Woo-Li Masters, Dance!
(in ricordo di Jim Bridwell e Mugs Stump)
di Mauro Penasa
(pubblicato su Annuario del CAAI 2019)
Nel 1981 arrampicavo da appena 2 anni, le mie esperienze erano poco più che nulle, così non facevo alcuna fatica a immergermi in ogni avventura con un entusiasmo e un’avidità tali che oggi ormai non posso fare a meno di invidiare.
Divoravo libri (tutti quei pochi che uscivano in quel periodo), riviste specializzate (allora in pratica solo la Rivista Mensile del CAI e la Rivista della Montagna) e stavo appena iniziando a consultare le pubblicazioni internazionali, in particolare quelle anglosassoni, che mi affascinavano per il loro modo di raccontare, ironico e diretto, meno di maniera, per quanto anche quella sia una maniera, di quanto fossimo abituati da noi.
Non ricordo bene quando mi capitò sotto il naso la storia della salita del Moose’s Tooth da parte di Jim Bridwell e Mugs Stump, ma mi è rimasta invece impressa l’immagine lugubre della parete, con le lisce placche striate da un velo sottile di ghiaccio e neve, e soprattutto il racconto dell’epica discesa su ancoraggi approssimativi a cui si erano dovuti affidare.
Era avventura, avventura allo stato puro, con una dose di rischio di cui non riuscivo minimamente capire la portata e che, per quanto me ne sia reso conto, nella mia limitata carriera non mi è mai capitato di avvicinare. Il fascino di quella salita, e ancor più di quei personaggi, non mi ha mai abbandonato. Ho incontrato Bridwell, insieme a Michael Kennedy e Jeff Lowe, durante il primo convegno di Mountain Wilderness a Biella, nel 1987. Ero uno del pochi a sapere l’inglese e mi affidarono la gestione di questo trio formidabile in una indimenticabile serata, passata in compagnia di personaggi che ho in qualche modo più volte incrociato negli anni.
Jim Bridwell ci ha lasciato all’inizio del 2018… è stato un personaggio così influente nella storia dell’alpinismo che non si poteva non pubblicare qualcosa sulle sue realizzazioni, o qualcuno degli scritti, da noi meno numerosi di quanto si possa pensare: Jim era un alpinista che, almeno finché in attività, prediligeva l’azione alla riflessione retrospettiva, senza peraltro tirarsi indietro quando si trattava di esprimere la sua idea su argomenti spinosi…
Come non si è tirato indietro davanti a nuove sfide fino all’ultimo. E che non ha avuto paura di ritornare sulla sua via al Moose’s Tooth 20 anni dopo per realizzarne un attacco diretto. Bridwell è certamente più conosciuto per le sue salite in Yosemite, dove ha davvero fatto la storia della scalata, sia in libera che poi in artificiale, con un numero importante di vie sempre più difficili. Ma se è vero che ha aperto la strada verso la moderna scalata New Age, la salita del Tooth sembra essere avvenuta secoli prima dell’avvento del misto moderno.
Misto e artificiale, ci deve essere un nesso logico che gli abbia consentito di esprimersi a quei livelli massimi. Credo che si tratti dell’abitudine alla marginalità. Ci siamo ormai affezionati all’idea che la scalata sia prodotto di allenamento estremo, ed in parte lo è, come Jim stesso ebbe a dire più volte. Ma la scalata degli anni ’80 su quelle grandi pareti di misto era da visionari: Mugs Stump sull’Emperor Face del Monte Robson, con la lunghezza chiave data M7-M8 da Steve House 30 anni dopo, ci ricorda dei nostri pionieri del VI grado, che superavano tratti estremi con protezioni ben diverse da quelle a cui siamo soliti oggi, molto prima che ci si rendesse conto dell’esistenza di quel tipo di difficoltà.
Questa è la vera avventura: un terreno sconosciuto da affrontare sul filo della propria abilità, una strada da percorrere fino in fondo, senza possibilità di scendere in corsa… Bridwell chiamò la via sul Moose’s Tooth The Dance of the Woo-Li Masters. Questo nome è molto più esplicito di quanto lo sia in fondo il racconto stesso, e non si tratta del fatto di eseguire una danza mentre si sale una parete. Wu-Li è un termine cinese che significa pressappoco “percorsi di energia”, altra definizione cinese per “fisica”. Ma dal momento che Wu ha un’infinità di altri significati, secondo come è pronunciato, la faccenda si complica notevolmente. Nelle sue principali accezioni, la traduzione va da “percorsi di energia” a “la mia strada”, a “nessuna via”, a “raccolgo le mie idee”, a “illuminazione”. Sembrano i capitoli del racconto di una spedizione o della biografia di uno scalatore – la cosa è alquanto intrigante.
La chiave di tutto non è quindi la danza sulla roccia, e non sono neanche i disegni che su di essa si tracciano, i percorsi di energia su una parete. È invece la parola “Maestro” a dare il senso più profondo di questa avventura. Qualunque cosa il Maestro faccia, lo fa con l’entusiasmo della prima volta. Questa è la vera sorgente della sua energia illimitata. Questo era vero per Jim e Mugs, e lo si vede chiaro nel loro infinito impegno espresso sulle pareti del mondo.
Mugs Stump cadde in un crepaccio nel 1992, mentre guidava una cordata sulla via normale del Denali. Banale, come capita talvolta. Se Einstein fosse stato uno scalatore difficilmente avrebbe detto “Dio non gioca a dadi con l’Universo”. Invece gli sarebbe successo tante volte di giocare a dadi lui stesso. Che senso avrebbe altrimenti riuscire un giorno a fare una doppia da un singolo stopper del 3 e un altro giorno vedersi spalancare un baratro sotto i piedi attraversando un “facile” pendio, come successe a Mugs? Ogni tanto bisogna tirare i dadi, poi va come deve andare.
Quando si inizia ad arrampicare è perché si cerca qualcosa. Non sappiamo esattamente cosa, ma solo che al momento buono saremo in grado di riconoscerla. E quando la troviamo ancora non sappiamo dire di cosa si tratti, ma solo che vogliamo trovarla di nuovo… Questi momenti superano la nostra capacità di comunicare col linguaggio… Si resta semplicemente senza parole… Quando incontrate un compagno di scalate col quale avete condiviso le ansie e rischi di una salita, non avete bisogno di dirgli nulla… bastano sguardi, sorrisi, e il piacere di stare vicini una volta di più.
Appena sotto la cima dello Sperone Nord del Mount Hunter, Mugs così rifletteva: “Pensavo a tutto ciò che avevo fatto per arrivare fin lì, non solo negli ultimi giorni di scalata, ma nei tanti anni passati sulle montagne. In qualche modo mi sentivo parte di una grande energia, un semplice gradino di una scala infinita, troppo grande per essere vista, ma solo da percepire nel vento della notte“. Woo-Li Master.
C’è molta trascendenza nello scalare montagne. Gli alpinisti non ne parlano tanto, non solo perché non sono abbastanza bravi con le parole, è che ciò fa parte del loro silenzio. Lo si capisce, semplicemente. Parlarne in pubblico è in qualche modo disdicevole. Trascendenza e morte, le due grandi entità sempre presenti in alpinismo: non se ne parla a meno che non si sia costretti a farlo…
The Dance of the Woo-Li Masters
(prima salita della parete est del Moose’s Tooth)
di Jim Bridwell
Traduzione di Mauro Penasa
Un jet… sì, ero sicuro che fosse un jet. Il suono era diverso dal ruggito delle valanghe che tuonavano da ogni parte intorno a noi. Chissà, forse andava a Oslo, o in qualche altro posto simile, lui sarebbe arrivato al mattino (o alla sera? – non riuscivo a immaginarlo, ma così sono i jet: non siete mai sicuri di che ora sia). I miei pensieri iniziarono a riflettere sulla relazione che c’è tra il tempo e la sua necessità nell’individuare un luogo, ma fui bruscamente interrotto dall’improvvisa consapevolezza che stavo guardando la nostra tenda, mille metri più in basso. La spaziosa cupola della North Face sembrava da qui un paradiso, mentre noi ci trovavamo in questo inferno… Che ci facevo in questo luogo spaventoso? Si trattava di scelta, caso o destino, o meglio era stata una combinazione di questi fattori che mi aveva portato a incontrare il compagno di questa salita, Mugs Stump?
Solo quattro mesi fa non ci conoscevamo affatto, quando ci incontrammo in un caffè all’aperto di Grindelwald. Bevevamo caffè forte e le sparavamo grosse sull’Eiger e su esperienze simili alla sua parete nord. Una tazza di caffè equivale più o meno ad un’ora di stronzate, e prima di aver finito la terza avevamo già trasferito i nostri discorsi alla parete est del Moose’s Tooth. Entrambi eravamo stati sconfitti da quella muraglia di 1500 metri, insieme a un gran numero di altri scalatori. Almeno eravamo in buona compagnia: calcolammo che la parete fosse stata tentata da almeno 10 cordate diverse, tutte molto competenti. Facemmo qualche piano per scalate future ma non per il Moose’s Tooth, ma così il destino entrò in gioco. All’inizio di marzo eravamo in volo verso la Great Gorge sul velivolo di Doug Geeting, ma al momento di esaminare il nostro obiettivo non riuscimmo neanche a riconoscerlo. Le condizioni erano davvero pessime, su qualunque lato della montagna che volevamo scalare: niente ghiaccio dove avevamo sperato, solo sottili vene di gelo poroso leggermente spolverate di nevischio, e strapiombi impiastrati di neve che pendeva incredibilmente dai tetti. Non erano solo brutte condizioni, erano disumane. Cosa avremmo mai potuto fare? Dovevamo trovare una soluzione velocemente – Doug era una brava persona, ma non ci avrebbe fatto volare lì intorno per sempre… Il Moose’s Tooth era vicino, così decidemmo di dargli un’occhiata. La parete est sembrava egualmente repulsiva, ma non potevamo pretendere troppo dalla pazienza di Doug. Dovevamo farcela andar bene: se quelle erano le nostre carte, con quelle avremmo dovuto giocare la partita.
L’atterraggio andò bene, ma liberare Geeting per il decollo richiese un po’ di scavo e qualche spinta. Mentre l’aereo si allontanava veloce rimanemmo affascinati dal grigio spettro che si ergeva davanti a noi. Al solo pensarci un brivido mi corse lungo la schiena, e tutto il mio coraggio si squagliò come neve al sole… Per fortuna la mia attenzione fu richiamata da cose più immediate, così mi misi a montare la tenda. Almeno la nostra casa sul ghiacciaio sarebbe stata di lusso, e l’orco al di sopra avrebbe dovuto aspettare una nostra ricognizione, quando fossimo riusciti a riprendere almeno parte del coraggio iniziale. Il giorno dopo era bello, e tanto freddo… in marzo l’Alaska non sente ancora il sole, lui passa ma non scalda. Ricordo le mani quasi ustionate nel toccare ii metallo del Cessna il giorno prima, e la stessa sensazione mi si riproponeva regolare nel mettere a fuoco il cannocchiale. La parete sembrava inespugnabile, e gli invasori armati solo di fionde… Però forse si poteva rispolverare la vecchia storia di Davide e Golia, e così decidemmo per una linea a destra dei nostri precedenti tentativi.
Simili vie tecniche in artificiale, orrendamente impiastrate di ghiaccio com’erano, sembravano fuori discussione. La nuova scelta percorreva un passaggio più pericoloso, ma era la sola ragionevolmente possibile. Un approccio leggero in stile alpino sarebbe stata la chiave.
Stavamo bluffando con in mano una semplice coppia, avremmo preso una tigre per la coda, che non puoi lasciare, sennò ti mangia. La prima metà della salita consisteva in colatoi e muri esposti alla caduta di slavine dall’intera montagna sovrastante, così se fosse arrivata una bufera mentre eravamo in parete una ritirata sarebbe stata un suicidio. La sola via di discesa era andare in cima: vincere o morire, a dirlo chiaro… Suonava ridicolo, ma era così. Anche la ritirata col tempo bello sarebbe stata molto difficile, ma mai saremmo tornati indietro in quel caso. A meno di non trovare qualcosa che non fossimo stati in grado di scalare. Il barometro salì ma la bufera arrivò lo stesso, infischiandosene… Poco male, avremmo avuto più tempo per ricaricarci e organizzare il materiale. La regola era “il minimo”: quattro giorni di cibo e combustibile potevano allungarsi a sei o sette. I nostri viveri erano austere razioni di frutta secca, caffè e zucchero, con un paio di buste di minestra. Anche il materiale da scalata era all’osso, avevamo tagliato il pesante kit da perforazione, e la seconda serie di friend, lasciando il minimo: 10 viti da ghiaccio, 15 chiodi da roccia, 6 nut, una serie di friend e l’essenziale per quanto riguarda gli hook. Pensavamo di ancorare le doppie soprattutto a spuntoni durante la discesa. Per calarci avevamo scelto una linea tecnica e veloce, si sperava non troppo veloce, lungo la parete rocciosa di 500 metri che portava al Couloir Est. Anche questo sarebbe stato un suicidio in una tempesta, dal momento che le colossali pareti da entrambi i lati del canale l’avrebbero battuto con letali ammassi di neve. Ma il Couloir portava dritto alla tenda, mentre il “Bataan Death March” lungo la Cresta Nord conduceva all’inospitale Ruth Amphiteater. Scegliemmo ciò che il fato ci avrebbe concesso.
Alla fine arrivò anche il cielo terso, ma il primo giorno lo passammo a prendere i tempi alle slavine e osservare la parete, cercando di carpire, grazie alla nostra illuminata intuizione, i segreti del suo ritmico pulsare. Passammo la notte a discutere se attendere un altro giorno, consumando gran quantità di whisky. Qualcosa dentro di me diceva di partire al mattino, forse era il whisky, ha davvero opinioni decise.
Finalmente d’accordo, al mattino arrancavamo verso la base della parete, piegati sotto i nostri sacchi e tutto l’armamentario che ci era attaccato. Non volevo darmi l’occasione di capire cosa stavo per fare fino a che non fosse stato troppo tardi. Senza bisogno di dirlo, Mugs partì davanti e a me non restò che spronarlo.
Un erto pendio di neve ci portò al “Cauldron”, un ripido e stretto canalino di 80 metri, che raccoglieva piccole slavine di polvere e le amplificava in un accecante torrente di gelata miseria. Ero inorridito ma anche impressionato da Mugs che conduceva su ghiaccio difficile a 75-85°, senza protezioni, attraverso ondate di neve polverosa, con uno zaino da 15 kg che gli consolava le spalle. Poi arrivò il mio turno e anche se speravo segretamente in un po’ di tregua, sapevo bene che mi sarebbe toccato quello che mi meritavo, in conseguenza della mia scelta, alla fine tutti i nodi vengono al pettine. Ero congelato quando arrivai in sosta, le dita legnose che lottavano con la macchina fotografica, cercando nel frattempo di dare corda. Dopo un altro tiro salimmo di conserva fino al primo traverso. C’era una profonda neve polverosa depositata su uno strato di zucchero inconsistente che copriva la roccia. Una situazione “graffiante”, a dir poco, con ancoraggi appena più che immaginari in sosta. Che fossimo da primi o da secondi, entrambi conducevamo in realtà la cordata, ognuno responsabile anche per la vita dell’altro. Nessun margine per errori. Il primo traverso risultò di tre lunghezze di corda e ci portò ad altri tre tiri di pendio ghiacciato, un vero spacca polpacci, poi a un altro traverso.
Questo era anche peggio del primo e ben più lungo. Al suo inizio udimmo un grido. Le nostre menti forse erano ancora un po’ annebbiate, ma non si trattava di una illusione alcolica. Alcuni alpinisti stavano risalendo in sci il Buckskin verso il Ruth Amphiteater, urlammo di rimando e continuammo. La scalata era molto delicata, un sottile strato di polvere copriva i tratti di ghiaccio e la ripida roccia. Le protezioni erano quasi assenti, anche in sosta. Scalavamo tratti di roccia a 60-65°, coperti da un palmo di neve: con mio gran dispiacere, questi tiri iniziavano spesso con 10 o 15 metri di traverso in discesa prima di diventare orizzontali o salire verso l’alto.
Verso la fine della giornata arrivammo ad un pendio di neve dove era appena possibile scavare una piccola piattaforma per dormire. Mugs fissò un tiro al di sopra, in modo da ancorarci più saldamente, così potemmo prepararci per il precario bivacco. North Face mi aveva fornito di un sacco realizzato con moderne tecnologie spaziali, da provare, e fui davvero felice che funzionasse proprio bene, lasciandomi bello al calduccio, nonostante la gelida temperatura, le slavinette di polvere e tutto il resto…
Il mattino fu estremamente rigido, così non osammo uscire dal nostro nido finché i raggi del sole non alimentarono le nostre speranze di vita. Il congelamento era il nostro illustre compagno di viaggio avessimo mai osato infrangere le regole della casa, così aggiustammo le nostre esigenze di conseguenza. Un ripido camino intasato di ghiaccio si innalzava davanti a noi e oltre la nostra visuale, e mise a dura prova la nostra abilità per il resto della giornata. Da sotto mi era sembrato lungo almeno cinque tiri, invece si rivelò di sette. Questo camino e la parete sommitale al di sopra avrebbero costituito la parte più difficile della via.
Tirai la prima di queste lunghezze, quella meno ripida, prima che il bianco nastro si drizzasse bruscamente tanto da ostruire i nostri sguardi ansiosi. Mugs attaccò veloce lo scivoloso camino a 80-85°. A tratti incontrava pance strapiombanti, che l’inverno freddo e secco aveva trasformato in graniglia porosa e inconsistente. Una lotta disperata aveva luogo in quei momenti: le picche diventavano inutili, ed eravamo costretti a scalare con i ramponi appoggiati su piccole rughe della roccia, usando chiodi traballanti come presa.
Molte volte dovetti usare le punte dei miei attrezzi a mo’ di ganci su piccole increspature, o incastrate nelle fessure come nut. Il martello “Forrest Saber” era particolarmente efficace e presto divenne di alto gradimento su questi tiri. L’assalto continuò tutto il giorno fino a che la luce iniziò ad affievolirsi. Cominciavo a sentirmi debole e in preda alla nausea per la mancanza di liquidi, dal momento che la razione giornaliera era stata meno di 6 tazze di acqua a testa. A queste temperature gli attrezzi cessano di funzionare come dovrebbero: il fornello era ormai un inutile fastidio che poteva bollire un po’ d’acqua solo dopo un’ora di fatiche per riscaldarlo il minimo necessario. Eravamo penetrati nella zona “disumana”, e ne stavamo pagando il prezzo.
Mugs aveva fissato l’ultimo tiro, e io pendolai oltre un pilastro fino a un breve pendio di ghiaccio a 65°, l’unico posto per un possibile bivacco. Riuscimmo a scavare una precaria piazzola dopo ore di piccozzate nel buio. Era quasi l’una di notte quando collassammo sfiniti nei nostri sacchipiuma. Il mattino del terzo giorno iniziò con una noiosa lotta per un po’ di liquidi, poi risalendo la fissa verso il punto raggiunto il giorno prima. Ghiaccio verticale ci aspettava al di sopra, e ancora una volta Mugs valorosamente affrontò la sfida. Condusse due tiri lungo il serpente di ghiaccio, poi uscì su un facile pendio di neve di 100 metri, che conduceva alla formidabile parete terminale. Anche col cannocchiale non eravamo stati in grado di carpire i segreti di questa sezione della scalata. La nostra intuizione ci portò verso destra, in un colatoio di ghiaccio e poi su una costola di neve. Sporsi la testa oltre l’angolo per trovarmi di fronte una ripida parete di roccia. Le sue sottili fessure erano corazzate di ghiaccio e mostravano il gelido spettro della difficoltà estrema.
Mi sporsi da un nut per il quale avevo appena ripulito il piazzamento, le mie mani coperte con guanti leggeri in cerca di increspature mentre le punte dei ramponi graffiavano le scaglie di granito. Superai in dülfer una ripida lama solo per trovarne la fine intasata dal ghiaccio. In una calma disperazione mi appesi a una mano, scavando il ghiaccio con il martello, cercando un sicuro appiglio. Attaccato a questa mensola di ghiaccio ripresi a respirare e guardai cercando una possibile linea sulla parete che avevo sopra di me. Decisi di muovermi verso destra in una nicchia, dove una scalata mista libera e artificiale mi portò a un punto dove fu possibile pendolare a sinistra, piantare la picca e salire ad una piccola cengia di ghiaccio. Misi qualche ancoraggio e tirai su Mugs. Era possibile vedere solo una parte del tiro successivo, ma le cose non sembravano promettenti. Mugs passò da movimenti su hook alla fragile sottigliezza del ghiaccio ripido: dopo dodici metri di “invidiabili” difficoltà, urlò verso di me che sopra era tutto liscio. Il cielo si stava coprendo e la neve iniziava a cadere. Ritornare sui nostri passi sarebbe stato disastroso, ci serviva un posto da bivacco e non ce n’era neanche uno per un lungo tratto sotto di noi. Dovevamo forzare il passaggio, ora e in fretta, poiché una notte passata appesi ed esposti sarebbe stata devastante per i nostri corpi deboli e disidratati. “Sei sicuro che non ci sia un qualche modo?” chiesi io, “Fammi dare un’occhiata bene, devo risolvere la cosa” rispose lui. Mugs si muoveva solo di tanto in tanto, ma qualche progresso c’era.
Cosa stava facendo? Potevo solo immaginarmi il peggio. Dall’alto mi chiese il friend n°3, così lo tolsi dall’ancoraggio di sosta e glielo mandai. Ero su staffe appeso a uno striminzito spuntone di roccia, a continuare la mia gelida attesa. Il friend finì in uno svaso, poi un hook, poi una lametta dietro una scaglia da 5 mm, ma la cosa sembrava funzionare. Ancora numerosi altri movimenti di artificiale, e dopo due ore di scalata stressante Mugs raggiunse una lingua di ghiaccio che portava a terreno più facile.
Risalii in un fiato alla sosta e iniziai il tiro successivo il più velocemente possibile. Era già tardi e dovevamo trovare in fretta un posto per bivaccare. Ora la neve scendeva copiosa, e slavine di polvere cadevano su di noi con crescente puntualità. La scalata era aleatoria: superai in traverso una placca coperta da 10 centimetri di neve. Avevo sperato che ci sarebbe stato ghiaccio, ma non ero stato fortunato. Allargai i piedi come un’anatra per aumentare al massimo l’area di appoggio. Non riuscivo a credere che tenessero: era come scalare un tetto di ardesia coperto di neve.
Passato questo tratto raggiunsi una depressione piena di ghiaccio durissimo. A questo punto stavo davvero male. Mugs arrivò in tempo a vedermi crollare definitivamente, debole e in preda alla nausea per la disidratazione. Tirò le successive due lunghezze di ripida scalata mista, ma questo era il massimo che potessi salire anche da secondo. Era buio e dovetti usare la mia frontale per arrivare all’ultima sosta, ma avevamo raggiunto un posto dove scavare una truna. Un dono dal cielo! Dopo due ore la truna era finita e iniziammo a preparare tè e caffè, due delle peggiori bevande in caso di disidratazione. Alle 1.30 collassammo nei nostri sacchi, al sicuro dalla tempesta.
La vita tornò lentamente il mattino successivo. Dal mio posto privilegiato vicino all’ingresso della truna potevo vedere che la bufera stava passando, ma mantenni il segreto con Mugs, volevo riposarmi ancora un po’. Presto però il sole fece capolino nella truna, e non fu più possibile nascondere che il tempo era tornato stupendo. Sgattaiolammo fuori dal nostro rifugio e iniziammo a scalare verso le 11.30. Le difficoltà erano soprattutto nel trovare la via, prendere la strada più facile ma non necessariamente la più ovvia è un talento che nasce dall’esperienza, ma molto spesso è anche questione di fortuna. Fummo fortunati e per le 15.30 eravamo in cima al Tooth.
Il nostro punto di osservazione era spettacolare, presi una foto dietro l’altra fino a che due rullini finirono senza che me ne accorgessi. Presto arrivarono le 16.30 e Mugs chiese timidamente se avevo voglia di iniziare la discesa. Il tempo era bello in ogni direzione. Era anche alquanto tardi e io ero stanco, in più dentro di me avevo strani presentimenti sulla discesa, in realtà ci pensavo da molto tempo. In risposta a Mugs dissi un secco no. Mi figuravo ogni possibile disavventura ad attenderci, così volevo un intero giorno per gestire tutte le eventualità. Sorvolai sulle mie paure, offrendo un’altra spiegazione: la discesa sarebbe stata tecnica e potenzialmente difficile, così dovevamo darci un intero giorno, dal momento che non ci sarebbe stato posto dove fermarci una volta iniziata. Ci trovammo d’accordo, e ci ributtammo nella fotografia. L’oscurità arrivò furtiva sulla montagna, mentre il fornello riusciva a produrre due invidiabili tazze di tè caldo senza zucchero. I nostri rifornimenti erano quasi terminati, così scendere diventava una ancor più urgente necessità. Infine sprofondammo nel nostro loculo, mentre il freddo aumentava sempre più. La temperatura scese a -35°C quella notte, e il vento continuò a soffiare, in attesa di qualche brandello della nostra pelle nuda, al mattino. Fu davvero complicato fare i sacchi e prepararci a scendere. Tutti i nostri arnesi smisero di funzionare, un’altra delle meravigliose proprietà della zona disumana. Ma il fornello riuscì a prepararci un’intera tazza di acqua fredda a testa prima di morire definitivamente.
Cominciammo a scendere un pendio di neve, poi a far doppie tra neve e fasce rocciose. Una calata dopo l’altra, la neve scomparve, lasciando posto alla nuda roccia a scaglie, il tipo per cui il Moose’s Tooth è tanto famoso. Friabile e marcia, la parete diventò via via più ripida, scomparendo sotto di noi, e impedendoci di capire dove stavamo andando e cosa avremmo dovuto affrontare più in basso. Continuai a piegare verso sinistra, perché il Couloir arrivava da quella direzione. La roccia stava diventando compatta, priva di fessure, anche se c’era ancora qualche crosta di instabili lame marce. L’allarme si accese nella mia mente, attivando il mio intero essere in modalità sopravvivenza. Mentre mi calavo passai un tetto, traversai in tensione a una grossa lama che formava una sorta di cengia, piantai due chiodi nel terriccio compresso dietro di questa, e iniziai a pensare alla prossima mossa.
Guardando giù non vedevo nulla verso cui ci si potesse calare. Avrei voluto avere il perforatore, Mugs voleva portarlo ma io avevo insistito che non sarebbe stato necessario, e poi era troppo pesante. Stile alpino, capite, troppo peso, contate ogni fiammifero, e tutti quei bei discorsi. La mia mente correva in ogni direzione senza sosta, come quella di un gatto stretto in un angolo da cani rabbiosi. Il concetto di frenesia descrive bene il mio stato d’animo.
Come un computer presi la decisione e urlai istruzioni a Mugs. Gli chiesi di fissare una corda alla sosta e di mandarmi l’altra, in modo da darmi la possibilità di verificare bene la situazione. Se non avessi trovato nulla sarei stato costretto a risalire 90 metri fino a Mugs, poi avremmo dovuto scalare quanto avevamo sceso fino ad allora, dieci lunghezze a dir poco, per tornare in cima e cercare una discesa alternativa. Era una prospettiva devastante, che ci avrebbe richiesto il resto della giornata e parte di quella seguente. Traversai in tensione verso sinistra, poi salii un po’ ancora a sinistra, con i ramponi che graffiavano il granito marcio in cerca di piccoli appoggi.
Misi uno stopper del 3 nell’unico posto possibile, moschettonai e ripresi la calata. Verso la fine della corda una piccola lama solitaria apparve. Mi fermai a guardarla, appeso alla corda, mentre una triste, dolce sinfonia di emozioni mi invadeva. Rimasi immobile, con la visione delle persone che amavo o che avrei dovuto amare. Sarà un luogo comune, ma è triste che non si apprezzino mai abbastanza le meravigliose consuetudini della vita, come il semplice salutare, o lavare i piatti, su cui passiamo sopra senza prestarci la minima attenzione. Non sentiamo davvero bisogno di acqua finché il nostro pozzo non resta a secco. Questi pensieri affollavano la mia mente quando emersi lentamente dal sogno, realizzando che era proprio questo che in California chiamiamo “una situazione seria”. La mia intuizione era stata corretta: eravamo alla fine del dramma. Guardai su e vidi le nuvole che si addensavano nel cielo, poi cominciai a risalire la corda, lanciando un’ultima occhiata alla lama. Arrivato al nut staccai la corda, pendolai a destra e continuai fino agli ancoraggi. Urlai a Mugs di scendere: lo svegliai, nel frattempo si era addormentato, tanta era l’eccitazione. Si può ben dire che ci fosse incertezza nella mia voce. Quando mi raggiunse gli spiegai la situazione prima di recuperare la doppia, in modo da condividere questa decisione critica. Una volta tirata la corda non avremmo avuto scelta. A velocizzare le cose, Mugs aveva il giusto atteggiamento di appoggio alla mia confidenza, accettando in genere ogni mio piano d’azione, qualunque cosa avessi proposto.
Era il momento di giocarsela: un giro di dadi, una volta per tutte. Dissi una preghiera e iniziai a scendere. Ripercorrendo il traverso raggiunsi lo stopper e feci scendere Mugs alla ridicola sosta. Esaminò velocemente l’ancoraggio, poi mi guardò con meraviglia incrinata dal dubbio. Scossi le spalle e dissi “Questo è…”.
Il cuore mi batteva forte in gola durante i successivi 45 metri di calata, fino a che non riuscii a piazzare un friend n°1 dietro alla piccola lama che avevo visto. Misi un altro nut, mentre Mugs scendeva la doppia: più tardi mi disse che stava per staccarsi dalla sosta, ma poi si era reso conto che una morte sbrigativa era più attraente di un’inevitabile e lenta agonia.
A metà calata resi grazie al Creatore misericordioso. Perché, meraviglia delle meraviglie, le corde raggiungevano una rampa coperta di neve. La gelida stretta della morte iniziò ad allentarsi mentre una nuova serenità prendeva pian piano possesso della mia anima agitata.
La discesa divenne routine, e nel giro di due ore stavamo galoppando nella neve profonda verso la sicurezza della tenda. Tutto era ghiacciato. Subito accendemmo il fornello, e iniziammo a preparare litri e litri di bevanda calda. Ridemmo e scherzammo fino a tardi quella notte. Avevamo vissuto cinque giorni di esperienza molto intensa, e ci voleva un po’ di tempo per digerirla. Avevamo giocato e dal mazzo avevamo estratto degli assi. Ma alla fine collassai, come paralizzato; appena prima essere vinto dal sonno mi vennero in mente le parole memorabili dell’alpinista francese Jean Afanasieff: “Questa è la fottuta vita, no?”.
7
No no, io di ammenicoli ne ho pochi e tutto il tempo necessario me lo prendo. Addirittura faccio come si faceva un tempo: porto su un po’ di roba, la nascondo e torno una o due settimane dopo con il resto che serve.
E racconti come questo appena letto me li sogno lentamente.
Sicuramente bello perché nello stile totalizzante di Bridwell. Ho conosciuto abbastanza Jim da poter dire che la sua forza stava nell’intraprendere azioni senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Era uno che eventuali problemi li avrebbe risolti man mano che si sarebbero presentati. Interpretare come “un’ora di stronzate” il bersi un caffè in compagnia, la dice lunga sulle sua capacità di relax. A parte la superiore dose di caffè all’americana, per noi bere un caffè è sinonimo di mancanza di tempo. Le “stronzate” semmai vengono discusse durante una cena. Ma questa non è una differenza razziale tra americani e europei, è semmai un’attitudine che hai, oppure no. Noi alpinisti (io no, eh?!) del terzo millennio pieni di ammennicoli costosi e luccicanti, siamo ormai per la toccata e fuga. La new age (oggi: old age) dell’alpinismo è roba lenta anche quando era leggera e veloce, ma maledettamente piena di incertezza. Di avventura, appunto.
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Ai piedi del Cerro Torre, dove una volta si faceva il campo base a Laguna Torre, il posto si chiamava Campo Bridwell. Poi negli anno ’90 dei burocrati ruffiani dell’alpinismo lo ribattezzarono Campo De Agostini. L’incredibile esploratore salesiano non poteva più dire nulla da decenni e quindi nessuno obiettò. Io e pochi altri, continuiamo a chiamarlo Campo Bridwell, ma lo facciamo tra di noi, perché se lo diciamo con altri che non sanno, non riusciamo a capirci.