Christophe Clivaz, docente presso l’università di Losanna: «Mantenere le piste da sci costerà sempre di più: meglio investire sulla transizione».
Disuguaglianze in pista: «Il clima renderà lo sci uno sport da ultraricchi»
Turismo bianco, futuro nero – 4 (4-17)
di Andrea Barolini
(pubblicato su valori.it il 24 febbraio 2020)
«No a fughe in avanti» e a strategie di sviluppo e d’investimento che assomigliano a «corse agli armamenti». Il modello tradizionale di business delle stazioni sciistiche sarà costretto a fare i conti con i cambiamenti climatici. E benché l’impatto di questi ultimi dipenda da numerosi fattori, tutti devono immaginare strategie di adattamento e di transizione. Christophe Clivaz è docente presso la facoltà di Geoscienze e sostenibilità dell’università di Losanna, deputato e coautore del libro Tourisme d’hiver. Basandosi sulle evidenze scientifiche, la sua è una previsione nera per il futuro dello sci.
Quale sarà l’impatto dei cambiamenti climatici sulle stazioni sciistiche alpine?
«Già nel 2007 uno studio dell’Ocse del 2007 ha proposto delle mappe, cercando di comprendere quale sarà l’impatto del riscaldamento globale sulle stazioni sciistiche. Basandosi sulla “regola dei 100 giorni”. Ovvero sull’idea che un comprensorio deve poter contare su 100 giorni all’anno di apertura, garantiti da un manto di neve naturale di almeno 30 centimetri. Senza dunque prendere in considerazione l’innevamento artificiale. Il documento mostrava, come facilmente immaginabile, che ci sono alcuni Paesi e regioni che saranno particolarmente colpiti dal riscaldamento globale. E tra queste ci sono le Alpi».
È possibile affermare che le stazioni sciistiche che non superano una determinata altitudine saranno inevitabilmente condannate con il riscaldamento globale?
«È difficile affermarlo in via generale, poiché occorre valutare le condizioni specifiche, caso per caso. Ciò per via della particolarità di ciascun microclima locale, dipeso non solo dall’altitudine ma anche dall’esposizione al sole e dal quantitativo di precipitazioni medie. Esistono siti che sarebbero sufficientemente alti, ad esempio, ma nei quali nevica troppo raramente. Mentre ce ne sono altri che vivono situazioni contrarie, ovvero con precipitazioni abbondanti ma spesso sotto forma di pioggia a causa della temperatura elevata. Detto ciò, esistono diversi studi che parlano di 1300, 1500 o anche 1800 o 2000 metri per individuare le stazioni condannate, in funzione della crescita ipotizzata della temperatura media globale. Ciò che sappiamo è che ciascun grado in più potrà far salire, in media, l’altitudine-limite di circa 300 metri. Ma, ripeto, non si può generalizzare. Lo sci sulle Alpi dovrà fare i conti con un riscaldamento locale che viaggia a velocità doppia rispetto alla media globale».
Questione di casi specifici, dunque, ma la tendenza è chiara…
«Sì. Sappiamo che il mondo, con l’Accordo di Parigi, si è dato l’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 2 gradi centigradi, entro la fine del secolo. Ma sappiamo anche che le Alpi si stanno scaldando molto più velocemente rispetto alla media globale. Quando si parla di 2 gradi a livello mondiale, per le Alpi significherà 4 gradi, con tutto ciò che ne conseguirà».
In che modo i gestori delle stazioni sciistiche si stanno comportando di fronte a tale realtà?
«Troppo spesso con una corsa agli armamenti e numerose fughe in avanti. In dieci anni, il numero di giornate-sciatori è sceso di circa il 20% in Svizzera. E in futuro il trend non è destinato a cambiare. Fino a un paio di anni fa abbiamo registrato grossi cali, poi nell’ultimo biennio c’è stata un’inversione di tendenza, ma dipesa dal fatto che sono stati due ottimi inverni, con sufficiente neve e condizioni meteorologiche particolarmente buone durante le vacanze scolastiche e nei fine settimana. Ma anche perché ormai numerose stazioni propongono skipass con enormi sconti.
È stato lanciato ad esempio il Magic Pass, che costa 450 euro per un anno intero se comprato in anticipo e consente di sciare in 30 stazioni diverse. Parliamo di un prezzo estremamente concorrenziale. Inoltre, lo si vende già ad aprile per l’anno successivo, così le persone hanno l’impressione di avere più denaro a disposizione quando partono e spendono di più in materiali, ristoranti e servizi. Ma è chiaro che in questo modo gli skipass costano talmente poco che i margini per ciascuna giornata di sci sono inevitabilmente diminuiti».
Almeno le stazioni ad alta quota, ad esempio a 3000 metri, possono considerarsi al riparo dai cambiamenti climatici?
«Assolutamente no. Ci sono studi che hanno già mostrato come la diminuzione del quantitativo di neve naturale colpisca a tutte le altitudini. In Svizzera è stata effettuata un’indagine, prendendo in considerazione i dati di tutte le stazioni meteorologiche degli ultimi 45 anni, comprese quelle a 3000 metri. I risultati indicano un calo del 25%».
In che modo cambieranno gli sport invernali di fronte a tali scenari?
«Diventeranno sport da ricchi. Già lo sono, ma lo saranno sempre di più. Già oggi il costo per una giornata di skipass è spesso proibitivo e in futuro lo sarà ancora di più perché i costi per la manutenzione delle piste cresceranno. Senza dimenticare che per sciare occorre comprare o affittare sci e scarponi. E poi le giacche, i pantaloni, i guanti, le maschere. Già oggi, in una nazione come la Svizzera, una grossa fetta della popolazione non può permettersi di sciare, soprattutto le famiglie numerose».
I gestori degli impianti punteranno sui nuovi multimilionari, in arrivo ad esempio dalla Cina?
«C’è in effetti chi sta pensando ad attirare turisti in arrivo dall’Asia. Ma non sarà mai possibile “sostituire” in questo modo gli sciatori europei che negli scorsi decenni hanno fatto la fortuna delle stazioni. Inoltre, incoraggiare una clientela proveniente dall’altra parte del mondo significa puntare sui viaggi aerei, con un enorme impatto in termini di emissioni di CO2. Significa dunque accelerare i cambiamenti climatici. Significa effettuare una transizione assurda».
Eppure in Italia esistono stazioni, anche ad altitudini non particolarmente elevate, che continuano a investire in nuovi impianti. Lo trova ragionevole?
«Posto che, ancora una volta, occorre verificare caso per caso, ripeto che spesso si tratta di fughe in avanti. Si tratta di investimenti che non hanno senso dal punto di vista ecologico così come strategico: se si hanno a disposizione dei fondi, meglio diversificare e puntare su altre attività rispetto allo sci».
Il problema è che quest’ultimo, da solo, ha sviluppato nei decenni le montagne in modo incredibile: molti luoghi si sono arricchiti. È arrivato lavoro, il mercato immobiliare è esploso. E dunque ora faticano a immaginare di passare ad altro. Eppure esistono molte alternative, a cominciare dallo sviluppo delle stagioni intermedie. Anche perché sono molto poche le stazioni sciistiche che vivono senza doversi affidare ad aiuti di Stato. Questo per dire che, già oggi, esiste un problema di redditività: un motivo in più per scegliere la strada della riconversione».
Esistono degli esempi virtuosi in Svizzera in questo senso?
«Possiamo citare il caso del Monte Tamaro, che ha deciso di chiudere completamente durante l’inverno. Ma ha mantenuto in funzione la funivia e ha puntato sull’estate, costruendo un parco divertimenti e sfruttando la partenza per passeggiate in quota. Allo stesso modo, una stazione come quella di Moleson già dagli anni Novanta ha deciso di puntare molto più sull’estate. Perché in quota, anche a 2000 metri, la neve già scarseggiava».
Per non ripetermi alla noia, faccio questa riflessione. Nel Nord Ovest, in particolare in Val di Susa, si è deciso di investire molto, strutturalmente. Gli skipass sono lievitati (es Via Lattea 46 euro, una famiglia di 4 spende quasi 200 euro in un giorno). La clientela nostrana è in netto calo ogni anno: sempre meno se lo possono permettere. La risposta è stata organizzare delle settimane bianchi all inclusive che portano vagonate di inglesi (da circa 20 anni) e, negli ultimi anni, russi, ceki, polacchi e infine anche cinesi e altri asiatici (es malesi). Nuovo denaro internazionale per soddisfare il quale occorrono sempre nuovi cambiamenti del terreno, nuove ruspe, magari nuovi impianti (o sostituzione dei vecchi: prima seggiovie al posto degli skilift, poi seggiovie da 6 al posto di quelle da 3 ecc). Morale: stiamo distruggendo le “nostre” montagne per far divertire inglesi, russi e cinesi. Non che sarei contento a registrare la distruzione delle “loro” montagne al posto delle nostre, ma certo così ci autoflagelliamo solo in nome del dio denaro. È quella che io definisco la visione alla Briatore. Per fortuna, le difficoltà di spostamento conseguenti alla pandemia stanno frenando questo trend. Ci pensa la natura a rimettere a posto le cose. Il problema è che ci restano gli scheletri di acciaio. Occorre ripensare completamente il modello. Educare le giovani generazioni perché cambi la domanda di attività invernali. Buona giornata a tutti.