Ricorre oggi il cinquantesimo di una grande impresa (un po’ dimenticata): la prima solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul.
Solitaria di Motti al Mont Blanc du Tacul (RE 020)
di Emanuele Cassarà
(da Tuttosport del 17 luglio 1969)
Lettura: spessore-weight(1), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(1)
Alla vecchia maniera dell’alpinismo antico Gian Piero Motti, campione silenzioso, è partito all’alba di martedì (15 luglio 1969, NdR) dal rifugio Torino sopra Courmayeur e si è avviato, un leggero sacco sulle spalle, verso la base del Mont Blanc du Tacul 4269 m nel gruppo del Monte Bianco, lungo il Ghiacciaio del Gigante. Alle sei attaccava il vertiginoso Pilone Gervasutti, spettacolosa «costa» di granito rosso che si innalza, in verticalità pirotecnica, sino alla vetta per novecento metri, sul versante nord Est del massiccio.
Gian Pero, ventitreenne presidente del Gruppo Alta Montagna di Torino, esponente agguerritissimo e ambiziosissimo dei campioni subalpini del sesto grado, si è presentato al più grande appuntamento della sua carriera di scalatore, in tutta segretezza e solo. Un match testa a testa con la grande montagna, condotto in condizioni perfette d’ambiente (sole, sereno, caldo) e munito di una tecnica raffinata, di una preparazione scrupolosa (ogni domenica, per tutto l’inverno e l’arida primavera, il nostro ha effettuato decine e decine di salite, in palestra, in Dolomiti, nel gruppo del Gran Paradiso e sulle Grigne di Lecco) e soprattutto di una caparbia volontà di vittoria.
Il «Pilone», cui venne imposto il nome del grande Giusto Gervasutti che vi scomparve tragicamente nel primo tentativo, nel 1946, è stato violato la prima volta dalla cordata di Piero Fornelli e Giovanni Mauro (29-30 luglio 1951, NdR) una quindicina d’anni or sono e le ripetizioni si contano sulle dita delle mani, cioè pochi essendo gli alpinisti che amano cimentarvisi. Grande scalpore suscitò nel febbraio del 1965 la prima invernale compiuta da una coppia di ferro: Gianni Ribaldone, allora indiscusso alfiere dell’arrampicamento estremo, e l’accademico Corradino Babbi il cui nome compare in innumerevoli prime «vie» del Monte Bianco. Furono cinque giorni di asperrima lotta.
Adesso Gian Piero ci racconta la sua avventura: «E’ stata proprio un’avventura, da non ripetersi e che io non ripeterò più perché l’alpinismo solitario certamente non diverte e lo riconosco. E’ un alpinismo puramente tecnico e competitivo, d’assalto, che chiede la massima concentrazione per la vittoria e concede pochissimo all’alpinismo della contemplazione, dei fiori, dei ghiacciai silenziosi.
Non avevo indumenti per bivaccare, quasi senza cibo e difatti non ho mangiato, soffrendo viceversa di una memorabile sete, per la fatica e il sole che picchiava inesorabile sulle spalle e sulla testa. La “via” presenta un pilastro monolitico di circa cinquecento metri, tutto placche e diedri di granito, con difficoltà di quinto, quinto superiore e un passaggio di sesto grado in arrampicata libera; infine due passaggi da compiere in artificiale (chiodi non per assicurazione, ma per progressione). La roccia è solidissima e ho trovato pochi chiodi e molta difficoltà per piantare i miei (ne avevo quindici e un cuneo di legno). Una roccia sicura, però, dove quando hai l’appiglio ti senti al riparo dal rischio di volare.
Dove potevo assicurarmi andavo su io e mi tiravo dietro il sacco, altrimenti salivo col sacco sulle spalle. Dopo i primi trecento metri vi sono due “diagonali”, ciò che si chiama un lavoro delicato, tra blocchi instabili di ghiaccio, poi su per un “camino” che quando è asciutto è quarto grado, ma quando è bagnato, come l’ho trovato, non so più di quanti gradi sia… Tre ore per cento metri di salita. La prima di queste diagonali è su terreno “misto”, cioè fradicio di neve e ghiaccio, dove è impossibile assicurarsi in qualche modo. Il punto chiave della salita e naturalmente il più pericoloso. Sotto un sottile strato di neve luccicava il ghiaccio verde, non era un procedere tranquillo. Infine si arriva in vetta attraverso una “lama”, un tratto che chiamerò “aereo”. Alle sei del mattino ho messo le mani sulla parete, alle sette del pomeriggio ero in vetta, alle dieci di sera ero al rifugio Torino. Una bella avventura».
E va bene, un’avventura. Il nostro amico (un giorno scrivemmo del suo alpinismo fatto di poesia) non ha voluto nascondere che questa volta si è trattato di una battaglia, di agonismo. Ed ha ragione, non c’è soltanto… Alessandro Gogna, come si dice, siamo fatti tutti di carne ed ossa e vincere ci piace. E a noi piace Gian Piero Motti che vince e dimostra, appunto, la continuità della scuola torinese, scuola di conquistatori eccezionali e inesauribili (l’accademico Giorgio Griva di Pinerolo, proprio lunedì, con gli amici Caneparo e Strani, in otto ore compiva la terza ripetizione del Couloir du Dlable, proprio alla destra del Pilone Gervasutti, tanto per dire…).
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si potrebbe dire che, chi scrive di e racconta quello che fa , perchè lo fa, è solamente “autoreferenziale” vuole solo apparire . Altri motivi sono scuse.
Gli alpinisti molto bravi son tutti dei “conquistatori dell’inutile”.
Vincono delle gare solo contro se stessi, contro i propri limiti.
E accettano con umiltà ciò che per loro è impossibile.
Queste son “3 cose” che la maggioranza della gente, ma anche la maggioranza di chi va per monti, non può comprendere.
Cassarà era un simpatico giornalista e come tutti loro cercava sopratutto la notizia, solo raramente la comprensione.
Ora la notizia si confonde con l’apparire e per la gente la necessità di comprendere non esiste quasi più.
Ricordi di vecchie discussioni.
in che senso?
Parole di Emanuele Cassarà: «verticalità pirotecnica», «campioni subalpini del sesto grado», «Un match testa a testa con la grande montagna», «volontà di vittoria», «violato», «asperrima lotta», «battaglia», «conquistatori».
Appena pochi anni piú tardi Cassarà cambiò radicalmente il lessico e contestò aspramente quanti si esprimevano cosí, bollandoli come retrogradi.
Un po’ di tolleranza verso chi la pensa e si comporta in maniera diversa sarebbe la benvenuta, non solo in alpinismo.
Ma poi ci è tornato con una donna, facendoci alcuni bivacchi. 🙂
O ci è stato prima ?
Ugo dovrebbe ricordarsi, al rifugio Torino aveva chiesto se era ancora su.