Storia dell’arrampicamento – 09

Su stimolo del giornalista Vittorio Varale, durante il biennio 1930-31 Domenico Rudatis pubblicò nella rivista Lo Sport Fascista una fondamentale Storia dell’arrampicamento in nove puntate (nn. 3, 4, 5, 7, 8 e 12 del 1930 e nn. 2, 6, e 9 del 1931). Scritta da uno degli autori di letteratura di montagna più brillanti e affascinanti del Novecento, l’opera costituì il primo tentativo italiano di storia dell’alpinismo, per quanto limitato alle sole Alpi Orientali.

Qui le puntate finora uscite:
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Uno degli aspetti più importanti e affascinanti della Storia dell’arrampicamento(anche se oggi la cosa può facilmente sfuggire) è l’eccezionale qualità grafica dell’opera: taglio dell’impaginazione, scelta delle fotografie e disegni originali dell’autore. A questo riguardo è giusto ricordare alcune circostanze. Anzitutto la veste tipografica de Lo Sport Fascista: grande formato, illustrazioni di qualità. Insomma, una rivista abbastanza di lusso, per l’epoca. In secondo luogo il buon gusto e la cura certosina di Rudatis, fotografo, disegnatore, illustratore e arredatore di vaglia, che fu attentissimo a curare assieme a Vittorio Varale tutti gli aspetti non solo informativi e teorici ma anche formali della serie. 
La prima puntata apparve nel marzo 1930 e costituì la prima collaborazione in assoluto di Rudatis con Lo Sport Fascista. In quella sede vennero definiti i principi fondamentali che guidano il giudizio sulla tecnica e sui valori morali e culturali dell’arrampicata. Pubblichiamo qui l’ultimo dei nove articoli
(Nota a cura di Luigi Piccioni).

Lettura: spessore-weight(4), impegno-effort(3), disimpegno-entertainment(2)

L’attuale sviluppo dell’arrampicamento italiano. Dal dopoguerra al 1930.
(Storia dell’arrampicamento – 09) (09-09)
di Domenico Rudatis (Gruppo Italiano Scrit­tori di Montagna)
(pubblicato su Lo Sport Fascista, settembre 1931)

Con questa puntata, Domenico Rudatis conclude il suo originale e documentatissimo studio sullo sviluppo e le conquiste dello sport d’arrampicamento. Terminata la parte storica, la sua collaborazione riprenderà su argomenti altrettanto interessanti, quali le scuole di roccia, la tecnica e i materiali d’arrampicamento. I praticanti del bellissimo sport vorranno esserci grati di queste pubblicazioni, senza precedenti nell’alpinismo italiano (a cura della redazione di Lo Sport fascista).

Nell’anteguerra l’arrampicamento italiano nel suo insieme si sviluppò con una certa ordinata continuità, gli avvenimenti si susseguirono con un ritmo e un collegamento evidenti. Il quadro specifico di tale periodo è ormai ben chiaro. Così, da una parte abbiamo visto le guide dolomitiche portarsi prontamente alla testa del progresso, già appena iniziato da Winkler l’arrampicamento propriamente detto, e, con i professionisti Tita Piaz prima e Angelo Dibona dopo, abbiamo ben riconosciuto l’assurgere dell’arrampicamento italiano a crescenti altezze e il dominare di esso nell’attività scalatoria internazionale fino quasi all’apertura della guerra mondiale. E, d’altra parte, abbiamo altresì constatato che gli arrampicatori italiani non professionisti entrarono con molto ritardo nel poderoso movimento d’ascesa condotto dai professionisti, seguendolo con lento e timido procedere e rimasero così infine grandemente distanziati dalle massime imprese realizzate dai migliori fra questi, e ciò, sia operando con questi in collaborazione, sia, e tanto più, operando indipendentemente, vale a dire come senza guide.

In modo del tutto diverso si presenta invece lo sviluppo attuale dell’arrampicamento italiano, cioè nel dopoguerra.

Una profonda trasformazione di ampiezza, di coordinazione, di valori, di concezioni viene sempre più esplicitamente e fondamentalmente a contraddistinguere una nuova, rapida, intensa fase di progresso. Un intrinseco rinnovamento di uomini, di mentalità, di atmosfera, di volontà anima direttamente l’arrampicamento italiano, e i giovani pervengono presto a successi così elevati da emulare le guide più valenti. Successi che confrontati con l’attività italiana senza guide d’anteguerra hanno del leggendario.

Questa trasformazione, questo formidabile balzo in avanti, che ora passiamo ad esaminare nel suo particolare svolgimento e nella sua reale entità, trovano principalmente la loro origine nei due fatti capitali e consecutivi: la guerra mondiale e l’educazione sportiva promossa dal fascismo, mentre decisamente in seconda linea risulta l’ampiezza dell’intervallo di tempo trascorso. E’ tutto il ritmo del procedere che da tali fatti è cambiato.

Tra la situazione d’oggi e quella d’anteguerra vi è veramente molto di più che l’intervallo di qualche decennio. Vi è l’epico tormento del conflitto mondiale attraverso il quale l’Italia ha allargato la cerchia dei propri confini ricomprendendo regioni ideali dell’arrampicare. E vi è ancora tutto il successivo travaglio che ha risvegliato la coscienza nazionale, e restituendo potenza e dignità alla vita sportiva, riconoscendo la fondamentalità delle nude primigenie virtù morali dell’ardimento e della volontà animanti l’atletismo e gli sport, il culto delle quali fu già la base della educazione e della grandezza greca e latina, ha ora via via ricomposto l’unità della vita dell’individuo, ridato il vero centro a tutte le possibili contingenti sovrastrutture sociali e culturali.

Il quadro della nuova situazione nell’immediato dopoguerra
Le conclusioni della grande guerra hanno ampliato moltissimo il campo d’attività dell’arrampicamento italiano. Ma questa amplificazione ha un senso che va ben oltre quello puramente geografico. L’entrata della Venezia Giulia, del Trentino e dell’Alto Adige nell’unità nazionale ha avuto un’importanza e un’influenza complesse, molteplici, esplicantisi presto e profondamente.

Con la Venezia Giulia sono venute a far parte del dominio alpinistico italiano splendide gemme di quelle Alpi, ricche di tutte le maggiori attrattive per gli arrampicatori. Onde nell’insieme la regione alpina delle Giulie risulta di così notevole interesse imponenza e bellezza da costituire uno dei massimi ambienti italiani d’arrampicamento. L’unificazione nazionale con la Venezia Giulia però trae la sua maggiore importanza alpinistica dal numero e dal fervore degli scalatori di questa regione, numero e fervore che si esprimono e si concentrano nel movimento triestino.

Addietro – nello studio precedente a questo – abbiamo rilevato come anteguerra i triestini erano pervenuti ad una posizione di superiorità rispetto agli scalatori senza guide delle vecchie provincie italiane. Cozzi con Zanutti, Carniel e Cepich – la famosa cosiddetta “squadra volante” – rappresentava già allora un indirizzo, il nucleo di una scuola. La “squadra volante” aveva conquistato delle vittorie assai brillanti non soltanto nelle Alpi Giulie ma anche nelle Dolomiti. Tuttavia la accennata superiorità di detta squadra era pur sempre relativa all’attività degli arrampicatori senza guide. Considerata in generale essa stava notevolmente al disotto del livello raggiunto dalle grandi guide dolomitiche di quel tempo. Mentre all’opposto, nella regione delle Giulie l’iniziativa della “squadra volante”sopravanzava, già in un certo qual modo l’opera delle guide locali.

Napoleone Cozzi morì cinquantenne nel 1916 al servizio della Patria. La “squadra volante” perdeva così il suo capo e animatore. Poiché nelle Alpi Giulie era sempre mancata e mancava un’attività professionistica di valore preminente, col relativo arresto dell’attività dei senza guide derivato dalla perdita di Cozzi, il movimento triestino nell’immediato dopoguerra ebbe un periodo di raccoglimento e di maturazione. Periodo di tregua al quale seguì la magnifica progressione qualitativa e quantitativa dell’ultimo triennio, come vedremo.

Nella regione dell’Alto Adige, a settentrione delle Dolomiti, le catene dei nuovi confini: gli Alti Tauri, le granitiche e ghiacciate Alpi della Zillertal e della Oetztal, non hanno rappresentato una estensione geografica particolarmente ragguardevole dal punto di vista dell’arrampicamento.

Né, da questo punto di vista, maggior importanza ha avuto l’integrazione nazionale delle regioni dell’Ortles e dell’Adamello con le loro vaste distese di ghiacci già suddivise dal vecchio confine.

I diversi centri d’arrampicamento dell’Alto Adige, come Bolzano, Bressanone, assumono il loro valore principalmente dal movimento dolomitico, e del tutto secondariamente dai loro rapporti con le altre vicine zone montuose.

In realtà, l’importanza delle regioni dì arrampicamento che la grande guerra riunì nell’unità italiana si è concentrata pressoché in totalità nelle Dolomiti, prima per la maggior parte appunto ancora politicamente separate. Infatti, anteguerra, i gruppi dolomitici grandiosi appartenenti all’Italia erano  relativamente pochi: quello dell’Antelao, delle Marmarole, e della Civetta.

Già i gruppi del Cristallo, del Sorapiss, della Marmolada, delle Pale, erano tutti bipartiti dal vecchio confine, e prevalentemente al di là da esso rimanevano pure le Dolomiti di Sesto. Ora l’intero mondo dolomitico, nella sua completezza e varietà, con tutte le sue infinite particolarità che ne costituiscono la peculiare inconfondibile fisionomia, è italianamente unificato. Così ritroviamo il complesso delle Tofane e di Fanes, le Odle dentate e selvagge dominanti a settentrione, il poderoso gruppo di Sella con le sue bastionate e le sue terrazze titaniche, le perfette e colossali architetture del Sass Long insorgenti trionfalmente tra le Valli di Fassa e di Gardena, il vasto e mirabile gruppo del Catinaccio con le famose Torri del Vajolet, con le multiformi frastagliature, leggendario “giardino di rose”, regno di quel Re Laurino il cui nome è eternato dalla ben nota parete. Ed infine, più a occidente, isolate, lontane, le armoniose e smaglianti Dolomiti di Brenta, dove il più superbo e più celebre pinnacolo delle Alpi – il Campanil Basso – erge la sua prodigiosa costruzione, e il Croz dell’Altissimo prospetta sulla Val delle Seghe la sua immane muraglia.

L’amplificazione del campo di attività dell’arrampicamento italiano corrispondente a questi gruppi non è stata di capitale importanza soltanto per la vastità e la bellezza dei gruppi stessi, poiché altrettanto importante è il fatto che essi erano propriamente anche i gruppi più ricchi di frequentatori e di storia, i più rappresentativi del progresso e dell’esperienza internazionale dell’arrampicamento sia fra i professionisti che fra i senza guide. Basta ricordare il Catinaccio tutto risonante delle conquiste di Tita Piaz, di Hans Dülfer che preferiva questo gruppo in special modo, di Paul Preuss, e di tante altre guide famose. Reame di dolomia le cui torri e le cui pareti erano già piene di dimostrazioni brillanti dell’ascesa realizzata dall’arte d’arrampicare. Ed il Sass Long colle magnifiche imprese di Luigi Rizzi, di Gabriele Haupt, di Kurt Kiene, di Angelo Dibona. E le Dolomiti di Brenta con i ricordi culminanti delle memorabili gesta di Paul Preuss, di Angelo Dibona. Gli studi precedenti sono espliciti in proposito.

In questi gruppi gli scalatori hanno subito avuto presso di sé, tangibili e significativi, i termini del progresso, le basi di comparazione dei valori, ricavando necessariamente da questa presenza un ben diverso, superiore, ammaestramento e incitamento tecnico che praticando gruppi meno ricchi di esperienze evolutive, o addirittura rimasti, come vari gruppi delle vecchie province all’apertura della guerra, al livello iniziale dell’arrampicamento.

La possibilità di frequentare ambienti più progrediti ha efficacemente spinto innanzi gli scalatori italiani senza guide nel dopoguerra. Questa possibilità ha spalancato gli orizzonti, ha cominciato la trasformazione dell’atteggiamento psicologico cui soggiacevano gli arrampicatori italiani senza guide anteguerra nelle vecchie province i quali, o erano del tutto ignari dell’intenso progresso di allora e quindi non potevano neppure aver un esatto criterio valutativo delle proprie imprese, o possedevano soltanto una nozione astratta, sentimentale, di tale progresso e cadevano inevitabilmente nell’errore di creare attorno alle maggiori imprese un’atmosfera di leggenda come di opere sovrumane. Ciò che costituiva un grandissimo ostacolo alla diffusione del progresso stesso.

Varie cause concorrevano a mantenere detto ostacolo psicologico, fra le quali prevaleva evidentemente il fatto che tanto i maggiori scalatori stranieri, come Preuss e Dülfer, che italiani, cioè Piaz e Dibona, svolsero la loro attività per lo più fuori delle vecchie province. Ed infatti anche i rapporti di arrampicatori italiani con le nostre grandi guide furono allora molto limitati in ogni senso.

Adesso quelli che erano e sono ancora i massimi centri professionistici dell’arrampicamento, la Val di Fassa e Cortina d’Ampezzo, esercitano il loro influsso tecnico, la loro preziosa operosità su tutta la regione dolomitica nell’intimità della vita nazionale, validissimamente accompagnati dagli altri centri principali: Sesto, la Val Gardena, Siusi, Tires e la Val di Primiero, anche questi situati tutti al di là dal vecchio confine.

Inoltre, il Trentino e l’Alto Adige, riunendosi alle vecchie province, hanno immediatamente rialzato, per così dire, il tono dell’attività arrampicatoria dolomitica italiana, per il valore, l’intraprendenza e il numero degli scalatori non professionisti di tali regioni. Il Trentino – come già sappiamo – costituiva anteguerra l’ambiente d’arrampicatori italiani senza guide più maturo e numeroso. L’Alto Adige, compenetrato del movimento tedesco e austriaco, possedeva a sua volta un complesso di scalatori, specialmente allogeni, senza guide, ancor più progredito. Queste le linee generali della nuova situazione creatasi in Italia colla conclusione del conflitto mondiale, donde l’arrampicamento italiano ha preso il primo grande slancio della sua attuale magnifica ascesa.

L’attività scalatoria fino al 1927 e il progresso tecnico dei senza guide
Il periodo di tempo che va dal termine della guerra fino al 1927 è caratterizzato dal fatto che l’attività delle guide rimane ad un livello tecnico piuttosto stazionario. E per quanto questo livello sia elevatissimo, che ben sappiamo a quali altezze Piaz e Dibona avevano portato anteguerra l’arrampicamento italiano, pure già nel 1925 comincia a risultare nettamente sorpassato dalle conquiste dolomitiche delle guide straniere, il famoso Solleder in primo luogo. Ciò è appunto conseguenza della trasformazione delle condizioni generali or ora esposta. La meravigliosa diffusione e perfezione della tecnica in Germania ha creato nel dopoguerra una concorrenza professionale alle nostre guide, e nello stesso tempo, come abbiamo visto, è cambiato il lato sociale del loro ambiente. Cosicché nel complesso l’attività delle guide dolomitiche nel periodo considerato appare meno brillante che negli ultimi anni d’anteguerra.

Il mondo dei senza guide invece, scosso dal mutamento generale della situazione, entra presto in fermento, e vediamo crescere le iniziative ed i contatti, concretarsi e propagarsi i moderni criteri tecnici, ed aumentare i successi in proporzione.

Pertanto diminuisce considerevolmente il distacco di capacità esistente tra i professionisti e i non professionisti, e, pur non verificandosi alcun spostamento dei massimi valori, si ha in compenso tutto un ricco sviluppo estensivo ed un fecondo pRozesso di maturazione.

Nell’immediato dopoguerra i primi ad entrare valorosamente in azione ed a cogliere le più belle vittorie sono gli scalatori dell’Alto Adige. Non trattandosi, in questo periodo, di precisare una progressione di valori, basterà rilevare semplicemente e brevemente imprese e uomini in particolar modo significativi.

Anzitutto va ricordata la prima scalata della parete nord della Grande Pùtia nelle Dolomiti di Gardena, effettuata nel 1919 da J. Hruschka, W. Erschbaumer ed F. Neuner di Bressanone. Lo stesso Hruschka nel 1921 compie le prime salite della parete nord-est della Punta Rodelheil nel Gruppo di Sella assieme a J. Schalom, pure di Bressanone, e a due arrampicatori innsbruckesi; e dello spigolo sud-ovest del Sass Songher nelle Dolomiti di Gardena, con J. Schalom e K. Oberhammer, una delle arrampicate più difficili secondo la notevole esperienza di questi scalatori. Ugualmente nel 1921 Hruschka, J. March, W. Erschbaumer e G. Malfertheiner, tutti di Bressanone, conquistano il Campanile Liëtres nelle Dolomiti di Gardena, scalata simile come difficoltà e proporzioni a quella della parete nord-est della Punta Emma.

Intenzionalmente abbiamo riportato questa comparazione dovuta agli stessi salitori. Il senso di essa è molto appropriato a rappresentare il progresso tecnico di questo periodo fra i senza guide. Come anteguerra il gruppo di testa di questi era riuscito ad oltrepassare il livello fondamentale dell’arrampicamento stabilito da Winkler, per quanto limitatamente come abbiamo visto, così ora, in questo primo periodo del dopoguerra, l’opera dei senza guide acquista significato in Italia nella misura in cui si eleva al livello ben definito dei valori superiori che sappiamo essere appunto quello della scalata della parete nord-est della Punta Emma. E sono perciò le imprese intorno a questo livello che ricordiamo adesso via via, o almeno abbastanza prossime e particolarmente grandiose. Altrimenti ci limitiamo a ricordare l’attività generica di certi arrampicatori se questa pur restando tecnicamente al disotto è molto ricca ed illustrativa.

Günther Langes – dimorante a Bolzano e originario di Primiero – realizza nei primi anni del dopoguerra tutta una serie di belle conquiste ed esplorazioni nel Gruppo delle Pale di S. Martino, accompagnandosi spesso col proprio fratello Sigurd ed altri valenti alpinisti, ma più sovente col noto scalatore Erwin Merlet. Vanno rammentate nel 1920 le prime scalate della parete est del Campanile Pradidali e dello Spigolo del Velo della Cima della Madonna, ambedue effettuate da Langes e Merlet, l’ultima delle quali singolarmente ardita e geniale è ormai famosa e conta già diverse ripetizioni. Nel 1921 K. Hannemann e Langes aprono la traversata completa nord-sud della Cresta di Val di Roda, una delle più grandiose fra tutte le Dolomiti.

Assai estesa è l’attività degli arrampicatori di Bolzano nell’immediato dopoguerra, in special modo nel Gruppo del Catinaccio nel quale vengono effettuate diverse nuove vie. Possiamo citare: A. Casotti, A. Hocke, J. Brunner, H. Plattner, H. Tomasi, R. Melchiori e infine H. Kiene, fratello del valentissimo arrampicatore Kurt Kiene, come diligente studioso della regione dolomitica. Degna di nota la scalata diretta della parete ovest di Laurino compiuta nel 1921 da A. Hocke, J. Brunner, assieme al distinto arrampicatore innsbruckese Hans Buratti. Lo stesso Hocke con Plattner e T. Melacher è il conquistatore della parete ovest della Cima Santner, ragguardevole impresa riuscita nel 1920.

E’ evidente che tale movimento dell’Alto Adige è connesso con la contemporanea ripresa tedesca, che abbiamo delineata esponendo l’evoluzione internazionale, e favorevolmente influenzato da essa.

Per ben comprensibili ragioni di contatto segue subito appresso l’attività degli altri centri delle nuove province legati direttamente al movimento dolomitico. Già nel 1920 notiamo la prima scalata senza guide del Campanile Rosa nel Gruppo delle Tofane compiuta da Federico Terschak, Agostino Cancider, Isidoro Siorpaes di Cortina d’Ampezzo con Gianangelo Sperti di Belluno. Ma ciò che si vede svolgersi e concretarsi su larga base è l’opera dei trentini. Appena un lieve ritardo la separa da quella degli alto-atesini. Cominciamo col rilevare la prima scalata italiana del Campanil Basso di Brenta per la via Fehrmann realizzata nel 1923 dai due pionieri dell’arrampicamento trentino: Scotoni e Fabbro, e l’apertura della cosiddetta “direttissima” del Croz del Rifugio pure nelle Dolomiti di Brenta e nello stesso anno per opera di G. Zanolli ed E. Pontalti. Ben presto però emerge nettamente Aldo Daprà, allievo e compagno di Piaz, arrampicatore audace e volitivo, ed altresì tecnico e stilista di grande valore. Le sue scalate sono numerosissime. Già tra quelle del 1924 troviamo: la via Fehrmann del Campanil Basso di Brenta percorsa con Lorenzo Pezzotti, suo fedele compagno in una bella serie di arrampicate; la via Preuss-Schmidkunz e Camino di S. Giovanni sulla Punta Grohmann nel Gruppo del Sassolungo, percorsa con O. Jandl – perito nello stesso anno in montagna -, Pino Prati ed un altro compagno; la “direttissima” del Croz del Rifugio sopraindicata; e l’oltremodo ardito “spigolo” della Torre Delago del Vajolet. E delle sue imprese ricordiamo ancora: la traversata completa di tutte le sei Torri del Vajolet, e la parete nord-est della Punta Emma.

Sorge tutta una schiera di valenti arrampicatori trentini. Pino Prati svolge un vero apostolato per la montagna e, nonostante la giovane età, porta un contributo colturale preminente.

Nel 1926 Giuseppe Bianchi, Pino Prati, Renzo Videsott ripetono la via Fehrmann del Campanil Basso di Brenta, e lo stesso Videsott conduce Luigi Miori, Giorgio Graffer, L. Seiser, Pino e N. Prati alla conquista della Punta Mezzena, così da loro denominata in onore del compagno C. Mezzena morto in montagna nel medesimo anno. Scalata, questa, breve, ma con tali difficoltà che rivela quasi l’inizio di un ulteriore imminente periodo di progresso.

Parimenti nel 1926 il trentino F. Nardelli con Ernst Holzner di Bolzano supera lo spigolo di Valbona nel Catinaccio lungo l’itinerario aperto da Dülfer. Gli stessi percorrono anche la via Fehrmann della Cima Piccola di Lavaredo. Né è questo il solo caso di feconda collaborazione tra scalatori trentini e dell’Alto Adige.

Nel 1927 Videsott e Graffer conquistano l’intera parete meridionale del Campanile Alto di Brenta, una delle più eminenti imprese di tutto il periodo ora considerato.

Gravi perdite colpiscono l’arrampicamento trentino in tale anno. Bianchi e Pino Prati precipitano tragicamente dalla via Preuss del Campanil Basso di Brenta. F. Nardelli cade col fratello Enrico dallo spigolo di Valbona, perdendo la vita là dove è salito l’anno prima.

Come abbiamo precedentemente accennato, il periodo del dopoguerra fino al 1927 per l’arrampicamento triestino è un periodo piuttosto di raccoglimento che di azione, più di tregua rispetto all’attività della “squadra volante” che di progresso, più di alpinismo classico che di vero e proprio arrampicamento. Con P. Bozza, F. Schwarz, R. Wittine, R. Spanyol, Giulio Benedetti ad altri, principia un certo risveglio giovanile, finché Emilio Comici superando con Gino Razza nel 1927 la gola nord-est dell’Innominata nel Gruppo del Jof-Fuart, dà il “via!” alla meravigliosa ascesa dell’arrampicamento triestino intensamente condotta dal Comici stesso negli anni successivi.

Dopo di ciò, passando infine a considerare l’attività dei senza guide nelle vecchie province durante il medesimo periodo, resta relativamente poco da mettere in luce. E’ una attività che si mantiene costantemente al disotto del livello tecnico dei trentini e degli alto-atesini, ma il cui sviluppo estensivo si fa via via sempre più notevole, preparando la maturità qualitativa.

Assai pochi sono gli arrampicatori italiani delle vecchie provincie che nell’immediato dopoguerra seguitano a svolgere una attività senza guide. Ricordiamo il friulano Vittorio Cesa De Marchi. In particolar modo perseverante e preziosamente illustrativa è l’opera di Antonio Berti, che si sforza di crearsi a Vicenza un nucleo di giovani, tra i quali si notano Francesco Meneghello e Severino Casara. Allievo e compagno del Berti è specialmente quest’ultimo.

Rileviamo varie attività autonome come quella di Luigi Zacchi, alpinista completo, ufficiale alpino, dei migliori, e di Oliviero Olivo.

Con amore paesano, da sé e per sé, Silvio Sperti, Valentino e Giovanni Angelini esplorano e illustrano tutte le loro Dolomiti Zoldane, aprendovi notevoli vie nuove. Intanto un gruppo di scalatori di Belluno con a capo Francesco Zanetti va ripetendo tutte le più classiche arrampicate dolomitiche, vincendo con graduale, continua e sicura progressione, difficoltà sempre maggiori, tanto da trovarsi, alla fine del periodo ora trattato, con un corredo di esperienza tecnica alla testa degli scalatori italiani senza guide delle vecchie province. Ed infine, cominciano a rivelarsi Raffaele Carlesso e Celso Gilberti, quali prime, valorose affermazioni del movimento friulano.

Nei centri fuori delle Tre Venezie non vediamo progredire sensibilmente l’arrampicamento puro rispetto all’anteguerra nel campo dei senza guide.

Tuttavìa, si può particolarmente ricordare l’attività dei lombardi Eugenio Fasana e Vitale Bramani.

Nelle Dolomiti constatiamo però il moltiplicarsi delle scalate di guide con elementi delle varie regioni italiane.

Tecnicamente, abbiamo detto, il livello dell’arrampicamento con guide rimane stazionario. Non emergono imprese di singolare importanza. Tra le nuove salite possiamo citare: la conquista della parete nord dell’Agner nelle Dolomiti Agordine effettuata nel 1921 da Francesco Jori guidando Arturo Andreoletti e Alberto Zanutti, veramente grandiosa; quella dello spigolo nord del Latemar riuscita a Tita Piaz e Virgilio Dezulian nel 1926 accompagnando la Contessa Marisa e il Conte Alberto Bonacossa di Milano; e quella della cresta sud-ovest della Cima della Madonna compiuta pure nel 1926, dalla guida Carlo Zagonel della Val di Primiero con Giorgio Kahn di Milano.

Questo periodo del dopoguerra fino al 1927 si chiude dunque dimostrando che i senza guide italiani delle vecchie province non sono riusciti ad elevarsi all’altezza di quelli delle nuove province. La vecchia guardia essendo decimata e sorpassata dai tempi, i giovani necessitando la maturazione dell’esperienza. Ma i giovani che hanno trovato in sé la forza di progredire sono già parecchi. I contatti con gli elementi delle nuove province, e talvolta con elementi stranieri, l’emulazione, la chiarificazione dei criteri valutativi, hanno ormai spalancato le porte dell’avvenire.

La trionfale ascesa dell’arrampicamento italiano dal 1928 al 1930
L’incremento dell’attività arrampicatoria durante questo triennio è veramente poderoso. Quasi dovunque gli scalatori aumentano di numero e di valore, e così rapidamente che il tutto appare come una formidabile esplosione di energie, rispetto al timido procedere del passato. La fisionomia dell’arrampicamento nelle Tre Venezie è fondamentalmente cambiata, un ardire e una potenza prima mai conosciuti e neppur concepiti la animano.

Guide e senza guide pervengono parimenti alla categoria dei più alti valori, riuscendo nell’effettuazione di imprese “estremamente difficili”, nel criterio moderno, internazionale, di questa designazione.

Emerge nel 1928 il diretto superamento della parete nord del Catinaccio riuscito a Tita Piaz con Virginio Dezulian. Secondo lo stesso Piaz è questa la più difficile di tutte le sue scalate. L’impresa ha tutta una storia di tentativi che ne esprimono la difficoltà e l’interesse. Grigia, cupa e tremendamente liscia la parete nord del Catinaccio già da assai prima della guerra era il sogno e l’incubo ad un tempo di Piaz, che mal sopportava nel suo regno di dolomia la sfida di quella inviolata verticalità. Ostinatamente egli l’aveva tentata anteguerra. Erano stati suoi compagni d’assalto scalatori valentissimi: il viennese J. Stefansky, il monachese Werner Schaarschmidt, Paul Preuss e Hans Dülfer. Con quest’ultimo erano stati sorpassati i punti raggiunti precedentemente, ma più oltre la parete non aveva ceduto.

Nel dopoguerra Piaz riprende i tentativi. Lo accompagna il nipote Virginio Dezulian. Invano.

La celebre guida bavarese Emil Solleder con Franz Kummer affronta la parete nel 1926, perviene dove si erano arrestati i tentativi, piega a sinistra con la sua raffinata tecnica di traversata, e prosegue fino in cima. In meno di tre ore egli ha vinto la parete, ma la sua scalata non è diretta. Piaz ritorna alla riscossa e infine riesce a superare le estreme difficoltà del tratto terminale secondo una dirittura ideale di salita!

Tra le altre eminenti imprese con guide ricordiamo poi la conquista della parete sud del Piz Ciavazes nel Gruppo di Sella effettuata dalle guide Ferdinand Glück e G. Demetz della Val Gardena, accompagnando la distinta alpinista Hulda Tutino Steel. Salita subito dopo ripetuta con qualche variante dalla guida fassana Luigi Micheluzzi con W. Rogers e Piero Slocovich di Trieste.

Ernst Holzner di Bolzano segue il monachese Hans Steger compiendo la scalata della via Preuss del Campanil Basso di Brenta e quella della parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo; quest’ultima in parte per via nuova. E tra la varia attività degli arrampicatori dell’Alto Adige rileviamo ancora il superamento dell’obliquo strapiombante camino della parete nord della Torre Bindel nel Gruppo di Sella – denominato la morte pendente – per opera di J. Hruschka col Covi di Bressanone.

Il movimento triestino culmina colla vittoria riportata da Emilio Comici e Giordano Bruno Fabjan sulla parete nord del Riofreddo della Madre dei Camosci nel Gruppo del Jof-Fuart. Parete che aveva resistito agli attacchi udinesi ed anche iugoslavi.

L’arrampicamento trentino senza guide per quanto indebolito dalle tragiche perdite del 1927, è pur sempre operoso. Fra le nuove imprese spicca la conquista della vergine cima del Pan di Zucchero della Civetta direttamente da nord-est, realizzata da Renzo Videsott e Domenico Rudatis.

Sempre ragguardevole è l’attività bellunese che nel 1928 eleva nettamente il suo livello tecnico; sempre magnificamente avviata e sostenuta dal presidente della sezione di Belluno del CAI, Francesco Terribile. Rammentiamo il superamento del versante occidentale del Campanile di Val Montanaia riuscito a Francesco Zanetti e Aldo Parizzi.

Pure gli scalatori del Friuli elevano il loro livello tecnico. Si possono citare: la prima ascensione della parete est della Creta Livia nelle Alpi Carniche compiuta dagli udinesi Celso Gilberti e Giovanni Granzotto; e la prima ascensione della “rossa” parete meridionale del Duranno, ugualmente nelle Alpi Carniche (in realtà nelle Dolomiti d’Oltrepiave, NdR), eseguita da Raffaele Carlesso di Pordenone con Osvaldo D’Andrea. Attività queste, tutte di arrampicatori senza guide.

Ed entriamo ora nel 1929. E’ questo veramente l’inizio trionfale dell’ascesa dell’arrampicamento italiano.

Le giovani guide dolomitiche confermano la loro supremazia nel campo professionale ripetendo ed aprendo itinerari “estremamente difficili”. Così Angelo Dimai di Cortina d’Ampezzo, degnissimo figlio della celebre guida Antonio Dimai – il “re delle Dolomiti” – assieme al fratello Giuseppe ripete, a poche settimane di distanza dalla conquista tedesca, la “direttissima” della parete sud della Tofana di Rozes, accompagnandovi Miss Fitz-Gerald.

L’audace guida Luigi Micheluzzi di Canazei con la guida Roberto Perathoner e Demetrio Christomannos apre una vera e propria “direttissima” sullo spigolo sud-ovest della Marmolada. Tentata poi invano da una famosa cordata straniera, l’impresa è stata contestata. Uno strapiombo di ghiaccio sbarrerebbe il camino terminale. Ma il fatto stesso che la natura di questo ostacolo non è inerente alla struttura rocciosa infirmerebbe la contestazione.

Successo minore, ma tuttavia degno di nota è la prima scalata della parete nord della Roda di Mulon nel Gruppo della Marmolada, eseguita dallo stesso Micheluzzi guidando i triestini Piero Slocovich e Leo Krauss.

Fedele Bernard, l’attiva e valorosa guida di Siusi, con Giorgio Masè Dari compie, assieme alla cordata di Hans Steger e Paula Wiesinger, il secondo percorso della diretta parete nord del Catinaccio. Sempre condotti da Hans Steger, la Wiesinger, Fred Masè Dari e la guida fassana Alfredo Paluselli, vincono la parete sud-ovest della Torre Winkler, breve ma durissima; la Wiesinger, Fred Masè Dari e Sigmund Lechner di Merano aprono la “direttissima” della parete est del Catinaccio.

E passando a considerare la pura attività senza guide, e quindi con capicordata italiani non professionisti, rileviamo per la prima volta, nella storia dell’arrampicamento nazionale senza guide, l’effettuazione di scalate appartenenti alla categoria dello “estremamente difficile”.

Così finalmente è raggiunto il progresso straniero, quasi colmato un distacco tanto profondo che pareva incolmabile a tutti fuorché al fervore della gioventù che da sola ha osato andar innanzi ed ha saputo vincere.

Ecco il triestino Comici superare la parete nord-ovest della Sorella di Mezzo fra le Tre Sorelle del Sorapiss, assieme a Giordano Bruno Fabjan. Magnifica e paurosa muraglia di oltre settecento metri di altezza.

Il trentino Renzo Videsott conquista la Cima della Busazza dalla Val dei Cantoni con la “direttissima” lungo l’immane spigolo occidentale alto oltre mille metri, avendo per compagni l’asso monachese Leo Rittler e Domenico Rudatis. Ed ancora Videsott con Rudatis scala il Croz dell’Altissimo dalla Val delle Seghe nelle Dolomiti di Brenta, ripetendo la via originale Dibona-Mayer-Rizzi. Ripetizione che costituisce il quarto percorso in generale, e il primo effettuato da una cordata italiana senza guide, della colossale parete.

Questi sono i risultati culminanti dell’annata. Ma tutta una vasta mirabile attività risalta assieme ad essi.

La molto ampia categoria di arrampicate che sottostà a quella “estrema” e che sappiamo iniziata da Tita Piaz nel 1900 colla conquista della parete nord-est della Punta Emma, categoria nella quale abbiamo visto entrare nel 1928 gli scalatori italiani senza guide delle vecchie province, è tecnicamente e coscientemente dominata nel 1929 dai bellunesi e dai friulani, in larga misura, e, in qualche singolo caso, anche da altri.

I bellunesi Francesco Zanetti, Aldo Parizzi, Guido De Diana, Attilio Zancristoforo ripetono, variamente accompagnandosi diverse notissime scalate della predetta categoria. Effettuano il secondo percorso della via Videsott-Rudatis al Pan di Zucchero della Civetta. Compiono la prima salita italiana per roccia della Torre del Diavolo nei Cadini di Misurina, secondo l’itinerario di Dülfer, il quale è valutato abbastanza in alto nella categoria stessa.

Analogamente rammentiamo la prima salita della parete nord della Cima dei Verdi nelle Alpi Giulie compiuta dagli udinesi Gilberti e Granzotto, e la nuova via sulla parete nord della Croda dei Toni nelle Dolomiti di Sesto, aperta da Raffaele Carlesso col tenente Marco Tessari.

Infine ricordiamo l’effettuazione del terzo percorso della grandiosa parete nord-est del Crozzon di Brenta lungo la via Preuss-Relly, anzi rettificandone l’attacco, per opera del milanese Ettore Castiglioni con Alessandro Conci. Parete questa poi ancora superata nello stesso anno dal trentino Cornelio Fedrizzi assieme alla guida Silvio Agostini, il noto valente scalatore professionista preferito da S. M. il Re del Belgio.

Per completare il quadro, qualche altra impresa senza guide potrebbe venir citata e diverse con guide, tutte, ripetiamo, nella categoria immediatamente sottostante a quella “estrema”.

Aggiungo solo il secondo percorso della via diretta di salita alla Piccola Civetta per la parete nord-ovest, compiuto dalle guide Angelo e Giuseppe Dimai con Federico Terschak e Giuseppe Degregorio di Cortina d’Ampezzo. Gigantesca scalata di più di mille metri d’altezza dovuta alla cordata Haupt-Lompel e ritenuta dallo stesso Haupt come la sua più ardua impresa.

E siamo nel 1930. Il progresso sta toccando il suo vertice, subentra una fase di raffinamento tecnico e di diffusione. Professionisti e non professionisti hanno i relativi esponenti alla medesima altezza. I gruppi dei trentini, triestini, bellunesi e friulani per crescente numero di elementi, per maturità tecnica vanno assumendo una propria inquadratura. In ciò il gruppo triestino costituitosi in un vero e proprio organismo, il GARS, sta all’avanguardia esplicando forza e virtù di scuola, moltiplicando i ferventi. Così, vicino a Comici, l’esponente massimo dell’arrampicamento triestino, alpinista completo e scalatore di altissima classe

internazionale or ora dedicatosi al professionismo, rileviamo già per proprio valore Giulio Benedetti, Giordano Bruno Fabjan, Mario Cesca e Ovidio Opiglia.

Tra le molte scalate dei triestini spiccano: la prima arrampicata per gli appicchi occidentali del Cimone del Montasio nelle Alpi Giulie, eseguita da Comici, Fabjan, R. Beffar e Mario Orsini, la più difficile delle scalate finora compiute nelle Alpi Giulie dal Comici; e la prima salita alla Cima di Mezzo della Croda dei Toni per la parete ovest effettuata da Comici, Fabjan, e Slocovich.

Gli arrampicatori bellunesi Zanetti, A. e B. Zancristoforo, De Diana, ed Ernani Faè superano con un itinerario in parte originale la parete nord del Pelmo. Intanto avviene una rivelazione: Attilio Tissi di Agordo assurge pressoché improvvisamente tra i massimi scalatori italiani, effettuando con Giovanni Andrich il primo percorso italiano della via Solleder-Lettenbauer sulla parete nord-ovest della Civetta. Il gruppo bellunese guadagna così il suo più poderoso esponente.

In campo friulano accanto a Gilberti e Granzotto, emergono Francesco Maddalena di Pordenone e Oscar Soravito di Udine. Ambedue questi sovente compagni di Carlesso, il quale riesce in una serie di notevoli ripetizioni, tra cui di vie Dülfer, culminando appunto nel superamento della parete ovest della Cima Grande di Lavaredo, la più difficile delle scalate dolomitiche di Dülfer.

Queste come attività non professionali, ad esse si aggiunge la forza del movimento professionale della regione bellunese accentrato in Cortina d’Ampezzo, e operante a sé.

Largo, sempre fecondo di ottimi elementi il movimento trentino, il più ricco di attività professionale, la quale è anche fusa armonicamente con quella dei non professionisti, in uno schietto unico e saldo amore per le proprie montagne. Con Videsott troviamo Giorgio Graffer, Luigi Miori, Cornelio Fedrizzi citati precedentemente. Vediamo Mario Agostini, il fratello della nota guida, alpinista completo, il magnifico atleta Adriano Dallago, il fratello di questo e diversi altri. La schiera è diminuita di A. Daprà, prematuramente deceduto.

Rileviamo il percorso della parete sud-ovest del Croz dell’Altissimo compiuto dalla guida Ugo Perini con Ulisse Battistata.

Dato il suo superiore livello tecnico iniziale calma appare l’evoluzione dell’Alto Adige. Ma un cenno speciale va riservato a Paula Wiesinger, l’arrampicatrice eccezionale, compagna delle grandi imprese di Hans Steger fin dal 1928, e campionessa italiana nello sci.

Del 1930 abbiamo ricordato soltanto le imprese “estremamente difficili” o abbastanza prossime a tale categoria e sopravanzanti in ogni caso decisamente la categoria aperta dalla parete nord-est della Punta Emma. Le scalate di quest’ultima categoria vengono via via avvicinate e raggiunte da vari altri elementi anche in centri lontani dalle regioni più favorevoli all’arrampicamento. Il fascino delle rocce si propaga e la tecnica dell’arrampicare si estende e si migliora. La lotta colla montagna di arrampicamento puro, sentita come arte individuale anziché come potenza organizzativa, come riduzione di quanto s’interpone tra l’uomo e la natura, come eliminazione massima di ingombri e di mezzi strumentali, come esplicazione pura delle più intime e nude virtù di valore atletico, audacia e volontà, al disopra da tutto ciò che è o può essere materialità e ricchezza di mezzi, è elevatissima espressione di vitalità e potenziamento di razza.

L’attuale formidabile riscossa in Italia risulta quindi molteplicemente educativa e significativa.

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Storia dell’arrampicamento – 09 ultima modifica: 2019-07-16T05:16:18+02:00 da GognaBlog

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