Stefano De Benedetti

Stefano De Benedetti
di Paola Mazzarelli
(da Scandere, 1984)

Lettura: spessore-weight***, impegno-effort***, disimpegno-entertainment**

La figura alpinistica di Stefano De Benedetti credo non abbia bisogno di presentazioni. Basta leggere una qualsiasi cosa sullo sci estremo, pubblicata in Italia negli ultimi anni, che lui è sempre citato. Dentro l’alpinista, però, o si dovrebbe dire meglio, tutt’intorno a questa figura di alpinista, ci sono le saggezze e le incoerenze, la volontà di ricerca e il rigore, il senso della misura e i dubbi di un uomo che mi parrebbe limitativo considerare solo un alpinista di successo.

Forse è sempre così. Ma a volte gli alpinisti spariscono dentro la loro leggenda e diventano dei sostantivi astratti, ghiacciatori, alpinisti solitari, sciatori estremi. Magari diventano delle pareti e il loro nome sta incollato alle montagne. Forse anche il nome di Stefano è incollato a qualche montagna, anzi, a qualche discesa improbabile, e intorno a lui si raccontano già storie meravigliose. E nasceranno leggende, io l’ho incontrato da profana che il Mont Maudit quasi non sa dove sia e avrei voluto chiedergli altro. Ma poi l’altro su Scandere non si scrive e comunque «ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Così abbiamo parlato di montagna.

Stendere un’intervista non rende mai. Si vorrebbe metterci dentro quello che costituisce veramente il discorso, i gesti, il sorriso, la voce, che esita, si addolcisce e si perde, si smemora, quasi, dentro un’immagine o un sogno o un ricordo, che all’ascoltatore è dato intuire ma che scritto sarebbe intrusione. E si vorrebbe trascrivere quello che si intravvede dentro le parole ma non è nelle parole, la storia, anche di sofferenza, la ricerca solitaria e per nulla certa né definitiva, le pause e i silenzi. Soprattutto i silenzi. Perché una persona è tanto in quello che dice quanto in quello che non dice e il senso di ogni discorso si costruisce anche per assenze. Invece, inevitabilmente, ho dovuto tagliare e mettere insieme, e questa è pur sempre un’operazione arbitraria. Ne risulterà almeno, credo, che Stefano è un grande alpinista. Il che, detto tra noi, sorrideva lui durante l’intervista, non interessa proprio a nessuno. A me comunque è parso soprattutto una bella persona.

Senti, Stefano, a che punto è lo sci estremo? O forse si dovrebbe parlare di scialpinismo, perché lo sci estremo è un’emanazione dello scialpinismo, no? «Sì, certo. Lo sci estremo non è altro che l’esasperazione o l’evoluzione, se si vuole, di istanze che erano e sono presenti nello scialpinismo. Diciamo che quando si è esasperata la componente tecnica dello scialpinismo, si è arrivati allo sci estremo. Era un discorso legato strettamente al materiale e alle condizioni psicologiche del momento. Quando è apparso il materiale giusto e quando si sono attuate le condizioni storiche adeguate, si è sempre potuto operare un salto qualitativo importante».

– E negli ultimi anni che cosa è successo?
«Diciamo che dal ’75-’77 in poi lo scialpinismo si è mosso in diverse direzioni, riprendendo per certi aspetti alcune sue tematiche classiche, anche se c’era già stata l’evoluzione dello sci estremo che tecnicamente aveva rappresentato un momento interessante. Infatti ci sono stati i grandi raid sulle montagne del mondo, come ai tempi c’erano stati i raid sulle Alpi, cioè si è partiti in esplorazione, cercando di collegare tra loro montagne anche molto distanti, con lo spirito che aveva spinto i pionieri sui percorsi delle hautes routes. È il caso delle spedizioni in Himalaya, delle traversate della Groenlandia con gli sci, ecc. Poi naturalmente c’è stata la spinta a portare gli sci sulle grandi montagne del mondo, che riprendeva quanto si era già fatto sulle Alpi, ad esempio quando Marcel Kurz era stato sul Bianco, nel Vallese, ecc.: salite non tecnicamente ripide, ma che comportavano già percorsi impegnativi e una cultura e una preparazione sciistica adeguate. In questo filone di esplorazione con gli sci delle montagne del mondo per le vie normali mi pare vada inserita anche l’esplorazione degli Ottomila. E poi naturalmente c’è il filone dello sci estremo vero e proprio…».

– Che però esisteva già prima…
«Naturalmente, però dal ’77 in poi lo sci estremo ha subito una profonda evoluzione. Fino a quell’anno infatti ha vissuto una fase che io definirei pionieristica e lineare, nel senso che ha sempre avuto una visione molto semplificata delle possibilità dello sci in montagna. Si fondava su un unico parametro, la pendenza e di lì passava ogni ricerca della difficoltà tecnica, mentre altri concetti, come l’estetica di un itinerario, la sua complessità o la sua varietà erano quasi completamente ignorati. Se vogliamo fare un parallelo con l’alpinismo, questa fase può corrispondere a quella pionieristica, quando si tendeva a salire le montagne per vie piuttosto lineari e tutto sommato abbastanza semplici. Ora, alla fine del ’77 i grandi canaloni e le grandi pareti bianche delle Alpi erano stati scesi. Rimaneva ancora qualche cosa nelle valli più sperdute, però il grosso era stato fatto, e molti, non ultimo lo stesso Patrick Vallençant, pronosticavano quasi la fine dello sci estremo. Ora, come sempre succede in questi casi, come è successo anche nella storia dell’alpinismo all’inizio degli anni ’70, quando si pensava che non restasse più nulla da fare sulle Alpi e poi le cascate e l’evoluzione dell’arrampicata libera hanno portato a riscrivere completamente la descrizione dell’alpinismo, anche per lo sci estremo si è trattato di rivedere un po’ le proprie concezioni di affidarsi a qualche cosa di nuovo, insomma, di una questione di fantasia e di creatività. Nello sci estremo lo spazio nuovo c’era abbondantemente perché era una disciplina in fondo poco frequentata. Così mentre alla fine del ’77 coloro che erano rimasti ancorati alla loro vecchia concezione di discese in canali anche molto difficili, però lineari ed evidenti, sono partiti alla ricerca di itinerari di questo tipo sulle montagne del mondo, in Perù, ad es., in Alaska in Nord America e anche in Himalaya, sulle Alpi l’evoluzione è rimasta affidata ad un gruppo di giovani, ad esempio, Daniel Chauchefoin, tanto per fare un nome, i quali hanno cercato di rinnovarsi tecnicamente, con la consapevolezza che c’era moltissimo da scoprire, e soprattutto dei parametri che non erano stati assolutamente sfruttati».

Stefano De Benedetti sulla parete nord della Tête Carrée

– Cioè si è riveduto il concetto di difficoltà?
«Diciamo che la difficoltà è tutto quello che impedisce la progressione. È quindi composta da una serie di parametri, dalla quota alla difficoltà tecnica sul passaggio, alla componente ambientale, a quella psicologica, oltre naturalmente a tanti altri piccoli particolari, legati magari al materiale, alla situazione contingente, alle condizioni, ecc. che normalmente non si prendono in considerazione perché o sono irrilevanti, o sono troppo mutevoli per poter essere riuniti in un’unità di misura. Ad esempio, le condizioni hanno un’importanza enorme, se pensi che una discesa su neve buona è almeno di due gradi più facile della stessa discesa su neve dura o su ghiaccio. Ora, di tutte queste variabili fino al ’77 se n’era considerata ed esasperata una sola, la pendenza, e infatti si era già arrivati al limite, cioè intorno ai 60 gradi oltre i quali la neve non si attacca e quindi il problema non si pone neppure. Così, quando ci si è resi conto che esistevano tantissime possibilità di discese diverse da quelle condotte fino a quel momento, l’evoluzione ha ripreso con una discreta accelerazione».

Ed è così che tu sei arrivato alla via Major?
«Sì, io sono arrivato alla via Major proprio con questo intento, di compiere una discesa che rappresentasse una sintesi di quanto era stato fatto nel periodo precedente e che rappresentasse anche un esempio di via nuova, cioè una via molto complessa che andava immaginata per lo sci e non mediata dall’alpinismo come era stato fatto fino ad allora. Si trattava infatti di un itinerario che si svolgeva lungo la direttrice generale di una via alpinistica, ma comportava molte varianti dettate dalla necessità dello sci. Un preannuncio della concezione nuova c’era già stato nella discesa della via della Sentinella Rossa sul versante Brenva da parte di Jacky Bessat, un itinerario molto complesso, oltre che ripido, e che richiedeva una profonda conoscenza dei pericoli oggettivi perché si muoveva in un ambiente particolarmente difficile. Bessat però, per quanto riguardava alcuni limiti psicologici, precorreva ampiamente i tempi e non poteva avere ancora l’energia necessaria per risalire, oltre che scendere, una parete del genere. Tant’è vero che aveva fatto ricorso all’elicottero. E su questo c’è da dire che in molti casi l’elicottero ha costituito, più che un mezzo da demonizzare, un fattore dell’evoluzione perché ha permesso di realizzare discese per le quali, se avessero dovuto completarsi anche della salita, psicologicamente non si era ancora pronti. Comunque questa discesa di Bessat, che veramente anticipava quella che sarebbe stata l’evoluzione dello sci estremo sulle Alpi dal ’77 in poi, se confrontata con la discesa della cresta di Peuterey che le è molto vicina come periodo, denuncia proprio quella che a me pareva una carenza stilistica. Vallençant infatti aveva compiuto una salita tecnicamente meno difficile, ma l’aveva risalita a piedi. Ecco, il mio intento alla via Major era quello di riunire questi due aspetti: risalire a piedi, e quindi inserirmi nel filone classico dello sci estremo e nello stesso tempo realizzare una discesa che per la sua complessità rappresentasse qualche cosa di nuovo nell’ambito della disciplina. C’era però già stato un esempio notevole nel ’77, quello della discesa della via degli Austriaci a Les Courtes, da parte di Chauchefoin che aveva realizzato una via magnifica e l’unica fino ad allora a voler incarnare questo ideale nuovo dello sci estremo.

Si trattava proprio di una visione nuova delle possibilità dello sci in montagna, la possibilità di combinare tra loro macchie di neve magari distanti e inframezzate da roccia. Un po’ come nell’arrampicata libera, dove oggi si cerca piuttosto la dinamicità dei passaggi che la linearità dell’itinerario. Poi muoversi con gli sci in diagonale non pone assolutamente nessun problema, anzi è proprio nello spirito dello sci, e quindi si possono combinare insieme tratti nevosi anche molto lontani, immaginando proprio un itinerario completamente nuovo e slegato dalla tradizione. Però naturalmente questa nuova dimensione prende la sua forza dalla tradizione, perché se non ci fosse stato tutto il lavoro condotto in precedenza sulla pendenza e sulla conoscenza della neve, e il lavoro di disinibizione psicologica, è chiaro che non si sarebbe assolutamente potuti arrivare alla nuova impostazione. È stato un momento che io credo di aver vissuto di persona e che mi ha dato delle soddisfazioni grandissime, con pareti fino a quel momento ritenute assolutamente inadatte per lo sci, come ad esempio la Nord-ovest della Grivola. E che invece poi si sono dimostrate magnifiche».

– Quindi c’è proprio una dimensione creativa nello sci estremo moderno?
«Esatto. Più che l’exploit tecnico, più che la ricerca del limite, che ci può anche essere, naturalmente, in certi momenti è proprio bella questa fase creativa, immaginativa. Guardare le fotografie, andare alla base della parete, sforzarsi di immaginare l’itinerario, è una delle componenti che io giudico più belle della disciplina oggi».

– Ed è in questa dimensione che si è mosso lo sci estremo in questi ultimi anni?
«Sì, ma direi che negli ultimi anni lo sci estremo si è mosso sulle Alpi lungo tre grandi direttrici. Innanzi tutto c’è stato un enorme innalzamento del livello medio degli sciatori, paragonabile a quello che è successo nel campo dell’arrampicata libera. I fattori che l’hanno determinato sono i soliti, frequentazione delle palestre, maggior conoscenza dell’aspetto tecnico dovuto alle riviste, disinibizione psicologica dovuta agli exploit di coloro che portano avanti tecnicamente il discorso. Importantissima in questo senso è l’interrelazione che si instaura tra le élite di punta, le riviste e il pubblico. Le élite conducono la propria ricerca, le riviste l’amplificano, il pubblico l’assorbe e la base si allarga. Di qui emergono nuovi elementi che a loro volta spingono avanti l’evoluzione, questa ha un ritorno sulle riviste e il ciclo si ripete.

È chiaro che chi si occupa di un discorso del genere ha una grossa responsabilità nel senso che deve, e a volte lo fa arbitrariamente, mediare le istanze che arrivano dall’élite e che a volte sono esasperate e possono non essere adatte a un certo tipo di pubblico. Le riviste sono in grado di impostare mode, creare miti e distruggerne altri e quindi sono un’arma pericolosa che andrebbe gestita con estrema saggezza. E questo non sempre avviene. Comunque è un fatto che questo enorme allargamento della base si è verificato e che molti appassionati di scialpinismo hanno cominciato a cimentarsi con canali più ripidi, al limite superiore della disciplina. Contemporaneamente il limite si è spostato proprio per le maggiori capacità tecniche».

Stefano De Benedetti all’attacco della parete nord dell’Aiguille Blanche

– E tu hai lavorato in questa direzione?
«Sì, io mi sono sforzato molto in questi ultimi anni di creare un anello di collegamento tra lo scialpinismo e lo sci estremo, con tutta una serie di realizzazioni di canali che sono giusto al limite superiore dello sci alpinismo, sui 40 gradi, con dislivelli di due, tre, quattro, a volte anche cinquecento metri, e che potrebbero essere praticati da molti appassionati di scialpinismo, senza rischio ma tuttavia in ambienti molto gratificanti. Sono canali agibili nella stagione classica dello scialpinismo e che offrono quell’attrazione tecnica che i giovani spesso cercano e non sempre trovano nelle gite classiche. Così la discesa di questi canali, che si risalgono con piccozza e ramponi o spesso anche senza ramponi, può aggiungere un elemento di grande soddisfazione ad una gita con gli sci. Anche in Francia si è lavorato molto in questo senso scoprendo tutta una fascia di discese intermedie che non si possono ancora ascrivere allo sci estremo, ma formano un po’ l’anello di collegamento (1)».

– Lo sci di canale è una delle direttrici, dunque. E le altre?
«Il secondo filone, al quale mi sono dedicato anch’io, è quello delle discese direi «creative», cioè quelle che prima non erano ritenute accessibili agli sci. Per fare un esempio si può parlare della parete sud-est del Monte Niblé, alta 1400 metri. Alpinisticamente non è una parete molto interessante, ma per lo sci rappresenta un campo di applicazione notevole, perché permette di combinare insieme diversi tratti in un itinerario non pericoloso ma di grandissima soddisfazione. E qui c’è anche tutto un discorso di rivalutazione delle montagne dell’arco piemontese, con pareti attorno ai 45 gradi, anche complesse, che di appassionante offrono questa costante ricerca dell’itinerario che a mio avviso è l’aspetto più importante. E poi c’è il terzo filone, quello che concerne effettivamente i limiti della disciplina sulle Alpi, con discese estremamente impegnative, dove la pendenza è elevatissima, 55-60 gradi e con difficoltà tecniche, sia in salita sia in discesa, molto concentrate. Qui si tratta di trovare itinerari nuovi in alta montagna, oltre cioè i 4000 metri, e proprio perché molti dei parametri vengono esasperati, si tratta di discese che spostano i limiti della disciplina. E naturalmente queste richiedono un impegno totale».

– E qui si apre il discorso dell’allenamento…
«Per quanto concerne l’allenamento io ritengo che sia fondamentale la progressione, nel senso che si deve arrivare nel pieno della stagione con tutta una serie di salite facili e medie alle spalle, una specie di ricapitolazione di quella che è stata la propria evoluzione precedente, e che ti porta in maniera quasi inavvertita ad effettuare un salto psicologico che altrimenti sarebbe distruttivo.

Il discorso sulla progressione coinvolge anche in un certo senso il discorso sull’elicottero, perché salire un itinerario è una forma di progressione psicologica: la risalita è funzionale alla discesa. Al punto cui è arrivato lo sci estremo oggi, poi, la risalita è un fatto fondamentale, perché le discese sono di una tale complessità e si affrontano pendii tanto lavorati da richiedere una preparazione specifica in fase di salita. Un esempio di un itinerario di questo tipo può essere la via diagonale al Mont Maudit che riunisce tre caratteristiche importanti dello sci estremo in un’unica discesa, una cresta, una parete e un canale. La preparazione della discesa è uno degli elementi emersi proprio negli ultimi due o tre anni. Su un itinerario come questo l’evoluzione storica ha eliminato il problema dell’elicottero, perché qui la scelta tra usarlo o non usarlo non esiste più: scendere dall’alto senza risalita a piedi sarebbe veramente una specie di suicidio».

– Ma che cosa vuoi dire preparare una discesa?
«Ad esempio, ci sono delle lunghe crestine che tagliano i pendii e che vanno smussate, perché il filo è così ripido che sarebbe impossibile passarle con gli sci. Si deve fare una specie di invito per gli sci in modo da non trovarsi in discesa con una base di appoggio troppo esigua sul filo. E poi ci sono delle colate di ghiaccio dove bisogna scavare dei piccoli gradini in modo che le lamine possano far presa. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico poi, ci sono delle manovre specialissime, che si usano solo in parete e che si sono sviluppate in questi ultimi anni, manovre specifiche, come ad esempio il passaggio di rigole molto profonde e strette, e poi vari espedienti, che concernono anche il materiale. Ad esempio, io mi sono costruito da tempo delle racchette munite di becco di piccozza che consentono di sostare con minor dispendio di energie fisiche e nervose».

– Mi sembra che si tratti di tecniche individuali e attrezzi costruiti artigianalmente.
«Sì. Io non sono molto al corrente di quello che fanno gli altri, presumibilmente sono arrivati alle stesse conclusioni, ma non c’è molta comunicazione in questo senso anche perché le riviste non si occupano di questi aspetti tecnici. In un certo senso siamo molto pioneristici. Ma questo aspetto mi attrae molto, e mi attraeva anche quando ho cominciato; si sapeva che erano state fatte delle discese, però non se ne conoscevano i particolari, e c’era tutta questa dimensione dell’ignoto, delle cose ancora da scoprire, da inventare».

– E il materiale?
«Innanzi tutto c’è da chiarire che c’è sempre stata una relazione molto stretta tra le possibilità offerte dal materiale e l’evoluzione tecnica che è seguita, e questo anche nell’alpinismo. E poi naturalmente i risultati hanno creato le condizioni per un rinnovamento del materiale, perché è sempre una spirale. Però lo sci estremo non ha questi ritorni economici e non rappresenta un movimento di massa e quindi il materiale deve mediarlo da un settore dove l’evoluzione in questo senso esiste, cioè dallo sci di competizione, sci, scarponi, ecc. Naturalmente il materiale va scelto molto leggero e per quanto riguarda gli sci con pochissime vibrazioni e quindi che tengano bene sul ghiaccio… A proposito della lunghezza, ci sono due tendenze, io trovo che lo sci lungo, 203-207 cm è più tecnico, più difficile, naturalmente molto più rigido, ma ha una resa completamente diversa sulle colate di ghiaccio e sulle placche di neve dura come si trovano in estate. Se uno scia solo in primavera, allora lo sci corto può anche andare bene. Per quanto riguarda gli attacchi si va senza sicurezza, attacchi semplificati che devono essere molto robusti e affidabili, io uso gli Artic della Zermatt. Ma comunque più che delle marche si tratta di evidenziare le caratteristiche di utilità di ogni singola componente del materiale e poi ognuno trova sul mercato gli attrezzi che meglio gli si adattano».

Stefano De Benedetti in vetta all’Aiguille Blanche de Peuterey prima della discesa della parete nord

– E qui interviene il discorso della sponsorizzazione…
«Certo la sponsorizzazione c’è e merita un discorso a parte. Lo sci estremo secondo me ha avuto fin dall’inizio due anime, una appassionata, cioè tutti quelli che si muovevano con passione autentica, e che facevano le cose per sé anche se è chiaro che la componente del successo c’è sempre nelle motivazioni. E poi ci sono stati coloro, e spesso i due atteggiamenti hanno convissuto nella stessa persona, che hanno favorito l’aspetto mercenario della questione. Non so, figure come quella di Sylvain Saudan, che incarna questa commercializzazione esasperata, e dall’altra parte figure come Heini Holzer, che le cose le faceva esclusivamente per sé. Holzer faceva lo spazzacamino e non aveva neanche alle spalle la decisione di vivere di montagna, che è un fatto importante perché spesso costringe a dei passi che se uno avesse la libertà di scegliere non compirebbe. Così la seconda anima dello sci estremo è anche quella che a volte lo ha un po’ avvelenato e qui va fatto anche un discorso a proposito della stampa che in questi casi, come già anche ai tempi di Walter Bonatti, ha sempre puntato l’attenzione sugli aspetti spettacolari e più superficiali per cui l’eroe (e la stampa di eroi ha bisogno), si è trovato chiuso in un mondo tutto suo e ha esaurito anche quella spinta di libertà che le sue imprese potevano portare a un pubblico allargato. E molte volte sono uscite sui giornali cose che gli stessi protagonisti non avrebbero voluto e l’immagine che il grosso pubblico e anche gli alpinisti, hanno avuto è stata un’immagine completamente deformata. Naturalmente bisogna tener presente, a giustificazioni delle deformazioni che ci sono state, che lo sci estremo ha compiuto in un lasso di tempo molto breve quell’evoluzione che all’alpinismo ha richiesto cent’anni e quindi non ha avuto il tempo di distillarsi, di isolare tutti quegli elementi divistici, superominici ed eccessivi che invece l’alpinismo ha isolato. Mi sembra però che adesso la disciplina cominci a entrare nella sua maturità e, come l’alpinismo che sta vivendo un momento introspettivo molto lodevole dal mio punto di vista, anche lo sci estremo sta cominciando ad interrogarsi sui molti perché, guarda indietro, da quindi una valutazione storica di quanto è accaduto. La speranza per il futuro è che non si debba arrivare più a certe degenerazioni del passato».

– Ma tu come vivi il rapporto tra alpinista pubblico e alpinista privato? Voglio dire, le tue sono imprese private?
«Certamente, io non ho mai fatto assolutamente niente perché mi si chiedeva di farlo o perché quella specifica cosa mi avrebbe permesso un salto pubblicitario di qualità. Anche perché mi sono sempre sforzato di crearmi un’alternativa e così, non dovendo dipendere economicamente da questo, facendo un altro lavoro, mi sono potuto permettere delle libertà che chi è schiavo del suo voler vivere in montagna non sempre si può permettere: io penso che questo è un campo estremamente delicato. Delicato perché si rischia la pelle. Se uno si lascia condizionare dall’esterno, se esiste una spinta esterna alla cosa, allora si rischia molto e in un certo senso si perde se stessi. Si può benissimo servirsi di quanto viene dall’esterno, delle sponsorizzazioni, anche perché oggi non sarebbe più possibile muoversi senza sponsorizzazioni, ma nello stesso tempo si può non lasciarsene condizionare. È molto una questione di misura e di equilibrio dell’alpinista. Non bisogna neanche nascondersi dietro questa immagine idolatrata di un dilettantismo a oltranza, le sponsorizzazioni, entro certi limiti, si possono anche cercare, ma non debbono assolutamente entrare nella sfera delle proprie motivazioni. Bisogna anche saper rinunciare a certe cose, anche se sono remunerative dal punto di vista economico, quando non si addicono alla propria preparazione e ai propri bisogni. O anche semplicemente alla propria passione».

– Prima parlavi di rischio. Lo sci estremo è sempre rischioso?
«Sì, direi di sì. Ma anche qui bisogna distinguere tra il momento primaverile e la tarda estate. In primavera la neve buona permette una possibilità di recuperare con gli sci in certe situazioni che nella tarda estate sarebbero impensabili e quindi la soglia di rischio s’innalza. In primavera con neve buona pendenze di 45/50 gradi non comportano rischi. Con neve dura invece i rischi sono molto più alti. Comunque per chiarire la questione del rischio bisogna fare anche un altro discorso. Il paragone va fatto con l’alpinismo solitario, perché nello sci estremo non c’è possibilità di assicurarsi. Il rischio è una funzione di tante cose, elementi spesso impalpabili e che richiedono una critica severa per essere percepiti, condizioni di forma, condizioni psicologiche, condizioni ambientali. Quanto più una persona è riflessiva, sa muoversi con intelligenza, e quindi valutare questi singoli aspetti, tanto più riesce a ridurre il rischio».

– Tu dici che nello sci estremo non ci si può assicurare, però ci sono state delle discese con la corda.
«Sì. Riguardo all’uso della corda vorrei fare una considerazione che mi era già stata ispirata da Gianni Comino, il quale giustamente considerava che, se l’uso della corda non è preponderante rispetto alla discesa, non c’è motivo di rinunciare ad un itinerario magari molto remunerativo e molto interessante. È chiaro che è una questione di proporzioni, perché se l’uso della corda viene esteso a tutta la via, allora ne risulta falsata la dimensione atletica e sportiva. Anche perché la corda presuppone una progressione intermittente, non fluida, non dinamica, come invece è quella dello sci. Io non la vedo applicabile in maniera sistematica, ma è chiaro che su singoli passaggi può essere utile, anzi, può aggiungere un sapore tecnico alla cosa».

– A te piace questo aspetto tecnico?
«Mi piace tutto. Più che un fine, l’aspetto tecnico è uno strumento validissimo per arrivare a esperienze nuove, io però privilegio la sensazione estetica, il piacere di immaginare l’itinerario nuovo, e poi i momenti di ritorno, quando ripenso all’esperienza vissuta e soprattutto rivedo l’itinerario. Da questo naturalmente scaturisce anche il bisogno, a volte, della punta, quel luogo geografico dove confluiscono tutte le linee, anche quella che io ho immaginato sulla parete. Questo non vuol dire che la lezione californiana non abbia avuto i suoi effetti anche tra gli sciatori. Ma credo che i due momenti, quello alpino e quello californiano, confluiscano nella coscienza di un alpinista contemporaneo evoluto, che ha provato tutte e due le cose separatamente ed è in grado di compierne una sintesi».

Stefano De Benedetti, 1a discesa della parete nord dell’Aiguille Blanche

– Qui emerge un aspetto di evoluzione personale attraverso le attività che si compiono, in questo caso l’alpinismo.
«Sì, l’alpinismo, ma può essere qualsiasi cosa. Noi siamo immersi nella cultura occidentale, che è una cultura nevrotica, anche nel senso positivo del termine, cioè una cultura di instabilità, di disequilibrio.
Siamo in un contesto che proietta verso degli obiettivi e la maggior parte di noi, almeno così credo (poi magari è un’affermazione arbitraria), è stata educata ad apprezzare questo movimento, questo sentirsi in cammino verso qualche cosa. Spogliarsene in età adulta mi sembra quasi impossibile. Questo trarre piacere dall’avere uno scopo, un progetto che ci porta da qualche parte, è un pensiero romantico, una forma di idealismo, ma io credo che non si possa prescindere da come siamo fatti a meno di una ribellione che ci costerebbe molto cara. Quindi, o si asseconda e si vive un’esistenza abbastanza compatibile con se stessi, oppure si è destinati a conflitti notevoli che poi sfociano in tante iniziative dispersive o addirittura distruttive. Così è stato per tanti amici… E questa è una delle considerazioni base che mi hanno spinto, questo desiderio di avere uno scopo che mi permettesse di catalizzare le mie energie. Quando i fili dell’esistenza sembrano tutti slegati, quando si sente che l’energia sfugge in tanti rivoli diversi, un partire in tante direzioni che poi si annullano l’una con l’altra… è ben diverso invece avere un nucleo, un’identità. E questo mi ha aiutato tantissimo a dare unità alla mia vita, a trovare un’identità».

– In questo senso che percentuale di tempo ti occupa la tua attività?
«Ma, ci sono due tipi di tempo, il tempo reale e il tempo interiore, che è quello importante… In tempo reale io mi alleno molto poco, cioè, scio al massimo un mese all’anno. Però mi alleno molto a secco, ginnastica, tutto quello che mi è concesso di fare in città. Ho pensato tante volte di andare a vivere in montagna, ma non ce la farei a rinunciare a quel contesto così vivo, così stimolante. Tante cose, io sono un cittadino. Il piacere di stare in montagna scaturisce anche da questo movimento altalenante tra montagna e città. È una cosa che dovrebbe far pensare perché vuol dire che ci sono dietro delle frustrazioni…

Comunque anche l’esperienza in montagna non va limitata al solo sci. Se si ama la montagna bisogna conoscerla nella sua globalità, arrampicare, fare scialpinismo, muoversi molto a piedi, fare trekking, perché questi aspetti si compenetrano tutti».

– E se tu non lo potessi più fare?
«Sì, il problema esiste, ci ho pensato. Uno magari deve smettere, si fa male, o ha delle responsabilità di fronte alla famiglia. Personalmente io ho sempre dato importanza al mondo dello spirito e della cultura e ho sempre pensato che se una persona è impossibilitata a muoversi può spingersi molto in là nel suo cammino intellettuale. Ci sono tanti e tanti libri che quasi possono compensare la perdita di mobilità. Però è una questione molto personale. So che molti vivono questa doppia sfera ma se uno fosse esclusivamente puntato sull’espressione fisica io penso che andrebbe incontro a dei veri e propri traumi».

– Prima parlavi di giovani…
«Sì, io ho molti amici giovani e credo molto al rapporto personale. Se vuoi all’esperienza che si trasmette, io sono stato iniziato da Gianni Comino che ha rappresentato per me un contatto straordinario, perché mi ha veramente fatto percepire la portata dell’amicizia e mi ha marchiato per sempre. Come comunicazione, come disponibilità (e guarda che in montagna disponibilità non è una parola vuota), costa molta fatica. Con i giovani mi sforzo di avere questo tipo di rapporto. Così questi amici, se posso, cerco di strapparli ad altre discipline sportive per inserirli nel filone dell’alpinismo perché mi sembra che ai fini della formazione della personalità e della maturità individuale sia molto più ricco di promesse rispetto agli altri sport. E questi giovani si innamorano anche loro di questo mondo, della possibilità che rappresenta per ciascuno, di crescita, di realizzazione, di indipendenza. Perché bisogna anche abituarsi a far molto da soli. Sai, io ho scoperto nell’alpinismo una ricchezza di rapporti, una varietà assolutamente incomparabile. E poi ci tengo a far risaltare che l’alpinismo per coloro che si sforzano di assimilarne anche le lezioni più scomode, presenta sempre una possibilità di ampliare la propria coscienza».

Stefano De Benedetti, discesa del Canalone di Lourousa

– Cioè?
«Ma, ti dico, io sono stato in India e l’India mi ha provocato uno shock tremendo. Fin dalla prima settimana mi sono accorto che io ero andato lì finalizzato al massimo, che volevo scalare una montagna e invece stava succedendo una cosa che non avevo preventivato, che io non potevo andare lì chiuso nel mio scafandro, scalare la mia montagna e tornarmene indietro, che la lezione vera era diversa, e che la montagna (anche se poi quella l’ho fatta), era proprio l’ultima cosa. E allora l’alpinismo è stato un pretesto magnifico per ampliare la mia coscienza. Sono tornato indietro ed ero molto in crisi, mi chiedevo che cosa facessi io lì sulla montagna e invece avrei potuto fare qualche cosa per gli altri. Ognuno di noi occidentali può fare molto per gli altri».

– Senti, abbiamo parlato di rischio e di tante altre cose, ma non abbiamo parlato della paura.
«Sì, la paura effettivamente c’è. Anche qui ho ricevuto molti insegnamenti, ad esempio ho scoperto che si può arrivare a servirsi della propria paura. Nel senso che la paura stimola molto, intanto, a monte il desiderio di prepararsi, e poi la concentrazione. Soprattutto, la paura innesca una serie di reazioni fisiologiche che ti permettono di trovarti più preparato di fronte alle difficoltà, non ultimo il fatto che di fronte alla paura si secerne adrenalina. Nello sci estremo c’è una dimensione di sfinimento, dopo una lunghissima salita, alla quale si ovvia con un superlavoro che va stimolato con delle forme di training. Anche perché dopo un po’ la paura si smussa. Allora io mi metto in una situazione di training particolare, ho fatto un po’ di training autogeno, ho provato la meditazione trascendentale e tutte queste attività mi hanno lasciato qualche cosa. Anche la paura diventa uno strumento per affinare la concentrazione. Questo uso della paura come uso dell’adrenalina è possibile nello sci estremo, mentre non è possibile nell’alpinismo perché usare dell’adrenalina o concentrarsi così ti lascia completamente sfinito. Se uno usasse questo tipo di energia nervosa nell’alpinismo, quando poi deve ancora scendere e la discesa magari è lunga e complessa, andrebbe incontro a dei seri guai, perché non ce la farebbe più».

– Ma comunque uno deve essere in grado di concentrarsi per un tempo molto lungo, no? Perché, quanto dura una discesa?
«Molto, anche sei, sette ore. Considera che anche lì ci sono delle punte. Comunque è un’attività con una continuità diversa rispetto all’alpinismo normale e anche all’alpinismo solitario, dove qualche volta ci si può fermare. Nello sci estremo fermarsi è estremamente controproducente, perché le fasce muscolari lavorano lo stesso e per di più in posizioni innaturali».

La via De Benedetti (1980) al versante sud-ovest del Monte Bianco

– E un errore, un incidente, è comunque mortale?
«Sì, ma in situazioni che uno si seleziona attentamente. Però certo, nello sci estremo ai massimi livelli ci deve essere questa accettazione della possibilità di morire».

– E sapere che non puoi commettere neanche un errore è gratificante? Intendo, gratificante per la tua coscienza di te?
«Non lo so. Personalmente direi di no. A parte il fatto che non è del tutto vero che uno non possa mai sbagliare, il fatto di non dover mai sbagliare ti proietta in una dimensione che in un certo senso è rischiarata dalla possibilità di morire. Cioè, uno sa che deve essere assolutamente impeccabile. Non è tanto un piacere, quanto una dimensione che si affronta, molto ricca, perché effettivamente in queste condizioni si dà il meglio di sé. Una ricerca di perfezione che ha una forza tutta particolare. È un’esperienza importante, sicuramente positiva. Sono esperienze che si cercano, ma si preparano anche, meditandoci sopra. Ci sono dei tempi lunghissimi di adeguamento psicologico prima di arrivare a concepire un rischio del genere. Mi è successo più di una volta di arrivare in cima e poi di scendere da un’altra parte, perché non mi sentivo pronto al rischio che quella discesa comportava. Altre volte invece ero estremamente caricato e ho preso dei rischi enormi, a settembre su pareti di ghiaccio duro, come dopo la morte di Gianni Comino.

Certo, questa parte del rischio, della possibilità di morire, della morte è un po’ quello che io considero la sostanza della cosa, insieme al bisogno di creatività e di espressione, ma di questo non si può molto parlare… Sono cose che sottendono la volontà di andare al di là, se la parola non sviasse vorrei dire quasi una volontà di trascendenza, perché quando uno va al limite di qualche cosa cerca in definitiva di andare oltre e quando ti avventuri in questo mondo, che poi è il mondo dell’esplorazione di sé, ma anche un modo di cambiare gli occhi con i quali guardi il mondo, può essere davvero interessante, molto interessante, molto diverso dall’ordinario. Quanto poi possa essere comunicata un’esperienza del genere, che validità possa avere, che relazioni con le problematiche sociali, non so esattamente. È un’esperienza che si può fare. Da qualcuno viene ricercata. Magari sotto altre forme. Molte persone che poi vengono emarginate…».

Stefano De Benedetti sulla parete nord del Fletschhorn

– Però c’è una ricerca di autodistruzione…
«Infatti c’è questo rischio grandissimo. Sembra un confine estremamente labile tra autodistruzione e volontà di superamento. È un problema grave, il problema di non riconoscere esattamente quali sono i limiti dell’esperienza in relazione a sé, i limiti delle proprie possibilità. Quando uno ha una percezione un po’ confusa di questi limiti, è facile che non li riconosca. È successo a tanti amici… tanti amici… sono cose che fanno molto pensare. Però forse c’è di buono questo nella psicologia di un montanaro, che non si ferma davanti al rischio, ritiene che le cose valgano la pena di essere vissute. Perché pensa di sopravvivere, certo, ma anche perché secondo me a monte c’è la consapevolezza che la vita come viene vissuta normalmente in fondo non vale la pena. E questo non è bello.
No, non è bello. Perché non è vero, io lo so benissimo che non è vero. Infatti mi sforzo di allontanarmi da questa idea. E diventare maturi significa proprio allontanarsi da questa idea…».

– Io qualche volta penso che anche l’autodistruzione sia naturale…
«Però l’autodistruzione molto spesso secondo me denuncia una mancanza dì fantasia, perché ci sono effettivamente tantissime possibilità per muoversi, senza arrivare a questa. Allora un ragazzo giovane deve stare estremamente attento a infilarsi in questo tunnel in cui al fondo c’è l’autodistruzione, il rischio eccessivo, proprio perché con un minimo di fantasia, di disponibilità, le cose belle da fare ed estremamente produttive, belle per sé, sono molte, e sarebbe un errore gravissimo identificarle solo nell’alpinismo. Anche se questa è stata un’esperienza per me importantissima».

– Ma tu pensi di continuare?
«Di continuare, sì, ma in maniera diversa. Io ho passato un periodo in cui ho rischiato veramente troppo. Sono stato fortunato, l’ho superato. Altri non l’hanno superato. E ora, sì, continuo…».

– Con meno rischi?
«Il rischio diminuisce perché è cambiato l’atteggiamento, diminuisce perché le stesse cose si fanno in condizioni diverse, perché c’è un’intelligenza nuova per percepire quando queste condizioni diverse si realizzano e anche per rinunciare, quando non si realizzano. Un’intelligenza nuova, che prima non c’era. Prima andavo sempre».

Nota
(1) De Benedetti sta preparando una raccolta di questi itinerari, dalle Marittime alla Val d’Aosta al Vallese, per il CDA.

Bibliografia
Articoli
Stefano De Benedetti, La Est del Rosa, in Scandere 1979;
Stefano De Benedetti, La Montagna Incantata, in Rivista della Montagna, n. 37, novembre 1979;
Stefano De Benedetti, Mont Maudit, Sfida Impossibile, in Rivista della Montagna (Sci) n. 90, dicembre 1983.
Interviste
Tutto cominciò dopo la maturità
. Intervista di Giorgio Daidola a Stefano De Benedetti, Nevesport, n. 21, dicembre 1982.

Leggi le prime discese di Stefano De Benedetti su wikipedia.

Stefano De Benedetti ultima modifica: 2018-01-25T06:07:03+01:00 da GognaBlog

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4 pensieri su “Stefano De Benedetti”

  1. bellissimo articolo (non ho resistito a dirlo). Credo che sarebbe utile far passare questi concetti ai giovani d’oggi, ma altrettanto bello è raggiungere da soli queste condizioni mentali o stagioni della vita.

  2. Stefano è stato mio mentore e ispiratore, oltre che amico. Insieme abbiamo condiviso cose importanti e amici lo siamo ancora.

    Penso che al culmine della sua attività fosse talmente convinto (come in ogni cosa che fa) che avesse messo da parte l’istinto di conservazione. Cosa che probabilmente facevo anch’io, perché quella di sentirsi Superman (e io mi sentivo quello grande, non a little one) era tra quelle che condividevamo, tanto da farci travolgere da una valanga tutt’altro che piccola, autosoccorrerci e poi proseguire quasi come se nulla fosse stato discutendo animatamente sul comportamento da tenere quando si rotola nella massa nevosa. Io sostenevo che fosse meglio nuotare mentre Stefano insisteva con il voler arpionare il terreno sottostante con quella diavolo di piccozzetta sul bastoncino che si era inventato (e che poi mi costruii anch’io).

    Quando fece la sua ultima discesa significativa: l’Innominata al Bianco, c’erano perfino i francesi delle più prestigiose riviste interessati alla cosa e Stefano mi aveva coinvolto per andarci assieme. Quando Silvye Chappaz, fotografa, lo seppe, ci disse che se Stefano fosse andato da solo sarebbe stata una grande cosa ma così, in due, saremmo stati solo “deux Italiens” e nessuno ci avrebbe cagati. Stefano gli mise giù il telefono e andammo in due. Visti gli impegni con gli sponsor che aveva ai tempi, questa sua mossa mi commosse. Fu solo un tentativo e poi Stefano ci andò da solo riuscendoci un mese dopo.
    Ho sempre pensato, chissà forse mi sarei accoppato o sarei divenuto una leggenda dello sci estremo. Che è la stessa cosa.
    Stefano Debenedetti è diventato una leggenda anti rock star, infatti (e per fortuna) è vivo!

  3.  
    Dietro l’apparente follia ci sono una lucidità e un’intelligenza che affascinano quanto la straordinarietà delle imprese. Ancora oggi le discese di De Benedetti compiute nel decennio 1976 – 1986 mantengono intatta l’aura di leggenda che le avvolgeva. Straordinario anche nell’aver smesso nel pieno dell’esperienza e della forza atletica e nell’essere sopravissuto.  
     

  4. “Little superman”.

    L’ascolto, il muoversi attraverso il sentire, essere ciò che si fa, liberarsi dall’io, dal pensiero, dal tempo e dallo spazio, sono condizioni disponibili all’uomo.

    In particolare per coloro che hanno riconosciuto i limite del sapere e dell’esperienza.

    Chi non rinuncia ad affidarsi a sapere ed esperienza, mantiene certi legami che tendono ad impedire l’apertura a condizioni da piccolo superman.

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