Turchia, le mie assurde prigioni

Su repubblica.it del 21 marzo 2016 appariva questa notizia: “Una cittadina italiana è stata fermata sabato sera dalla polizia turca in un internet café di Istanbul. E’ accusata di aver pubblicato sui social network materiale di propaganda a favore del Pkk, il movimento militante filo-curdo considerato da Ankara un’organizzazione terroristica. Lo confermano all’Ansa fonti del consolato che stanno seguendo il caso. […]”.

La vicenda è stata gestita con molta prudenza dalle varie parti in causa, dunque ha avuto un lieto fine e dopo cinque giorni di detenzione la ragazza ha potuto tornare a a casa sua in Italia.

Turchia, le mie assurde prigioni di X Y
Avevo comprato il biglietto aereo per Istanbul mesi prima ma, anche se per la Turchia il momento era di grande tensione, continuavo a essere contenta della scelta. A Sultanhamet, tuttavia, trovai un’atmosfera così pesante da farmi dubitare che mi sarei fermata a lungo. Scelsi a caso un hotel e confermai due notti, pensando di riposare solo il giorno seguente, e poi ripartire, magari per un giro in Europa. La mattina dopo, però, seppi dell’attentato di Taksim. Mi collegai a internet per tranquillizzare i miei e condivisi su Facebook la notizia e il disappunto per essere lì in un momento poco opportuno. Mi sentivo vicina alla popolazione di Istanbul, ma ero anche spaventata: volevo andare via. Comprai per il mattino seguente un volo per Berlino: la destinazione europea più economica. Quando rientrai in albergo, tuttavia, trovai tre uomini in borghese che mi attendevano e che avevano sguardi poco rassicuranti: mi mostrarono una mia foto scattata in montagna in Italia mentre indossavo un foulard curdo e mi accusarono di fare propaganda ai “terroristi” di Ypg e Ypj. Cosa c’entrava la lotta di liberazione del Rojava? Avevo sempre pensato che per loro il problema fossero i curdi in Turchia, piuttosto che il Pkk. A posteriori mi sono fatta l’idea che i medesimi, essendo praticamente privi di appoggi internazionali e in particolare europei, vengano considerati i meno pericolosi.

È vero, avevo condiviso molti articoli di giornale sulla questione curda, ma in Italia. E cose scritte spesso da giornalisti italiani o europei. Cose normali. Cose normali in Europa. Mi spaventai molto ma insistei su questo e sul fatto che non ero niente di più che una studentessa e una turista e stavo per andarmene, come dimostrava il mio biglietto aereo per Berlino che gli mostrai. Dopodiché decisi di stare zitta e non aggiungere altro. I tre uomini parlarono tra loro e fecero diverse telefonate. Il padrone dell’albergo mi fece da interprete e mi spiegò che stavano chiamando i loro superiori per sapere se portarmi via o lasciarmi lì. Alla fine se ne andarono. Salii in camera ma quando scesi di nuovo i tre erano ancora lì. Questa volta mi fecero pagare il conto, prendere le mie cose, che sequestrarono, e salire su una macchina priva di qualsiasi insegna della polizia.

Avevo conservato il cellulare e scrissi di nascosto alla mia famiglia di essere stata prelevata, nel migliore dei casi dalla polizia turca, e di mandarmi subito il numero del consolato italiano. Chiamai il consolato e constatai con un certo sollievo che erano già informati di quanto mi stava accadendo, probabilmente per iniziativa della mia famiglia. Arrivati al “Karakol”, una sorta di commissariato, mi tolsero le ultime cose, lacci delle scarpe e telefono compresi, per poi chiudermi in una stanza. Avrei voluto chiamare di nuovo il consolato ma non mi fu consentito, nessuno parlava inglese e nessuno mi diceva nulla. Mi fecero poi parlare con un avvocato al quale ripetei ancora di essere una studentessa, una turista, e che quei post sui social media li avevo condivisi in Italia e che in Turchia non avevo fatto nulla. L’avvocato mi consigliò di ripetere le medesime cose alla polizia, che sarei stata espulsa e che la procedura era già stata avviata. Fui poi spedita in cella, con un’altra ragazza rannicchiata per terra in un angolo, luci violente sempre accese, e un rumore continuo e assordante come di un generatore. Ottenni a fatica una coperta, da mettere tra me e il pavimento. Fu una notte infernale. Ero talmente arrabbiata da non provare neanche paura, ma l’indomani ero svuotata e cominciai a sentirmi spaventosamente in trappola.

La mia compagna di cella era una ragazza di colore, mulatta, una “leonessa” eritrea, lunghi occhi felini e capelli crespi sotto un bell’hijab turchese. Al mattino mi disse: “Good morning”, parlava inglese. Non bevevo e non mangiavo dal giorno prima e non avevo niente, lei mi offrì da mangiare e da bere, visto che, come mi spiegò, era possibile averli solo se parenti o amici te li portavano. Cercò di confortarmi con parole gentili e cantò persino con me “Fratelli d’Italia” e “Fischia il vento”… quest’ultima le piacque molto. Le ore non passavano mai, a volte contavo i secondi, quando arrivavo ad aver contato 10 volte sessanta mi convincevo che in effetti il tempo stesse passando. Si presentò anche un giovane con lo sguardo beffardo, che camminava avanti e indietro al di là delle sbarre. In inglese mi disse che Ypg e Ypj erano gruppi terroristi, che uccidevano i bambini e che il Rojava era il covo degli integralisti. Sembrava sfidarmi e provocarmi nella speranza che dicessi parole di troppo. Ero arrabbiata, ma non dissi una parola. La mia compagna eritrea mi raccontò che aveva perso tutto perché la polizia le aveva chiuso il bar in cui aveva investito ogni cosa e ora doveva tornare in Eritrea, senza più niente. Osservò poi che quasi sicuramente sarebbero bastati 50 dollari sottobanco perché la lasciassero in pace. Nel pomeriggio arrivarono due ragazze ugandesi. Anche a loro i parenti portarono da mangiare, da bere, coperte e vestiti. Erano simpatiche e socievoli, ci facemmo coraggio a vicenda e apprezzai il valore della solidarietà con le mie compagne di sventura. Anche la seconda notte fu tremenda, eravamo strette una contro l’altra, per terra, l’aria era pesante, la luce accecante e ci agitavamo di continuo.

La mattina dopo non sapevamo ancora nulla del nostro destino, io meno di tutte. Nel pomeriggio, ci presero, ci ammanettarono e ci portarono da una parte all’altra di Istanbul guidando come folli per l’espletazione delle pratiche burocratiche e sanitarie, infine al Centro di espulsione. Non capivo nulla delle procedure, lasciavo che le cose accadessero, nessuno parlava inglese e tutti gridavano. Ma ero tranquillizzata dalla presenza delle mie nuove amiche. Regalai a ciascuna di loro uno dei miei quattro braccialetti, tutti uguali. Splendevano sulla loro pelle scura, le chiamai “my sisters in jail”. Giunti al Centro, la procedura per le mie compagne fu sbrigativa, mentre nel mio caso intervennero in molti e mi osservarono con odio e disprezzo. Temo che il mio sguardo tradisse ostilità. Poi mi portarono in uno stanzino dove potei finalmente incontrare i funzionari del consolato, i quali mi informarono che ero accusata di “propaganda terroristica in Turchia” e che la polizia sosteneva di avermi arrestato in flagrante in un Internet Cafè. Spiegai loro che l’accusa era falsa: non avevo fatto assolutamente nulla in Turchia! E che anche il fatto che mi avessero preso in un internet cafè era una bugia. Mi spiegarono che purtroppo per la mia espulsione dovevo attendere l’autorizzazione da Ankara. Ma mi tranquillizzarono e mi raccomandarono di mantenere la calma e di non avere paura. Furono umani, gentili e incoraggianti. I poliziotti trattennero ancora le mie cose tranne i soldi e mi spinsero al di là di una porta blindata.

Mi trovai in un largo corridoio piastrellato cosparso di bollitori elettrici per terra e su cui si aprivano alcune camerate e dei bagni. Tutte le finestre erano oscurate da spesse grate. Non bevevo dal mattino e avevo sete, ma quando bussai alle secondine, chiedendo “su”, acqua in turco, mi risposero solo “shop closed”. Fui ancora soccorsa dalla mia compagna di cella eritrea che aveva conservato un po’ d’acqua.

Finii seduta in terra a fianco di una signora con grandi occhi verdi: non parlava inglese, ma mi offrì una sigaretta e si spiegò a gesti e con poche parole. Fathma era siriana, ma abitava da anni in Turchia. Era stata arrestata in una discoteca: la polizia porta in prigione tutte le donne che trova nelle discoteche! Venne il turno di Noah, marocchina: la famiglia del suo ragazzo turco aveva pagato i poliziotti per arrestarla e spezzato le gambe al figlio per evitare che andasse a cercarla! Accomunate dall’arrabbiatura e grazie alla sua travolgente simpatia legammo subito: parlava l’inglese e l’arabo e mi aiutò molto a comunicare con le altre detenute e in particolare con il gruppo delle arabe.

Due volte al giorno, a orari casuali, apriva il negozio dove comprare da bere e mangiare, le schede per telefonare dai telefoni interni e le agognate sigarette. A pranzo e a cena invece distribuivano degli alimenti precotti in contenitori di plastica e uno yogurt. Ma al momento della distribuzione le secondine erano restie a consegnare la razione prevista anche alle ragazze non musulmane e senza l’aiuto di Noah probabilmente non avrei avuto nulla. Quella sera però era tardi per il negozio, una ragazza mi prestò una scheda e finalmente riuscii a chiamare casa. La voce di mamma era tesa, ma mi trasmise ugualmente forza: non la dimenticherò mai. Papà mi disse di stare tranquilla che mi avrebbero tirata fuori. Di essere forte. Promisi che avrei tenuto duro. Quella notte finalmente dormii su dei materassi e riuscii a riposare. Il mattino seguente mi lavai e dopo un po’ di insistenze riuscii a ottenere dalle secondine dei vestiti di ricambio dal mio zaino. Compresi l’ora e mezza di beauty session delle ragazze siriane della sera prima: si pettinavano, si truccavano, indossavano gioielli, si pavoneggiavano. Ti fa sentire molto meglio. Comprai sigarette, carte telefoniche e qualcosa da mangiare, ma soprattutto molto da bere, acqua e succo di frutta. Non mancai neanche i 10 minuti d’aria. Stavo sempre vicina a Noah e a tutto il gruppo delle arabe, ormai eravamo complici. Ascoltai ancora storie terribili e pensavo alla fortuna di essere italiana, europea. Molte delle ragazze non avevano neanche più un Paese al quale tornare. Una ragazza siriana aveva perso i fratelli e la famiglia. C’era una curda di Qamishlo: le dissi le poche frasi che so in curdo e cantai una canzone sul suo Paese. Un’altra ragazza aveva con sé la nonna malata, alla quale avevano portato via le medicine e soffriva e si teneva sempre il ventre con la mano. Un’altra ragazza raccontò che l’avevano presa in aeroporto mentre stava tornando in Danimarca, insieme a suo marito e suo figlio, cittadini danesi: le era scaduto il visto danese mentre era in Turchia. Ma che cosa c’entra la Turchia con i visti danesi? Tutte parlavamo e fumavano, le stanze erano piene di fumo che usciva a fatica dalle finestre accecate dalle grate. I bambini tossivano in continuazione. Alcuni erano piccolissimi, ancora allattati al seno. Le ragazze dissero che nessuno aveva visto un medico e che alla richiesta di farmaci ne veniva consegnato solo uno sfuso, sempre lo stesso, per qualsiasi problema.

Nel pomeriggio del secondo giorno mi chiamarono in un ufficio e mi dissero che sarei potuta partire e che dovevo comprare il volo. Se pagavo in contanti l’espulsione sarebbe stata veloce, mentre con altri sistemi di pagamento avrei dovuto aspettare. Pagai 250 euro e mi venne detto che il volo sarebbe stato quello delle 21.00 e che l’aereo sarebbe atterrato a Malpensa. In contanti mi rimanevano ancora 50 euro e 300 lire turche. Restare senza soldi mi spaventava, visto che lì dentro erano la cosa più importante, ma non potevo fare altro che fidarmi. Regalai alle mie amiche 150 lire turche, le carte telefoniche, le sigarette e tutto quello che avevo comprato là dentro, ma trattenni il resto del denaro per sicurezza. Alla fine di un’attesa che mi parve interminabile, alle 18, mi chiamarono , le ragazze si misero a urlare e battere le mani per festeggiare la mia partenza. Meravigliose! Poi, però, in ufficio mi dissero che c’era un problema. Mi spiegarono in un pessimo inglese che il mio caso era complicato, che mancava la firma di Ankara, che il terrorismo è un’accusa grave, che avrei dovuto aspettare fino al mattino seguente quando, forse, la firma sarebbe arrivata. Fu una vera doccia fredda.

Dopo un’ora però mi riportarono di fronte al solito funzionario che mi fece vedere un foglio con gli orari del volo e la firma che serviva. Sborsai altri 50 euro e 100 lire turche per il cambio del volo. Mi rimanevano 100 lire. Avrei voluto regalarle ma temevo un altro rinvio. Altre richieste di denaro. Non volevo illudermi. Un’altra delusione sarebbe stata intollerabile e quella sera per scaramanzia salutai le ragazze senza dire nulla. La mattina dopo mi chiamarono alle cinque. Mandai un bacio col pensiero a tutte senza disturbare il loro sonno. I funzionari turchi mi diedero le mie cose, ad eccezione del telefono, poi le due secondine mi chiesero di fare loro un ritratto. La sera prima avevo disegnato una sirena e una fatina per una bambina e ora mi facevano questa assurda richiesta! Le accontentai. Impegnandomi pure. Situazione surreale.

Alle 6.15 mi fecero salire su un furgoncino. Ero preoccupata, senza telefono, con il mio zaino, ma senza documenti. Dopo 45 minuti di viaggio mi portarono in un’altra prigione. Odiavo le sbarre, non le volevo più vedere e capivo che la mia testa era debole, non ero lucida. Dovevo ancora aspettare: contavo i secondi, i minuti, tutto era fermo, oscuro e opaco. Aspettare. Finalmente mi vennero a prendere e mi portarono all’aeroporto. Ma ancora non riuscivo a essere tranquilla. Continuavo a pensare che per un motivo qualsiasi avrebbero potuto trattenermi ulteriormente. Non volevo tranquillizzarmi, volevo rimanere vigile fino alla fine. Fino a quando non fossi salita su quel dannato aereo e fino a che non fosse decollato. Ero sempre piantonata: il controllo documenti fu eterno, cercavo di decifrare le espressioni dei volti mentre osservavo i movimenti del mio passaporto. Arrivarono le 10.20. Pensavo: ancora un’ora e ti faranno salire su quell’aereo. Ero esausta, volevo tornare a casa, volevo solo andare via. Mi accompagnarono alla navetta, mi diedero documenti e telefono e se ne andarono. Piansi e mandai un messaggio ai miei genitori. Sull’aereo ero ancora molto tesa, le gambe mi tremavano: pensai che avrebbero ancora potuto riportarmi indietro. Quando l’aereo decollò, chiusi gli occhi, sentii tutto quanto scendere dalla testa ai piedi, piansi ancora accasciandomi sulla poltrona. Appena in Italia, vennero la gioia, gli abbracci, la commozione, il ritorno alla normalità. Ma anche, sempre più prepotente, il ricordo dei volti delle ragazze. Io ero a casa mentre loro erano ancora là e non potevo fare nulla. Non potevo condividere con loro nessuna delle mie comodità quotidiane. Pensai ancora alla mia fortuna, al mio Paese, e a quello che mi sarebbe potuto accadere se non fossi stata europea e con un consolato e un ministero degli Esteri così efficiente, rapido e influente. Mi sentivo in colpa di essere una salvata e non una sommersa. E continuo a pensare alla Turchia, una nazione che pare sprofondare in una dittatura, che blocca l’informazione, arresta gli intellettuali, nega la libertà di espressione, tollera razzismo e discriminazione etnica. Un Paese dove il genocidio degli armeni è stato rimosso e quello dei curdi continua a essere perpetrato. Un Paese che è stato laico, ma che sta conoscendo una deriva verso l’integralismo e il rischio di condividere il sogno del Califfato con i terroristi dell’Isis.

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Turchia, le mie assurde prigioni ultima modifica: 2016-04-21T12:46:00+02:00 da GognaBlog

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