Non è più tanto facile essere un eroe
(introduzione di Gian Piero Motti a Sovraffollamento in montagna e viaggio intorno all’io (GPM 061)
(da Rivista della Montagna n. 34, dicembre 1978)
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**
I lettori conoscono Lito Tejada-Flores attraverso il suo scritto Il Peon di Rojo (https://gognablog.sherpa-gate.com/il-peon-di-rojo/). L’articolo che ora proponiamo alla lettura e a un’attenta considerazione risale al 1972 ed è apparso in tale anno sulla rivista Ascent. Il tema trattato da Flores è più che mai attuale in Italia, mentre forse, in America, le profezie di Flores già si sono in un certo senso avverate: tra due estremi che vanno radicalizzandosi sempre più (recentemente abbiamo potuto leggere che purtroppo la Yosemite Valley, un tempo Wonderfuland, terra di meraviglie, è divenuta una Disneyland, sorta di Luna Park per turisti ricchi, pigri ed ottusi), si è andata affermando una corrente che cerca l’esperienza in montagna come fine a se stessa, libera da ogni costrizione interna ed esterna all’individuo.
A differenza di altri articoli, in questo caso non mi sento di dare alcun commento in proposito. Lo scritto parla veramente da solo e ciascuno potrà usarlo adeguatamente come setaccio della propria esperienza individuale. Una cosa sola vorrei dire: mi pare che il male del nostro alpinismo, come d’altronde quello della nostra vita, sia il proiettare sempre le nostre azioni e i nostri pensieri nel futuro, generando una serie di insoddisfazioni a catena e di continui autosuperamenti. Si va in palestra pensando ad allenarsi per la salita estiva, si va di sera ad arrampicare sui blocchi per l’arrampicata domenicale, si corre per farsi il fiato, si cammina in fretta per raggiungere l’attacco presi dal desiderio d’arrampicare, si scende abbrutiti presi dal desiderio di essere a casa. Questo è svilire l’azione, idealizzando sempre un’azione futura e rigettando il presente. Arrampicare su un blocco, arrampicare in palestra, camminare, correre, arrampicare in inverno, in estate, fare una prima o ripetere, le Calanques e l’Himalaya, siano finalmente universi separati e completi nei quali l’alpinista sappia collocarsi senza esserne posseduto. Così forse potremo ritrovare l’azione pura, liberata dagli schemi del pensiero. Ma questo vorrebbe anche dire la fine del tempo.
Sovraffollamento in montagna e viaggio intorno all’io
di Lito Tejada-Flores
(traduzione di Giorgio Cociglio e Nino Silvestre da Ascent, 1972)
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 34, dicembre 1978)
“Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo dì stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai (Cesare Pavese)”.
Viviamo in un’epoca di smarrimento. Smarrimento originato dalle rapidissime mutazioni che avvengono nelle condizioni ambientali, a livello tecnologico, sociale e psicologico. Cambiamenti così rapidi che è quasi impossibile per noi tenere il passo. Alcuni valori si sbriciolano e vengono spazzati via, altri resistono all’erosione mentre nuovi valori prendono forma. Ostinandosi nella sua cecità, l’individuo continua ad aggrapparsi al proprio ideale radicato di benessere e si oppone a tutto ciò che può minacciarlo.
Questa sensazione di smarrimento è facilmente avvertibile nella comunità alpinistica [odierna]. Essa anima le conversazioni degli alpinisti e traspare dalle pagine delle loro riviste (The End of the Mountains di Chris Jones, The Last of the Mountains Men di Jim McCarthy e l’articolo di Yvon Chouinard in Ascent, 1972). Sebbene vi sia una nuova consapevolezza che molto vi è da rivedere in alpinismo, tuttavia il disagio generale sembra ricalcare il lamento di François Villon (sec. XV): «Dove sono oggi le nevi che caddero la scorsa stagione?». L’origine del nostro indistinto – ma certamente reale – malessere viene costantemente fatta risalire a problemi di numero: siamo in troppi ora (leggi: ci sono troppi di «loro» che oggi praticano ciò che prima era esclusivamente «nostro»). Sovraffollate le montagne – è opinione generale – e distruggerete l’esperienza alpina.
lo non sono affatto d’accordo! Non lo sono con l’idea in sé e nemmeno con gli argomenti specifici prodotti a sua difesa. In primo luogo, le montagne sono veramente sovraffollate? A me pare che ci sia sovraffollamento solo ai due estremi di uno spettro. Senz’altro all’estremo «alpinismo d’élite» oggi c’è troppa gente che vuol esprimersi in senso creativo. Davvero oggi non è tanto facile essere un eroe, le prime ascensioni non sono più a buon mercato come un tempo. In seno ai grandi agglomerati urbani si dovrebbe essere veramente arrampicatori da fantascienza, non soltanto ottimi scalatori, per poter raggiungere il piacere personale di qualificarsi per primo su una nuova parete. Altrimenti non resta che il lungo e tormentato pellegrinaggio verso lontane catene montuose e anche in questo caso, chi ti può assicurare che arriverai per primo? (… con tutta la gente che c’è in giro al giorno d’oggi!) e chi ti può dire se veramente arrivare per primi ha ancora lo stesso significato dì un tempo? Oggi l’autore di una prima salita non è più riconosciuto un uomo eccezionale, come invece un tempo accadeva. Dunque, tempi duri per gli individualisti ad oltranza!
All’altro estremo dello spettro esiste la sindrome del «gregge che segue il capo-branco», ossia esiste il fenomeno delle cosiddette vie «classiche» con il conseguente e assai detestabile mettersi in coda all’attacco di una via. Questo si può veramente considerare come l’aspetto peggiore dell’affollamento in montagna, ma fortunatamente la sua natura sociale lo limita [relativamente] a poche scalate in aree montuose abbastanza ristrette. Gli alpinisti ben difficilmente si sparpagliano per arrampicare in tutte le direzioni possibili; piuttosto si allineano in file ordinate verso una o due salite che sono sul momento «quelle che si devono fare».
In Yosemite, la parete sud della Washington Column sembra un’autostrada insudiciata dal gran traffico, mentre invece la Sentinel Rock e il Quarter Dome, non ritenuti alla moda, sono pressoché deserti o trascurati. Nei Tetons si troverà sempre gente sulla famosa parete nord del Grand Teton, mentre la parete est, certamente un’arrampicata più interessante, rimane silenziosa e negletta. La Walker alla Nord delle Grandes Jorasses ha visto ben più di un centinaio di salite (è il 1972, oggi sono certamente più del doppio, NdR del 1978), mentre il magnifico Sperone della Croz sarà stato scalato non più di venti volte e altre due vie sulla stessa parete non sono neanche state ripetute (idem come sopra, NdR). L’amara verità è che alcune salite, per ora molto poche, sono state sacrificate sui due altari gemelli della pubblicità e della popolarità di massa.
Tuttavia il nostro pessimismo è prematuro. Guardiamo fra i due estremi: l’alpinismo competitivo di punta da un lato, e la pigrizia mentale di chi ripete le vie classiche e popolari dall’altro, e proviamo a vedere cosa è rimasto: fortunatamente parecchio. Da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, la grande maggioranza delle vie, delle montagne e delle catene montuose, così come la maggior parte dell’«esperienza alpina», rimangono intatte, ancora lontane dall’affollamento esasperante, incuranti e al riparo dalle pressioni sociali che si avvertono agli estremi. Se non ci si preoccupa di voler porre il proprio nome in una guida alpinistica, se si prende cura di inventare il proprio programma di scalate, anziché limitarsi a ripetere le vie che gli amici hanno percorso l’estate precedente, allora improvvisamente si scoprono le montagne e le pareti selvagge e deserte come devono essere apparse circa trent’anni fa alla generazione di David Brower.
Il periodo che stiamo vivendo non rappresenta la fine delle montagne, ma con certezza la fine di un certo stile di salirle. Sebbene questo stile abbia prodotto un numero enorme di imprese difficili, ora possiamo tuttavia definirlo alpinisme de facilité, ovvero un alpinismo semplicistico e assai superficiale. Competizione, volontà di primeggiare, o anche solo il salire ciò che tutti salgono: sono tutti comportamenti psicologicamente «facili», addirittura pigri e rappresentano un atteggiamento irriflessivo destinato a inaridirsi. D’ora in poi si dovrà cercare un’esperienza di libertà, perché non la riceveremo di sicuro in regalo. Essa dovrà significare qualcosa di più del semplice lasciare la città. Si dovrà mettere da parte un certo establishment codificato che per troppo tempo ci ha condizionati in montagna: abitudini sociali di obbedienza al gruppo e alle sue regole o agli schemi individuali di competizione, vista sia in funzione dell’autoaffermazione come del desiderio di appartenere a una élite.
Queste considerazioni possono sembrare forzate o dare l’impressione che il loro autore sia fondamentalmente indifferente alla sorte delle montagne e dell’alpinismo. Non è così! Pure io partecipo al generale senso di smarrimento che è il segno dei nostri tempi, pure io sono addolorato da certi cambiamenti nel paesaggio montano, sia fisico che spirituale. Ma le conclusioni cui sono arrivato mi sembrano incoraggianti. In ultima analisi io credo che un’autentica «esperienza di libertà» consista nel condividere la libertà con altre persone, non nell’usarla per sfuggire a loro (benché ciò rientri in un altro problema).
Nel frattempo suggerirei di accostarci alle montagne con un nuovo spirito, prima di tutto considerando come e perché arrampichiamo. Non direi che le montagne sono sovraffollate, ma piuttosto che gli alpinisti non hanno spaziato a sufficienza e soprattutto che non sono stati abbastanza liberi e consapevoli. Io dico che alla domanda di Villon: «Dove sono ora le nevi della scorsa stagione?» si può dare la semplice risposta: «Ma sta ancora nevicando!».
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Ero giovane, leggevo tanto, cercavo di capire.
Chi diceva “fine del tempo” ha deciso volontariamente di terminare il suo.
Ora so solo che non sono più giovane e cerco ancora di capire.
Non so quando il mio tempo finirà.