma è soprattutto perché mi piace. Comunque non sono uno stretto osservante. Credo che il cinquanta per cento dei miei pasti sia costituito da dolci e gelati! Per quanto riguarda gli allenamenti, cerco di arrampicare almeno 3-4 giorni la settimana, che completo con un po’ di allungamenti e di corsa. Gli allenamenti “a secco”, quelli su listelli o buchetti artificiali, li trovo piuttosto noiosi, non ne faccio quasi mai. L’unica volta che ci ho provato sul serio, mi preparavo per El somaro, un 8a. Sono scoppiato dopo una settimana: non ne potevo più! Non credo proprio che gli allenamenti a secco siano indispensabili. Per il resto, arrampicare è solo un piacere.
Il piacere immediato, quasi gratuito dell’arrampicata per te è ancora un valore?
Certo che lo è, e deve restare tale. Anche sulle vie estreme, dove serve un grandissimo impegno, c’è spazio per percepire il piacere del gesto. Un 8b è bello da salire, ed è bello averlo salito. Quel po’ di piacere immediato che lo sforzo ti toglie, un 8b te lo rende, grandissimo, nei momenti successivi, nel ricordo, nella memoria.
Anche Reinhard Karl, a proposito di alpinismo, scrisse che la felicità è paragonabile alla discesa…
Proprio così. È anche una questione di atteggiamento: non bisogna lasciare che la concentrazione si trasformi in tensione, non bisogna sentire la realizzazione di una via dura come un peso o un dovere, io cerco sempre di affrontare ogni tiro difficile senza dare troppa importanza al fatto che possa o no riuscire. Le rotpunkt migliori mi vengono sempre quando parto ridendo. Semplicemente provare vale molto. D’altra parte trovo assurdo lavorare troppo a lungo un tiro. Passare mesi interi, volando, sempre sullo stesso passaggio ha più a che fare con la nevrosi che con il piacere. Ed è per questo che non ho mai passato più di due settimane, un mese al massimo, sullo stesso tiro. Cerco sempre di avere voglia di superare un passaggio, non devo sentirmi obbligato a farlo. In questo modo, su Mare allucinante, 8b+, sono bastati 14 tentativi in 10 giorni…
Pietro Dal Pra viaggia sull’8a di El somaro a Lumignano. Foto: M. Baldini
Eppure per certi sportivi l’idea che valga ciò che costa impegno fa sì che questi sottovalutino e quasi disprezzino tutto ciò che è più facile del loro limite. Dopo aver assaggiato l’8b, il 7a ti piace ancora?
Non solo mi piace ancora, mi piace di più! Se c’è una cosa fantastica nel tentare vie al limite, sta proprio nel fatto di riuscire poi a passare in scioltezza, quasi rilassati, su vie fino al 7b o su lunghezze mai salite prima.
Ricerca del sempre più difficile, competizioni, vie a vista, danza. Persino nell’arrampicata moderna, la più specialistica delle discipline deviate dall’alpinismo, sembra che ci sia spazio per ulteriori specializzazioni. A quale pensi che il futuro riserverà maggiore fortuna?
Nelle salite a vista, o almeno lo spero. L’arrampicata “on sight” è di gran lunga quella che da più soddisfazione, è l’arrampicata suprema, ma anche il campo in cui forse c’è più da fare. Per salire a vista sulle grandi difficoltà è necessario assimilare un vasto repertorio di movimenti, costruire dentro di sé la dimestichezza con ogni situazione imprevista. Poi serve una grande armonia interiore, una grande capacità di intuizione, e queste doti sono ancora troppo poco esplorate. Al giorno d’oggi, forse, una on sight estrema può dipendere anche dalla fortuna. Ma proprio per questo bisogna darsi da fare perché in futuro sia magari possibile salire dieci 8a a vista in una stagione. E in tal caso di fortuna non si dovrebbe più parlare.
Credi di partecipare in futuro a qualche gara? Cosa pensi delle competizioni?
Le gare non mi piacciono assolutamente. Esclusi i soldi che si possono guadagnare e la possibilità di trovare sponsor, le competizioni per me non hanno alcun valore. Vorrei poter vivere di arrampicata, e quindi temo che dovrò partecipare a qualche gara. Ma le sento come un compromesso, un dovere a cui sono costretto se voglio mangiare. Quando alcuni hanno detto che era necessario organizzare competizioni per rendere l’arrampicata uguale agli altri sport, nessuno si è mai chiesto se la mancanza di gare potesse essere un vantaggio nei confronti degli altri sport, invece di una grave mancanza. Ecco, si è trasformato un elemento di superiorità nei confronti di altre discipline in un complesso di inferiorità. Forse, prima, proprio perché non c’erano competizioni ufficiali, l’arrampicata era uno sport migliore di altri. È un peccato, perché a causa della sua estraneità al mondo delle gare l’arrampicata avrebbe potuto insegnare parecchio a tutte le discipline atletiche.
Molte delle competizioni si svolgono oggi all’ombra di muri artificiali. A te piacciono i muri?
Qualche volta li faccio, ma solo come allenamento. Credo che sia impossibile riprodurre artificialmente la natura, e per me l’arrampicata non è altro che un risultato del rapporto uomo-ambiente. Se elimini l’ambiente togli lo stupore, l’emozione, la meraviglia. E dove il gesto diventa fine a se stesso non c’è più arrampicata ma solo ginnastica. Per me, poi, arrampicare significa girovagare, vagabondare tra le falesie che offrono sempre magnifici ambienti naturali, posti veramente belli per vivere. Con l’indoor, invece, puoi diventare fortissimo anche senza muoverti da una città… Lo trovo davvero freddo, sterile…
Come accadde nell’alpinismo o nello sci estremo, ora anche in arrampicata ci si chiede quale sia il limite invalicabile delle difficoltà che un uomo può superare in roccia. Dopo avere salito La rage de vivre e Le Minimum, 8b+, a Buoux, il risorto Jerry Moffat ha dichiarato a Vertical di riuscire ad immaginarsi un 8c+, ma non ancora un 9a. Quanto è dura la via più dura della tua immaginazione? 9a. Un 9a lo immagino e credo che ci arriverò, mentre penso che un limite insuperabile ci sia, ma anche che siamo lontani dalla possibilità di vederlo. D’altronde due anni fa sembrava impossibile arrampicare ai livelli di oggi, e invece… Comunque sia, penso che salire un 9a non sarà un affare troppo divertente. Molto allenamento, molto tempo da dedicare a un solo problema, molto del piacere immediato del gesto andrà perduto. Non so fino a che punto saprò sacrificarmi per un risultato del genere.
Ed eccoci alla domanda più cretina del mondo, quella a cui però quasi nessuno sa rispondere, un vero 8c dello sproloquio su roccia. Eccola tutta d’un fiato: perché arrampichi? Cosa cerchi e cosa trovi appeso ai quattro appigli più piccoli del mondo?
Due anni fa lessi sulla Rivista della Montagna un articolo su Edlinger intitolato «Vivere per arrampicare o arrampicare per vivere?». Mi colpì molto. Arrampicare per vivere, risponderei oggi, vivere con l’arrampicata. Voglio dire che la cosa più importante per me non è arrampicare, è vivere da arrampicatore. L’arrampicata fine a se stessa, lo ripeto, è solo una forma di ginnastica. Sapersi sempre stupire, come sa farlo un bambino, quasi con ingenuità, ecco quello che mi dà l’arrampicata. Mi insegna a trovare lo stupore in un mondo in cui tutto è sempre più prevedibile, codificato, programmato. La vita di un arrampicatore è ciò che per me più si avvicina a un’idea di libertà e di serenità: avere un furgone, andare in giro da una falesia all’altra, essere immerso nella natura. Questo è il mio sogno.
Giovanni Cenacchi sul Campanile San Marco, via l’Azzurro del Cielo. Foto: Gimmi De Col
Continuiamo con i sogni, quelli premonitori però. La nuova arrampicata è una creatura piuttosto giovane: cosa pensi che farà da grande?
Vedo il futuro piuttosto grigio. Credo che negli ultimi tempi, tanto in Italia che in Francia, l’ambiente si sia molto guastato. Troppa competizione, troppo astio, troppa rivalità. Le gare, i campionati ufficiali, rendendo esplicita la competizione non hanno frenato quella implicita, quella sotterranea. Anzi, l’hanno esaltata. Tutti si guardano male, pettegolezzi, polemiche e colpi alle spalle sono all’ordine del giorno. Persino le amicizie durano meno. Non credo comunque che questa situazione sia immutabile, non dobbiamo rassegnarci, dipende tutto da noi. Prendi le gare: se ci sono e hanno riscosso tanto successo è perché qualcuno si è preso la briga di inventarle e proporle al mondo dell’arrampicata. Ma non bisogna per questo pensare che siano l’unica direzione possibile. La tendenza si può ancora invertire. Ci sono qua e là manifestazioni, come Arrampicarnia, in cui tutto è più rilassato, divertente, dove l’amicizia e la voglia di arrampicare prevalgono sulle tensioni e sulla rivalità. Nell’organizzazione di questi meeting non competitivi, anche se ora sembrano molto controcorrente, credo ci sia la speranza di un ambiente più umano, più ricco. E per quanto mi riguarda, più vicino al mio desiderio di vivere per arrampicare.
Tu sei piuttosto giovane. Che cosa farai da grande?
Ti aspetteresti una risposta tipo: arrampicare, arrampicare, arrampicare? Non è così. Vorrei solo vivere con l’arrampicata, crescere con l’arrampicata. Te l’ho già detto: è un modo per essere ancora bambini, per non perdere per sempre la propria infanzia…
20
E’ anche l’occasione per ricordare Giovanni Cenacchi, portato via giovane da un male crudele.
Che bella intervista! Parole molto mature per un diciassettenne e ancora più apprezzabili sapendo quanto abbiano ben definito una linea evolutiva ormai chiara, ma all’epoca ancora ai suoi esordi.
Non so se Pietro, crescendo, sia poi stato coerente con questo suo modo di vedere la vita e l’arrampicata. Voglio credere che lo sia stato e lo sia tutt’ora (e così mi è parso nella giornata trascorsa insieme, pochi anni fa).
Mitico Pierin. Un evergreen con il senso del gusto.
Ciao