Piegata dal lockdown, la famosa libreria parigina rischia di chiudere. Un appello per comperare i suoi volumi on line.
Parigi, SOS per la libreria mito
di Giuseppe Culicchia
(pubblicato su La Stampa del 2 novembre 2020)
Chiunque in vita sua abbia messo piede alla Shakespeare & Company, la storica libreria anglo-americana di Parigi fondata dalla mitica Sylvia Beach, deve aver sperato di trovarvi – come nel film di Woody Allen Midnight in Paris – Hemingway e Fitzgerald in amabile conversazione con la proprietaria, com’era facile negli anni Venti del Novecento, o almeno d’imbattersi nei loro fantasmi. E oggi che la Shakespeare & Company rischia di chiudere, tutti i suoi aficionados sono chiamati a darle una mano. Ma andiamo con ordine.
A Parigi si era nel 1919. Sul fronte francese la Grande guerra poi raccontata in Viaggio al termine della notte da Louis-Ferdinand Céline era finita da pochi mesi, e nella Ville Lumière si era tornati a vivere senza più l’incubo del possibile arrivo dei tedeschi, come già nell’assedio del 1871. Quell’anno, un’americana trentaduenne figlia di un pastore presbiteriano, nata a Baltimora nel 1887 ma già pratica della capitale francese – dov’era stata adolescente quando il padre venne nominato vice pastore dell’American Church in riva alla Senna – decise di aprire una libreria: si era innamorata di quella fondata al numero 7 di rue de l’Odéon da Adrienne Monnier, la Maison des Amis des Livres, che faceva anche da biblioteca circolante e ospitava letture con gli scrittori più celebri dell’epoca.
La Beach e la Monnier divennero amanti, per poi convivere fino al 1955, quando la seconda si uccise. E però, in quel primo anno di pace dopo la carneficina che aveva insanguinato le trincee d’Europa, l’americana volle seguire le orme della nuova compagna di vita: e se dapprima aveva accarezzato l’idea di aprire una libreria francese a New York, fatti due conti – complice il cambio favorevole franco-dollaro – si mise in testa di far conoscere ai francesi la letteratura d’Oltremanica e d’Oltreoceano. Così, al numero 8 di rue Dupuyen, fondò la Shakespeare & Company. Certo non poteva immaginare i successivi sviluppi: Sylvia Beach non si arricchì mai – pare sia destino comune alla maggior parte dei librai – ma la sua libreria, che tre anni più tardi trasferì al numero 12 di rue de l’Odéon, divenne presto il luogo di ritrovo prediletto degli scrittori di lingua inglese che avevano eletto Parigi a loro residenza: e dunque da James Joyce – di cui Sylvia Beach in veste di editore pubblicò nel 1922 l’Ulisse, salvo poi essere tradita dall’irlandese quando questi passò alla Faber and Faber per Finnegan’s Wake – ai succitati Fitzgerald e Hemingway, che alla libraia e al suo negozio avrebbe poi dedicato pagine memorabili in Festa mobile. Ma non solo: perché da Sylvia presero a darsi appuntamento John Dos Passos ed Ezra Pound, Ford Madox Ford e Gertrude Stein, Thomas Stearns Eliot e Zelda Sayre Fitzgerald.
Il crollo della Borsa di New York nel 1929 diede inizio alla Grande Depressione, e anche la Shakespeare & Company patì le conseguenze della prima grande crisi finanziaria globale, tanto che a un certo punto la Beach pensò di chiudere. Cosa che durante l’occupazione tedesca poi fu costretta a fare, a causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941. Così, per tutti coloro che hanno amato quella libreria, che dal 1951 un altro americano, George Whitman, aveva riaperto in rue de la Bûcherie, tra la Senna e il Boulevard Saint-Germain, la notizia della situazione in cui la Shakespeare & Company si trova oggi, a causa del primo e ora del secondo lockdown, ha un che di luttuoso. Perché nel frattempo la libreria, ora gestita da Sylvia Beach Withman, figlia del secondo proprietario che in omaggio alla fondatrice così volle battezzare l’erede, era diventata un’istituzione anche per le generazioni a venire.
Tra i suoi scaffali e i suoi tavoli stracolmi di libri – venduti col timbro «Shakespeare & Company» stampigliato sulla prima pagina di ogni volume – era infatti passata negli anni Cinquanta e Sessanta anche la Beat Generation, all’epoca in cui Allen Ginsberg, Gregory Corso e Jack Kerouac bazzicavano gli alberghi economici dalle parti di rue Gît-le-Coeur. Di modo che nei decenni successivi innumerevoli lettori hanno fatto tappa da quelle parti. Anche perché il buon Whitman, memore delle sue origini beat, in cambio di un po’ d’aiuto era disposto a ospitare sui divani della libreria chiunque non avesse un budget tale da potersi permettere di dormire in hotel.
È così che in questi giorni la figlia ha lanciato un appello chiedendo di soccorrere la cara vecchia libreria – che a causa della nuova crisi planetaria ha visto calare gli incassi dell’80% e da mesi non riesce a pagare l’affitto, nonostante gli aiuti governativi – facendo acquisti non più tra gli scaffali dove forse si aggirano i fantasmi della Generazione perduta e dei poeti e narratori che cantarono l’utopia libertaria capace di incantare i Figli dei fiori, ma sul Web. Sylvia Beach Whitman spera infatti ormai solo negli acquisti on line. Perdere quest’istituzione a 101 anni dall’apertura sarebbe un delitto. E chissà che i ragazzi e le ragazze che vi si sono recati sulle tracce dei loro eroi letterari, e magari hanno dormito sui suoi divani all’epoca in cui non avevano i soldi necessari a pagarsi un albergo nella Ville Lumière, oggi non vogliano dare il loro contributo. I fantasmi di cui sopra ne sarebbero di certo contenti.
Ricordo d’autore
di Ernest Hemingway (da Festa mobile, traduzione di V. Mantovani, Mondadori 1964)
Allora mancavano i soldi per comperare i libri. Li prendevo a prestito dalla biblioteca circolante di Shakespeare and Company, che era la biblioteca e libreria di Sylvia Beach al 12 di rue de l’Odéon. In quella strada fredda e spazzata dal vento, era un posto caldo, allegro, con una grossa stufa durante l’inverno, tavoli e scaffali di libri, libri nuovi in vetrina, e sulle pareti le fotografie di scrittori famosi, morti e viventi. Le fotografie sembravano tutte istantanee e anche gli scrittori morti avevano l’aria di esser vivi. Sylvia aveva un viso vivace, finemente scolpito, occhi castani vivi come bestiole e allegri come quelli di una bimba…
Shakespeare and Company è in crisi
di Carlo Crovella
Per uscire dalla gabbia della diatriba “dati veri-dati falsi”, mi piace proporre ai lettori di Totem & Tabù un tema parallelo, ma altrettanto importante. Con tutto il più profondo rispetto verso le vittime della pandemia in corso, se si amplia l’orizzonte dello sguardo si comprende che gli effetti nefasti possono determinare anche altri “tipi” di vittime.
Proprio di recente è stato lanciato il grido d’allarme per cercare di salvare la libreria parigina Shakespeare and Company. Per comprendere l’importanza di tale istituzione rinvio alla descrizione storica ben tracciata nell’articolo allegato.
Amo visceralmente Parigi: è la mia seconda città. Destino comune a molti torinesi, anzi nei secoli Torino ha sempre certato di assomigliare alla capitale francese: si dice che Torino sia una piccola Parigi. Il ceppo più radicato dei torinesi (i cosiddetti sabaudi) ha nel sangue un approccio marcatamente francofilo.
Nella mia esperienza personale Parigi si collega anche alle mie letture adolescenziali, dove avevo scoperto Hemingway e gli altri anglosassoni delle cosiddetta “generazione perduta”. Il nesso consiste nel fatto che gran parte di questi scrittori vissero a Parigi nel corso degli anni ’20 e ’30 del Novecento. C’è stata una contaminazione reciproca fra la città e i personaggi in questione.
Essendo all’inizio della loro avventura, essi tiravano letteralmente la cinghia: per molti di loro fu determinante la libreria Shakespeare and Company, dove la fondatrice Sylvia Beach, oltre a imprestare i libri a chi non poteva comprarli, aveva costituito un punto di aggregazione per gli intellettuali. Oggi diremmo che la libreria funzionava come un “hub”, cioè un centro culturale dove i giovincelli spiantati s’incontravano per confrontarsi e scambiare le loro prime opere editoriali. Questi “giovincelli” rispondevano a nomi quali Hemingway, Joyce, Fitzgerald, Dos Passos, Ezra Pound, Gertude Stein e mille altri. Tutti personaggi che domineranno la scena internazionale nei decenni successivi.
Numerose sono state le mie puntate a Parigi, dove il tempo atmosferico muta ad una rapidità come solo in alta montagna mi è capitato di verificare: occorre infatti essere adeguatamente attrezzati per affrontare, anche a Parigi, i famigerati ed improvvisi rovesci, che in piemontese chiamiamo “slavandun”.
Nel mio girovagare per la capitale francese, mi è capitato di ripercorrere le stesse strade degli anglosassoni di cento anni fa. Come si sarà capito, ho una particolare predilezione per Hemingway e sono quindi andato in pellegrinaggio sotto la sua prima abitazione parigina, al 74 di rue du Cardinal Lemoine.
Ho visitato i giardini e il museo del Luxembourg, dove Ernest raccontava che (tornando a casa dopo una dura giornata di lavoro) si fermava per rimirare i quadri famosi lì custoditi: era per lui come prendere una bocca d’aria fresca.
Mi è capitato di effettuare numerose puntate alla Shakespeare and Company, la cui sede da molto tempo è presso la Senna: non potevo esimermi dall’acquistare una copia di “Fiesta mobile” (il libro hemingwayano proprio dedicato al soggiorno parigino) in lingua originale e con il timbro della libreria sulla prima pagina.
Per tutti questi motivi, l’articolo che riporto in calce per me è stato una vera pugnalata al cuore. Non voglio apparire blasfemo, in un periodo di dolore e tristezza come l’attuale, ma l’eventuale perdita di questa libreria (come di mille altre) sarebbe davvero un danno incalcolabile sul piano storico e culturale. Per maggiori informazioni: https://friendsofshakespeareandcompany.com/
Le ripercussioni del Covid sulla libreria parigina sono una conferma che, oltre all’emergenza sanitaria che sta davanti a qualsiasi altra valutazione, la pandemia impatterà su moltissimi risvolti della nostra esistenza. Io temo che nulla sarà più come prima. In particolare il concetto riguarda il risvolto culturale. Non mi metto qui a fare il sindacalista dei relativi lavoratori (i cui problemi economici sono però un “vero” problema che, oggi come oggi, non è ancora ben chiaro all’intera opinione pubblica).
Mi riferisco piuttosto alla desertificazione culturale che la pandemia accentuerà: il fenomeno è in corso da tempo, probabilmente da un paio di decenni almeno, ma sicuramente sta registrando un’accelerazione i cui effetti saranno visibili a tutti fra qualche anno. Anzi, da buon pessimista, temo che le ripercussioni saranno irreversibili.
Anche il mondo della scuola ne uscirà presumibilmente intaccato: la didattica a distanza, oggi inevitabile in molte situazioni per esigenze sanitarie, inaridisce l’apprendimento rispetto alla condivisione quotidiana all’interno di una piccola comunità quale è la singola classe (sia essa di I elementare come di V liceo). Sarà che io sono condizionato dalla mia impostazione che affonda nella cultura classica, ma il concetto di scholé, già elaborato dagli antichi greci, è davvero insostituibile: non si tratta di mero apprendimento, ma anzi di “svago”, di lasciar correre il pensiero, per far crescere le proprie capacità analitiche e riflessive, attraverso il dialogo, la reciproca interlocuzione, il dibattito. Tutto ciò è impensabile attraverso un freddo pc: non ci sono slide lampeggianti o meravigliosi podcast che possano rimpiazzare, con altrettanta efficacia, il “dialogo” quotidiano fra insegnanti e allievi e fra gli allievi stessi. La scuola, nell’impostazione classica costituisce un meccanismo di progressiva formazione delle personalità, non la memorizzazione di infinite nozioni.
Questa formazione dell’individuo va oltre gli spazi prettamente scolastici come li intendiamo noi e, a suo modo, la Shakespeare and Company costituì una comunità (una scholé) da cui, non a caso, fiorirono personaggi di taglio molto elevato.
Contravvenendo al mio usuale pessimismo, mi piace concludere queste riflessioni con un sorriso, pescando proprio da Festa Mobile di Hemingway, quando lo scrittore ricorda il ritrovato sorriso all’uscita dall’inverno parigino:
“Quando giungeva la primavera, anche solo la falsa primavera, non restava che da risolvere il problema di sceglie il posto in cui sentirsi più felici”
L’inverno del CoViD-19 sarà duro, è inutile nascondercelo, ma dobbiamo confidare nella futura primavera.
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Luigi Brusca
vallo a dire al mister infettivologo Galli onnipresente in televisione, che ha invitato la gente ad acquistare su internet.
anche io penso che sarà grave la desertificazione scolastica lasciata dal covid. compriamo i libri e i regali tutti dai negozi di quartiere e non su internet.