Sulla parete nord del Khan Tengri in stile alpino
(Tengri Tag, Kirghizistan)
di Ilias Tukhvatullin
(pubblicato su The American Alpine Journal, 2006)
Prefazione
Il mondo va matto per i record di ogni genere. Per questo motivo voglio dire subito che non facciamo le nostre salite per il gusto di stabilire record. È semplicemente dovuto al fatto che quando intraprendi un progetto di lunga portata, vuoi realizzare qualcosa che non è stato fatto e mostrare che, se una persona vuole qualcosa abbastanza, allora sicuramente la realizzerà. Inoltre, non andiamo mai in montagna per lottare o morire per un’idea. Andiamo per vivere un’altra pagina della nostra vita.
Questa salita si distingueva dalle altre per il silenzio. Ci siamo goduti il silenzio. Tra di noi sorse un tale rapporto che parlavamo senza parole e ci sentivamo senza suoni o gesti. Le nostre anime sono praticamente cresciute insieme in un unico insieme. La fonte da cui traevamo la nostra energia era il Muro; non avevamo mai incontrato una montagna più energica e bella. Stavamo camminando lungo una strada che non ha fine; ci siamo semplicemente dissolti nel nostro ambiente. Ecco perché siamo stati in grado di andare avanti così a lungo. Ogni giorno che ci veniva concesso dal destino era un dono, e tutte le sue manifestazioni ci rendevano felici, perfino l’improvviso uragano: un vento di tale forza da poter pensare che fosse divina, e forse lo era.

Anche quando sembrava che fossimo arrivati al punto di non ritorno, eravamo certi che quel sentiero continuasse, il sentiero che riportava a casa. E più venivamo trascinati a casa, maggiore era l’energia con cui la natura si sbatteva addosso a noi, come a voler dire: “Dove stai andando così di fretta, sprecando i rimasugli delle tue forze? Questa è la tua casa, proprio questa. Rilassati, sei già arrivato dove volevi andare”. La natura, per così dire, ci ha ricordato che l’uomo non dovrebbe avere attaccamenti; ostacolano solo la sua capacità di vivere e di prendere decisioni vere, libero dal passato. C’è solo il presente.
Nelle mie spedizioni con Pasha, il tempo ha smesso di giocare qualunque ruolo molto tempo fa. Il tempo semplicemente non esiste. Siamo felici di arrampicare di nuovo insieme. Non importa dove stiamo salendo, quanto stiamo scalando – non c’è fine, non c’è inizio. Questo è stato e sarà per sempre: io, Pasha e la montagna. Quando la spedizione è finita, risaliamo alla superficie, e poi dal mare alla terraferma, ma solo per ritrovarci nel mare di sensazioni salate che fanno bene all’anima.
Anche questa volta è andata così…
15 agosto 2005
All’inizio di agosto voliamo sul ghiacciaio Inyl’chek settentrionale come al solito. L’acclimatazione procede senza intoppi ed entro il 15 siamo pronti per il decollo. Decidiamo di partire alle 2 del mattino, ma appena usciti siamo immersi in una fitta nebbia. Senza parlare ci sdraiamo nelle nostre tende, e alle 4 del mattino, quando tutto si schiarisce, Pasha chiede: “Bene, cosa ne pensi, iniziamo?”
Rifletto un po’, poi dico: “Non avremo il tempo di attraversare i nevai inferiori; potremmo finire sotto una valanga. Aspettiamo”. Si scopre che abbiamo ragione: nei prossimi giorni imperversa un tempo orribile, e questa volta evitiamo la trappola che il tempo ci ha preparato.
Ma non c’è niente di più difficile che aspettare. Le giornate si trascinano e il tempo non migliora. Il Muro si erge sopra di noi in un sudario bianco, e sembra che quest’anno non si possa pensare ad alcuna salita meravigliosa. Accetto i capricci della natura con serenità. Se è impossibile cambiare la situazione, prendila per quello che è. Ad essere onesti, sono persino contento del maltempo perché è l’unico buon argomento per ritirarmi dal Muro. Questa è la prima volta che non voglio andare in montagna. Eravamo già stati sul Muro, nel 2003, e sapevamo quanto fosse difficile. All’epoca avevo deciso che questo posto non mi avrebbe più rivisto. Durante l’anno speravo che Pasha non riuscisse a trovare sponsor per questa spedizione. Ma a maggio ha chiamato e mi ha gridato al telefono: “È tutto a posto… possiamo andare!”. La trappola per topi si è chiusa di scatto, e così ora guardo verso il Muro, lanciandogli occhiate ellittiche. Ci lascerà salire o no?

19 agosto
Il cielo è sereno e la sera inizia il gelo, segno di bel tempo. Ancora una volta controlliamo i nostri zaini. C’è un po’ di tensione sul fatto che stiamo prendendo solo quattro bombole di gas, ma Pasha spinge per una salita veloce, e io cedo alle sue argomentazioni.
20 agosto
Alle 3 del mattino tutto il cielo è pieno di stelle ma non fa freddo. Siamo vestiti esattamente come eravamo nel 2003, nel minimo assoluto: biancheria intima lunga, tute in pile e strati esterni antivento. Nei nostri zaini abbiamo solo maglioni leggeri, guanti di ricambio e muffole. Con le lampade frontali attraversiamo la zona dei crepacci, e con il sorgere del sole siamo già sotto il nostro percorso. Tutto è a posto, come daprogramma: Pashka (ho molti soprannomi per il mio amico) è in testa e io sto seguendo. Questa procedura si è stabilita tra noi molto tempo fa e non mi dà fastidio. Sono in grado di fare da primo, ma sono più bravo a portare carichi pesanti e Pasha non ha eguali quando si tratta di arrampicare su tratti di misto. Questo muro non è un giocattolo, e per questo motivo ogni persona fa ciò che sa fare meglio.
A poco a poco la montagna si sveglia. Si libera dalla neve che si è accumulata durante la scorsa settimana e ci spolvera con gli spindrift. I nostri attrezzi e i ramponi ci tengono saldi sul ghiaccio e ci muoviamo rapidamente lungo il percorso pianificato. Il tempo è splendido e di buon umore corriamo verso l’alto. Siamo così impegnati che non ci accorgiamo che l’ora è tarda fino a che il sole non appare a destra del muro, ricordandoci che ci resta solo un’ora di luce. Non troviamo alcun buon posto prima del buio, così ora dobbiamo darci da fare con le piccozze per ritagliarci un terrazzino da poter bivaccare seduti. Terminato il lavoro, ci sediamo, ci copriamo nella tenda, iniziamo a sciogliere il ghiaccio e prepariamo la cena, che questa sera consiste in caviale rosso (non si scherza) con biscotti secchi e tè. Prima classe! Sotto, come una piccola stella, il nostro campo base brilla. Siamo a un’altitudine di 4800 metri. Siamo del tutto soddisfatti della mole di lavoro che abbiamo svolto. Solo una cosa ci irrita: non possiamo toglierci gli scarponi perché potrebbero cadere.
21 agosto
Il tempo è buono; alcune nuvole fluttuano nel cielo. Facciamo colazione e poi ci muoviamo. Sopra ci aspettano complicati tratti rocciosi. E ancora una volta i nostri attrezzi soddisfano: si aggrappano alle pareti rocciose ricoperte di neve, trovando prese invisibili. Arriva la sera. Pasha continua a salire e poi ancora a salire, e ancora non c’è un posto per la tendina. Comincio ad arrabbiarmi: “Quanti tiri vuoi ancora fare prima di capire che devi iniziare a cercare un bivacco due ore prima del tramonto? Si vede che la montagna non ci regala nulla! È ora di fermarsi e scavare un terrazzino”. Se si inizia in ritardo con la sistemazione per la notte, si inizia tardi il giorno successivo. Il corpo richiede una certa quantità di riposo. Finalmente troviamo un luogo adatto e in un’ora di calpestio sulla neve creiamo una piccola piattaforma.
Dentro ci togliamo gli scarponi con gioia. Dobbiamo lasciare che i nostri piedi si rilassino completamente e si rigenerino; altrimenti il congelamento è inevitabile. Prepariamo la cena e poi sprofondiamo nel sonno.
E all’improvviso, nel buio più completo, una valanga si scarica su di noi da chissà dove. Qualcosa di duro mi colpisce in testa. Questo è quasi un disastro. Ma, grazie a Dio, la tenda rimane in piedi e non ci sono danni visibili. Beviamo 50 millilitri di vodka per rilassarci e sederci per dormire. Ma per ogni evenienza, passiamo il resto della notte con i caschi in testa.
22 agosto
Al mattino scopriamo che la valanga ha spazzato via la nostra pala, che abbiamo lasciato fuori dalla tenda. Peccato: avevamo programmato di usarla come ancoraggio per la neve sui nevai superiori. Il tempo è bello e così, senza indugiare, ci mettiamo al lavoro. Pasha si dirige a un triangolo roccioso. Sembra che la parete rocciosa sia vicina, ma è solo un’illusione. Per raggiungerla ce n’è ancora un bel po’. Giunti a un diedro, scopriamo un pezzo di vecchia corda congelata nel ghiaccio. Evviva! Queste devono essere le corde della squadra di Myslovsky, pensiamo. Tali scoperte riscaldano sempre il cuore e rafforzano la propria fiducia. Pasha sale un tratto verticale con l’ausilio dei suoi attrezzi da ghiaccio, e mi sorprendo a pensare: “Questo è come il grande Mauro Bole, l’italiano con il soprannome di Bubu, elogiato in tutto il mondo per la sua bravura tecnica”.
“Le corde fisse sono pronte”, grida Pavlik inaspettatamente presto, e io mi attacco alla corda, sollevo l’odiato zaino e mi tiro verso l’alto. Dopo esserci consultati, decidiamo di fermarci presto per allestire il campo: dobbiamo conservare le nostre forze. Nonostante il vento montiamo velocemente la tenda e la rinforziamo con l’aiuto delle nostre piccozze. Raccogliamo un sacchetto di neve per preparare l’acqua, poi ci lasciamo andare in tenda. Il vento si fa più forte, ma la nostra casetta è calda e accogliente, il fornellino ronza, la cena sta cucinando. Finalmente possiamo toglierci gli scarponi. Quando si è sdraiata su un divano non si può essere così beati! Felici, sprofondiamo nel sonno.

23 agosto
Al mattino, guardando fuori dalla tenda, noto nuvole sottili nel cielo. In generale questo significa che il tempo sta cambiando. “Bene, va bene, il tempo lo dirà”, penso. Intanto ci prepariamo la colazione. E poi, l’ennesima sorpresa: il fornellino si rifiuta di funzionare. Questo è un problema! Cominciamo a considerare le nostre opzioni e non ce ne sono molte. Se non ripariamo il fornellino, dovremo scendere. Questo è sicuro. Avendo optato per la leggerezza, non abbiamo portato le pinze, e senza di esse è difficile smontare il fornellino. Ma, come si suol dire, “Se sei stato mangiato, ci sono almeno due vie d’uscita”. Con l’ausilio di una piccola lima ruotiamo l’iniettore del carburante del fornellino contro lo scrocco di un moschettone. Aprendolo, scopriamo che all’interno è caduto dello sporco. Non è chiaro come, ma i fatti sono fatti.
Dopo aver perso mezza giornata a riparare il fornellino, siamo partiti. Ad attenderci c’è il triangolo roccioso, nodo della parte inferiore della parete. Pasha prende il comando mentre io assicuro. Dopo tanti anni ormai sono abituato alla sensazione di aspettarmi un volo. È meraviglioso pensare che al leader spetti il compito più difficile, il che di solito è vero. Ma non mi affretterei a dividere il nostro lavoro in duro e facile. Prova a stare seduto immobile al vento e al freddo per alcune ore, visualizzando le azioni da compiere in caso di caduta del tuo capocordata. Da questo punto di vista è più facile arrampicare che essere costantemente in uno stato di tensione nervosa. Pasha arriva ad esaurire la corda senza alcuna protezione e il mio ancoraggio di sosta consiste in uno stopper. “Troppo poco per trattenere una caduta”, credo. La parete è coperta di neve e priva di fessure, come gran parte di questa parete nord del Khan Tengri. Il leader deve saper arrampicare con sicurezza con i suoi attrezzi da ghiaccio. E questo il mio partner me lo prova con chiarezza.
Sopra raggiungiamo altri nevai e per Pashka questo lavoro insicuro su neve a debole coesione è il più difficile. Durante la nostra ultima salita insieme ha avuto un cedimento di nervi e ho dovuto prendere il comando. Sarà interessante vedere come si comporterà questa volta. Sono pronto a prendere il suo posto, ma sarà meglio se padroneggerà se stesso e lavorerà. Passo dopo passo, superando lo spettacolo mutevole, ci dirigiamo lentamente verso una vicina crestina rocciosa. Nonostante la neve sia alta, non c’è pericolo di valanghe e guadagniamo terreno con regolarità, ora dopo ora, metro dopo metro. Ci spostiamo assieme per raggiungere in traversata un diedro fino a una piccola cresta. Davanti a noi ci sono le sheep’s brows, coperte di neve. Come al solito, verso sera il vento si fa più forte. Siamo fortunati: troviamo un posto tenda adatto, dove possiamo effettivamente sdraiarci.

24 agosto
Questo giorno è come il precedente, proprio come due gocce d’acqua. Le pareti di roccia rotta lasciano nuovamente il posto alla neve profonda e instabile. Dopo esserci dimenati in questa “farina”, esausti, arriviamo all’enorme piattaforma (2 m x 2) di sottili lastre di ardesia, che i soldati dell’Armata Rossa posarono durante la loro scalata nel 1988.
25 agosto
Il cielo è avvolto dalle nuvole; il tempo è decisamente peggiorato. Sentiamo la stanchezza che si è lentamente accumulata negli ultimi giorni. Gli scarponi di Pasha sono motivo di preoccupazione. Sebbene siano modelli avanzati, sono di una mezza taglia più piccola e le dita dei piedi sono schiacciate tutto il tempo. Saliamo su una striscia di neve all’altezza del “bicchiere di vino” e finalmente, evviva, raggiungiamo una fascia di roccia rossastra, l’obiettivo desiderato da un bel po’. Ci infiliamo in un camino verticale. Ripido, molto ripido. Pavel ci si impegna a lungo. Dall’alto, la neve e grandi pezzi di ghiaccio volano su di me. Li schivo come meglio posso. Quando è già completamente buio, sento: “Le corde fisse sono pronte”. Mi tiro su e vedo che, sotto uno strapiombo di roccia a forma di cupola alto un metro e mezzo, il mio Pavlik lavora un cumulo di neve. Alla luce delle nostre pile frontali, montiamo con difficoltà la tenda. È di nuovo un bivacco seduto, ma siamo grati. Tutto il resto è il solito: dobbiamo sciogliere la neve, preparare la cena, sederci a dormire nella posa dei monaci meditanti. Il vento ruggisce tutta la notte. Cosa ci sta portando?

26 agosto
Altitudine intorno ai 6350 metri. Il vento non si attenua. Molto freddo. Dopo
una notte del genere, si sta proprio odiosamente male. Pasha va avanti. Faccio assicurazione e mi preparo mentalmente a smantellare il nostro campo. E oggi non sarà facile: ci sono molti tratti orizzontali e nessun modo per evitare i pendoli. Salendo due tiri, tendiamo a destra. Mi sembra che Pasha sia fuori strada. Ma quando si imbatte in una scatola di zucchero vuota, incastrata per caso in una fessura, mi calmo.
Il tiro successivo è di categoria “super” e inizia in un camino che porta a una parete verticale di rocce rotte. Di solito, nei luoghi in cui la probabilità di una caduta è alta, Pasha mi raccomanda: “Occhio!” Ma invece ora procede senza esitazione. A me non resta altro che stargli dietro il più velocemente possibile. Di tanto in tanto Pasha si strofina le mani per riscaldarsi le dita congelate. È diventato sensibilmente più freddo; ora che siamo sopra il colle alla nostra destra, come ci aspettavamo, il vento è notevolmente più forte. Ovunque si guardi c’è vento che soffia. Ma abbiamo solo una via per tornare a casa: passa per la vetta. Siamo riusciti a salire troppo in alto per tornare indietro adesso.
Su una piccola cengia innevata scaviamo una piattaforma grande circa la metà del fondo della tenda e facciamo di questa la nostra piccola casa. Dentro la tenda, mi accorgo improvvisamente di tremare tutto. Oggi mi sono davvero congelato. Con apprensione guardo la nostra ultima bomboletta di gas; durerà solo un giorno, forse un giorno e mezzo. L’unica speranza è trovare ciò che avevamo nascosto in cima nel 2003. Anche Pavlik soffre il freddo; le sue dita sono notevolmente sbiancate. Si è beccato un congelamento? Voglio pensare positivamente. Dopotutto, abbiamo preso il Trental prima di venire quassù per migliorare la nostra circolazione. Sto diventando sempre più preoccupato per uno strano dolore allo stomaco. Non c’è niente da fare, devo sopportarlo. Fuori il vento sta guadagnando forza. Di solito dopo il tramonto si abbassa un po’, ma oggi sembra averlo dimenticato e soffia a tutta forza.

27 agosto
Fuori stanno soffiando venti di tempesta. In momenti del genere ci vuole più tempo del solito per prepararci a partire, come se dovessimo restare o aspettare. È già intorno a mezzogiorno (nella misura in cui possiamo dirlo al tatto, perché non abbiamo orologio e non c’è il sole) prima di strisciare fuori con riluttanza. La tempesta infuria intorno a noi. È un bene che ieri abbiamo fissato circa 20 metri di corda sopra al nostro bivacco. Pasha inizia a salire lentamente sulla corda fissa, mentre io disfo il campo. Il vento ulula come se fossimo in una galleria del vento, un urlo orribile tutto intorno a noi. Attraverso il vento mi raggiunge un suono: “Le corde fisse sono pro…”. Capisco che tocca a me. In un attimo i miei occhiali si incrostano di neve e sono cieco. Non c’è possibilità – e non ha senso – di pulirmi gli occhiali, quindi procedo alla cieca su per la corda. Comincio ad ansimare per riprendere fiato. Non c’è ossigeno: il vento lo sta portando via, lasciando il vuoto. Il mio cuore funziona come una mitragliatrice proprio al punto di surriscaldarsi e incepparsi. Cattivi pensieri si insinuano nella mia mente: “Probabilmente, è così che Salavat è morto sul Makalu – il suo cuore si è logorato”. Congedando questi stupidi pensieri, mi costringo a strisciare fino a Pavlik. È completamente congelato. Attraverso le grida del vento sento: “Montate la tenda, dobbiamo aspettare che si spenga”. Nutriamo ancora il debole barlume di speranza che la tempesta non durerà per sempre. Mi costringo a strisciare fino a Pavlik. È completamente congelato. Attraverso le grida del vento sento: “Monta la tenda, dobbiamo aspettare che molli questa bufera”. Nutriamo ancora il debole barlume di speranza che la tempesta non durerà per sempre.
Ci rannicchiamo insieme come minuscoli uccellini su una stretta cengia, seduti sui nostri zaini e riparandoci sotto la tenda. Per quanto tempo stiamo seduti lì, non lo so. Ci sembra un’eternità. Abbiamo perso da tempo la sensazione dei nostri piedi, come se fossero fatti di legno, e il vento non diminuisce per un secondo. Uno di noi, non ricordo chi, ha avuto una grande idea: scendere al posto di bivacco che avevamo appena lasciato. Con uno sforzo incredibile scendiamo e montiamo la tenda. Strisciandoci dentro, speriamo che tenga e che il vento non riesca a farla a pezzi. In qualche modo sciogliamo la neve e plachiamo sete e fame. Una scintilla del fornellino apre un buco nella parete della tenda, grande quanto un pugno, ma per fortuna non va oltre. Ancora una volta siamo stati fortunati! Passiamo la notte senza chiudere occhio.

28 agosto
Ascoltiamo attentamente il vento che ulula nella speranza di cogliere il minimo segnale di un miglioramento. A volte sembra che il vento stia calando e poi ci guardiamo: “Ebbene, cosa ne pensi, ce la faremo ad andare un po’ avanti, oggi?” Non possiamo ingannarci per molto tempo: il gas è quasi finito. Dobbiamo andare! La maggior parte del camino è stata scalata; ne resta solo un tratto. Tutt’intorno la tempesta di neve infuria ancora, ma a volte possiamo vedere il cielo azzurro attraverso uno squarcio tra le nuvole. Lentamente, passo dopo passo, Pavlik guadagna ritmo e finalmente terminiamo quel camino infinito. Un crinale ripido e roccioso si protende nel cielo e ci fa vedere quanto lunga sia ancora la strada verso la cima. Procediamo assieme in alcuni tratti, su altri no. La salita sembra interminabile, ma davanti possiamo vedere la vetta ricoperta da enormi e bianchi pennacchi di neve. Finalmente inciampiamo in una corda ausiliaria azzurra. “Evviva! Siamo nella parte superiore della via di Kuzmin. Abbiamo scalato il Muro!”.
In tenda cerchiamo di bruciare il gas residuo della nostra ultima bombola, ma invano. Mastichiamo un po’ di neve. Anche se siamo stanchi, per qualche motivo non riusciamo a dormire. Stiamo sdraiati e parliamo. Secondo il nostro programma, oggi è il giorno in cui avremmo dovuto evacuare il campo base… Se l’ultimo elicottero parte, allora avremo vita davvero dura. Impercettibilmente, la conversazione si sposta sull’argomento della nostra prossima spedizione al K2, confesso che non ho ancora deciso se prendere parte a questo progetto. Pasha, come se non mi ascoltasse, continua a parlare della bellezza della parete, dell’attrezzatura e del vestiario tecnico. Sprofondiamo nel sonno, ignorando le tribolazioni che ci aspettano. Il vento continua a ruggire, ma non ci interessa perché il Muro è stato scalato.
29 agosto
A colazione rosicchiamo dei biscotti secchi, che ci danno il bruciore di stomaco. Ma dobbiamo mangiare qualcosa. Oggi dobbiamo salire in vetta e scendere almeno fino al colle. Dobbiamo trovare il nostro nascondiglio con le bombole del gas, allora andrà tutto bene. Fuori è il vento forte di uragano, anche se il sole splende. Ci apprestiamo a uscire lentamente, molto lentamente. Dov’è finita la nostra forza? Dopo un’ora strisciamo fuori dalla neve profonda e approdiamo a una solida crosta di ghiaccio. Accanto a una linea di vecchie impronte c’è un limone. Gioia illimitata! Rompiamo questo esotico frutto congelato e lo dividiamo fraternamente. Nella nostra anima tutto è trasfigurato.
Davanti a noi si profila il treppiede, tanto atteso e familiare fino a far male. La cima! Qui dovrebbe essere il nostro nascondiglio. Camminiamo e guardiamo sotto ogni pietra. Ahimè, non c’è più nulla. Se solo potessimo trovare lo scalatore che si è preso le bombolette… Ci agganciamo alla corda fissa sulla via normale e scendiamo. A 6400 metri troviamo zucchero abbandonato, cracker, noci, due mele congelate e due cetrioli. Va bene, è già qualcosa. Ma con nostro grande dispiacere, non troviamo bombole di gas. Ci trasciniamo verso il basso. La nostra forza diminuisce continuamente. Percorriamo 100 metri e crolliamo nella neve, per poi spostarci nei successivi 100 metri. “Se solo qualcuno ci avesse aspettato”, gira e rigira nella mia mente. “Ancora un giorno e arriveremo”.
Raggiungiamo il colle intorno alle 15.00. Il sole splende brillante e il vento sta ruggendo. Gettando giù i nostri zaini, iniziamo a frugare nei sacchi della spazzatura che qualcuno ha lasciato al colle. Quattro contenitori! Sembrano vuoti, ma forse possiamo spremerci qualcosa. Cominciamo a montare la tenda, ma, proprio come abbiamo sempre temuto, una raffica di vento ci strappa la tenda dalle mani e la trasporta verso l’Inyl’chek settentrionale. Sono come paralizzato, immaginando come passeremo la notte in una grotta di neve poco profonda. Con una velocità incredibile, viste le sue condizioni, Pavlik corre nella neve alta dietro alla tendina e proprio quando questa sta per oltrepassare la cornice ne afferra un’estremità e cade nella neve. “Cornici!” è tutto quello che riesco a gridare. Pasha rimane a lungo sdraiato sulla neve, riprendendo conoscenza. Ma la tenda è saldamente stretta nella sua mano. Sopravviveremo!
I contenitori che abbiamo trovato risultano essere vuoti. Avete mai mangiato neve soffice? Non c’è alcun nutrimento. Per un’ora e mezza facciamo oscillare una padella con la neve, mescolando la neve con una specie di polverina proveniente da chissà dove che avevamo trovato nella spazzatura. E… miracolo! Dopo averla scossa, la neve diventa umida e ci godiamo un gelato piuttosto carino. Solo dopo aver mangiato tre ciotole di questa prelibatezza la nostra sete si calma un po’. Le dita di Pavlik sono nere e coperte di vesciche. Preparo un’iniezione di prednisolone. Non sentiamo più i piedi. Non possiamo sapere cosa c’è che non va in loro se non ci togliamo gli scarponi: siamo pronti a partire immediatamente, anche di notte, se solo il vento si placasse. Lo stomaco non mi dà pace; a quanto pare si è sviluppata un’ulcera. Sono costretto a prendere il ketorol, che allevia il dolore ai piedi e allo stomaco.
30 agosto
La mattina non porta alcun miglioramento del tempo. C’è vento forte e la visibilità è di soli 50 metri. Faccio un’altra iniezione di prednisolone a Pashka. Verso mezzogiorno si schiarisce e si parte. Lentamente saliamo sul Pik Chapaev, apparentemente senza fine. La montagna non vuole mollarci. La visibilità peggiora al punto che non riusciamo nemmeno a vedere le bandiere che segnano il percorso. Restiamo legati in caso di crepacci. Sprofondando fino alla cintola nella neve, e resistendo a raffiche di vento da uragano, saliamo fino a 6150 metri sulla spalla del Chapaev. Adesso è tutto in discesa. Buttiamo la nostra corda a brandelli e vado avanti io, tirando fuori le corde fisse dalla neve alta.
Lentamente scendiamo al campo 2 a 5600 metri. Sicuramente non c’è nessuno. Per gli standard del Tien Shan, è già l’inizio dell’inverno. E all’improvviso: “Pasha! Guarda! Una tenda, o mi sbaglio?”. Chiamo con voce rauca: “Ehi, di sotto, acqua, acqua!”.
Non beviamo niente da tre giorni. Nessuno risponde al mio grido. “Probabilmente qui non c’è nessuno”, penso. E poi una testa sporge dalla tenda.

Epilogo
Tutto quello che è successo a noi è già successo a tanti altri. Anche se non rifiutiamo ai giornalisti il diritto di usare definizioni entusiaste come “super-estremo”, “prima in assoluto”, “alta velocità” e così via, sono certo che i loro sforzi siano inutili. Non siamo saliti per questi motivi, anche solo perché nessun risultato può giustificare dita congelate e salute minata. Se qualcuno ti dice qualcosa di diverso, semplicemente non è sincero con te; anzi, non è sincero con se stesso.
Le persone spesso mi chiedono: “Quanto vieni pagato per le tue salite?” Si sono dimenticati che ci sono cose per cui non si può pagare, nemmeno per tanti soldi. Quanto costa la bontà? Quanto costa l’amicizia? Quanto costa l’amore? Rispondetemi, gente! Quanto costa la sensazione di felicità, quando sei in cima a una vetta? Non puoi comprare la felicità: arrivi alla felicità attraverso le perdite e le esperienze che la vita e le montagne ti danno. Gente: siate felici!

Sommario
Area: Tien Shan Range, Kirghizistan
Ascensione: Prima ascensione in cordata da due della parete nord del Khan Tengri 6995 m in stile alpino, tramite un collegamento della via Studenin, della via Myslovsky e il camino superiore della via Zacharov: Pavel Shabalin e Ilias Tukhvatullin, dal 20 al 29 agosto 2005, più un giorno e mezzo di discesa.
Una nota sull’autore
Ilias Tukhvatullin di Tashkent, Uzbekistan, ha scalato nuove vie sulle pareti nord dell’Ak-Su North e dell’Everest, così come la prima invernale della parete nord dell’Ak-Su North, tutte con Pavel Shabalin e vari partner.
(Nel pomeriggio del 7 ottobre 2012 il cinquantaquattrenne Tukhvatullin e il compagno di cordata cinquantunenne Ivan Lobanov, mentre stavano salendo dal campo 1 al campo 2 della via degli Olandesi all’Annapurna sono stati travolti da un’enorme valanga, NdR).
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Bel testo, me lo sono gustato. Da sempre ho una particolare predilezione per l’Asia centrale e relative montagne, che mi affascinano molto di più dei celebri 8000, triti e ritriti a livello editoriale e ormai scivolati a spiccioli obiettivi per “crociere” commerciali (vedasi relativi articoli).