Ricordo che questo bellissimo articolo di quasi cinquanta anni fa fece sognare i lettori appassionati di quella rivista Mountain che apriva finalmente nuovi orizzonti al giornalismo di montagna.
Allora avevamo fame di pezzi così, con titoli da sogno come questo, scritto da grandi alpinisti come Rouse. Questo brano ha fatto storia e regge ancora l’assalto di cinque decenni di cronaca: basta considerare che nel lungo scritto non viene mai menzionata la parola free solo, semplicemente perché allora il termine free solo non era stato ancora coniato, quindi “definito”, anche se era già stato praticato in molte occasioni.
Two is a crowd
(Due è una folla)
di Alan Rouse
(pubblicato su Mountain n. 21, maggio 1972)
In generale, è un errore dire che le persone arrampicano da sole perché è pericoloso. Nessuno può negare che l’attività sia pericolosa, ma il pericolo viene semplicemente accettato a causa del godimento generale e del senso di realizzazione. In effetti, molti di coloro che sono coinvolti nell’arrampicare da soli possono spesso vedere il pericolo con un’obiettività quasi spaventosa: “Una volta che sei morto, sei morto” è la massima che sembra riassumere i loro pensieri sulla questione.
Non posso affermare di essere un vero arrampicatore solitario, ma spero che la mia limitata esperienza in questo campo mi abbia dato una certa conoscenza dei mezzi e degli obiettivi del solitario. Per me, andare in solitaria in Galles può essere puro divertimento, mentre in solitaria su una grande via nelle Alpi è forse un po’ troppo pericoloso per il divertimento totale di quel momento, anche se penso che molto piacere arrivi in seguito. La libertà di movimento consentita nell’arrampicata in solitaria pura (cioè senza corda o altri dispositivi di protezione) si avvicina, a mio avviso, alla vera arrampicata e all’alpinismo di qualsiasi altro mezzo di progressione su un tratto di roccia o ghiaccio. Andare in solitaria in Galles o sul gritstone consente di ridurre drasticamente i tempi: Eric Jones può completare senza sforzo forse 15 vie (circa 600 metri), di grado VS (very severe, NdR) e oltre, in tre ore a Tremadoc, mentre Tom Proctor ha fatto da solo 1200 metri di gritstone a Stanage in otto ore (per un totale di 157 vie, per lo più dure, e la sua progressione si è fermata solo per il dolore dovuto alla pelle consumata delle punte delle dita). Nessuna noiosa attesa su soste ventilate, nessuna attrezzatura da trasportare e nessun rinvio da posizionare. Chi ama l’arrampicata è in grado di apprezzare di certo il piacere di una tale progressione costante e naturale su una parete rocciosa.
Solitarie in Gran Bretagna
La storia dell’arrampicata in solitaria in Gran Bretagna non è ben documentata. Alcuni dei primi pionieri vi indulgevano e Bentley Beetham aprì una serie di percorsi a Borrowdale negli anni Venti. Il vagabondaggio solitario di Menlove Edwards sulle rupi gallesi mal frequentate può essere testimoniato da Samson, e Colin Kirkus ha fatto una serie di fughe ravvicinate che possiamo vedere in Let’s go Climbing. Molti dei migliori alpinisti degli anni Trenta salivano in solitaria a uno standard abbastanza rispettabile sulle falesie di Tryfan, Glyder Fach e Lliwedd, ma invariabilmente questo succedeva su vie dove contava molto l’equilibrio e di conseguenza contava meno la forza.
Allora, come adesso, la motivazione variava. Le motivazioni di Edwards per le sue attività rischiose su nuove vie sono difficili da comprendere. Samson sembra far puntare alla conclusione che il suo lavoro di psichiatra lo abbia portato a un punto critico nella sua autoanalisi e, alla fine, al suicidio. Sospetto che le sue motivazioni fossero molto diverse dalle mie. Mi piace scalare da solo su cose tipo O’Reilly’s Daughter magari assieme ad altri amici anche loro slegati. Non è la solitudine che cerco, ma piuttosto l’indipendenza e la libertà. Edwards, con la sua introspezione e il suo estetismo, probabilmente non godrebbe dell’attuale atmosfera spesso da circo che circonda molte ascensioni in solitaria. Quando Pete Minks e io abbiamo salito in solitaria Vector ci siamo goduti la reciproca compagnia e il punto principale dell’esercizio ruotava attorno alla mancanza di una corda. Chiaramente, alcune persone sono costrette ad arrampicare in solitaria in una forma o nell’altra dalle circostanze: Eric Jones, ad esempio, aveva la maggior parte del suo tempo libero a metà settimana, quando i compagni erano difficili da trovare. Cliff Phillips, d’altra parte, era riservato. Ha trovato che era difficile trovare un buon compagno e quindi ha preferito andare da solo. Io ho incominciato principalmente perché lo facevano i miei amici, anche se a volte non avevo nessuno con cui arrampicare. In seguito, la noia delle salite esistenti ha fornito un ulteriore stimolo. La solitudine, tuttavia, era raramente, se non mai, un motivo, anche se a volte anche il fatto di non avere nessuno con cui arrampicare ha avuto un ruolo.
La solitaria in generale è abbastanza comune, ma quella di alto livello o su nuove vie è uno sport di minoranza. Non più di una manciata di alpinisti hanno salito in solitaria su salite Extremely Severe, e meno ancora ce n’è che ne abbiamo salita almeno una on sight (a vista). Sembra che ci siano state alcune performance recenti degne di nota in Yosemite, ma in Gran Bretagna le salite in solitaria di Alan McHardy (a vista) dell’Overhanging Arete su Cyrn Las e il tiro principale di Woubits a Cloggy spiccano (ha commentato in seguito che sull’Overhanging Arete si era un po’ preoccupato).
Fino a poco tempo fa in Scozia non era stato fatto nulla di molto difficile, anche se molte delle prime ascensioni erano comunque virtualmente delle solitarie. L’anno scorso, tuttavia, sia George Shields che Ian Nicholson hanno fatto da soli Inbred, e Norrie Muir si è espresso su Centurion e Mousetrap. Muir ritiene che la sua motivazione principale per il suo andare da solo sia la sua incapacità di scendere dopo essersi arrampicato per dare un’occhiata al primo tiro di una via!
In Scozia sono state anche percorse in solitaria numerose nuove vie importanti. Negli anni Quaranta, Kellett scalò un’impressionante collezione di nuove vie sul Ben Nevis, con Gardyloo Buttress (VS) che spiccava come un risultato considerevole per l’epoca. Più recentemente, Tom Patey ha salito in solitaria un vasto numero di nuove vie nelle Highlands settentrionali, senza dubbio spinto dalla mancanza di compagni di scalata nella remota Ullapool. Il suo Giant Crab Crawl, a Creag Meaghaidh, deve essere uno dei più eccezionali esempi britannici di arrampicata su ghiaccio in solitaria. L’abilità di Patey con le parole forniva anche la classica difesa del solitario: “Per tradizione lo scalatore che abitualmente sale da solo è considerato spericolato. Niente potrebbe essere più lontano dalla verità, perché altrimenti sarebbe di sicuro già morto.
Solitarie nelle Alpi
La lunga e variegata storia delle solitarie nelle Alpi è ben registrata in numerose autobiografie di arrampicata. Chiunque cerchi ispirazione in questo senso farebbe bene a fare riferimento a Le mie montagne di Walter Bonatti, dove avrà un’idea del disagio fisico e dello stress mentale coinvolti nella solitaria di una nuova importante via: forse la salita di Bonatti del pilastro sud-ovest del Dru l’esempio supremo di solitaria in un contesto alpino.
L’arrampicata in solitaria ha avuto un inizio precoce nelle Alpi orientali, ma è stato solo negli anni Cinquanta che la disciplina ha preso davvero slancio in Occidente. Mentre è vero che le pareti rocciose delle Alpi orientali sono più adatte alle solitarie, la differenza negli standard appare piuttosto strana. Si è tentati di utilizzare questo fatto come aiuto al suggerimento che è la noia per la mancanza di grandi sfide che porta ad un aumento dell’arrampicata in solitaria. La maggior parte delle grandi pareti delle Alpi Orientali erano state conquistate negli anni Trenta, mentre molte di quelle delle Alpi Occidentali (come la parete ovest del Dru) erano ancora rimaste inviolate.
Principali salite alpine in solitaria dalla guerra ad oggi (1971, NdR)
Perlustrando tutte le fonti disponibili abbiamo raccolto questo elenco di salite in solitaria. Tuttavia ci sono quasi certamente alcune importanti omissioni e si chiede ai lettori di scriverci per ogni ulteriore informazione che possa rendere l’elenco più completo.
1947
Lalidererwand, parete nord: Leo Seitelberger;
Schüsselkarspitze, Fiechtl-Herzog: Hermann Buhl;
Schüsselkarspitze, parete sud-est: Karl Gombocz;
1952
Piz Badile, parete nord-est: Hermann Buhl;
Fleischbank, diedro sud-est: H. Wömel. Una veloce salita di questa famosa parete, considerata all’epoca la via più difficile del Kaisergebirge;
Schüsselkarspitze, diedro sud: Hermann Buhl;
Civetta, Solleder-Lettenbauer: Cesare Maestri. Bella ascensione di una lunga e impegnativa salita;
Croz dell’Altissimo, Via Dibona: Cesare Maestri;
Cima d’Ambiez, parete sud-est: Hermann Buhl;
1953
Monte Bianco, cresta di Peutérey Ridge: Bert Kerfell (non risulta, NdR);
Dent d’Herens, Diretta parete nord: Karl Lugmaier. Una grande via di ghiaccio aperta per la prima volta da Welzenbach (l’anno è sbagliato: si tratta del 1952, NdR);
Watzmann, parete nord: Hermann Buhl. Prima solitaria e prima invernale;
Marmolada, Parete sud-ovest: Cesare Maestri. Una delle più dure salite dolomitiche prebelliche. VI+;
Crozzon di Brenta, parete nord-est, via delle Guide: Cesare Maestri;
1954
Torre Venezia, parete sud, via Tissi: Armando Aste;
1955
Aiguille Noire de Peutérey, cresta sud: Marco May;
Petit Dru, pilastro sud-ovest: Walter Bonatti. Un’incredibile prima salita di una difficile via libera e artificiale, che richiese diversi giorni;
Croz dell’Altissimo, via Oppio: Cesare Maestri;
1956
Aiguille du Moine, parete est, via Contamine: Hermann Buhl;
Lalidererspitze, via Auckenthaler: Hermann Buhl;
Piz de Ciavazes, Diretta alla parete sud: Cesare Maestri;
Monte Agner, spigolo nord: Claudio Barbier;
1957
Cima d’Ambiez, diedro est: Armando Aste;
1958
Pic Sans Nom, parete nord: Jean Couzy;
Lalidererwand, Schmid-Krebs: Gottfried Podisk. Ha usato i bastoncini da sci per raggiungere i chiodi;
Cima della Busazza, parete ovest, via Gilberti-Castiglioni: Michel Vaucher;
Torre Venezia, parete sud (vie Tissi e Andrich): Michel Vaucher. Ha scalato entrambe le vie in un giorno;
1959
Grand Capucin, parete est: Gino Buscaini;
Monte Bianco, via Major: Walter Bonatti;
Monte Bianco, via della Poire: Carlo Mauri;
Aiguille du Midi, sperone Frendo: Robert Guillaume;
Dent du Requin, parete nord: Robert Guillaume;
Cervino, parete nord: Dieter Marchart;
Totenkirchl, via Peters-Eidenschink: George Maider;
Gross Bischofmütze, cresta sud-est: Leo Schlömmer;
1960
Tre Cime di Lavaredo, via Comici-Dimai, via Cassin-Ratti e via Comici-Mazzorana, Claudio Barbier fece in solitaria queste tre pareti nord in 6.30 ore;
Cima Ovest, via Couzy: Armando Aste. Una salita molto difficile in libera e artificiale;
1961
Barre de Écrins, pilastro sud: Paul Lugin;
Punta Civetta, via Andrich-Faé: Claudio Barbier;
Cima Grande, via Brandler-Hasse: Karl Flunger;
Tre Cime de Lavaredo: Claudio Barbier ha ripetuto la sua prestazione del 1960 aggiungendo altre due salite;
Roda di Vael, via Maestri: Milo Navasa;
Roda di Vael, via Brandler-Hasse: Cesare Maestri (errore, è Armando Aste, NdR);
Torre di Valgrande, parete nord-ovest: Claudio Barbier;
Pan di Zucchero, parete nord-ovest: Ernst Steger;
1962
Civetta, via Comici-Benedetti: Claudio Barbier;
1963
Eiger, parete nord (via 1938): Michel Darbellay. Questo importante risultato era stato tentato da diversi alpinisti. La salita è avvenuta il giorno dopo che Bonatti si era ritirato dal suo tentativo solitario;
Dachl, Roßkuppenverschneidung (Totesverschneidung): Leo Schlömmer;
1964
Un italiano, Toni Marchesini, ha sostenuto di aver compiuto una serie di importanti salite in solitaria su cui in seguito sono stati gettati dubbi;
Roda di Vael, via Eisenstecken: Heini Holzer;
1965
Il parigino Roland Trivellini rivendica la prima salita (in solitaria) di una nuova importante via sulle Grandes Jorasses, ma questo non è stato generalmente accettato dagli esperti francesi (si tratta della via del Linceul, NdR);
Petit Dru, parete ovest: René Desmaison;
Cervino, parete nord, via Bonatti: Walter Bonatti. Un’altra faticosa salita situata a destra della via Schmid. Una prima salita, in solitaria e in inverno;
1966
Aiguille du Triolet, parete nord: Pierre Desoulliard. Salita in inverno (prima salita invernale);
L’Olan, parete nord-ovest, via Gervasutti: Jacques Rafflin;
1968
Grandes Jorasses, sperone Walker, via Cassin: Alessandro Gogna. Una salita tanto attesa;
Les Courtes, via degli Svizzeri: Kurt Hoffmann;
Dent Blanche, parete nord: Camille Bournissen. Una salita ardita su una delle pareti di ghiaccio più impegnative delle Alpi Pennine;
Fleischbank, Schmuckkamin: Heini Holzer;
Dachl, parete nord, Oberer Diagonalriss: Leo Schlömmer;
Piz de Ciavazes, parete sud, via Schubert e via Micheluzzi: Reinhold Messner. Ha scalato entrambe le vie in un giorno;
Cima Ovest, Spigolo degli Scoiattoli: Angelo Ursella;
1969
La Meije, diretta parete nord: Raymond Renaud. Una salita invernale;
Aiguille du Bionassay, parete nord-ovest: Franck Astori;
Les Droites, Diretta parete nord-est: Reinhold Messner. Una salita dura fatta in un tempo velocissimo;
Petites Jorasses, parete ovest: Joël Coqueugniot;
Monte Bianco du Tacul, Pilastro Gervasutti: Gian Piero Motti;
Monte Rosa, parete est, via Lagarde: Alessandro Gogna;
Marmolada di Rocca, via Vinatzer: Reinhold Messner (che nell’occasione traccia la via diretta finale, NdR);
Civetta, via Philipp-Flamm: Reinhold Messner. Una salita eccezionale con il brutto tempo;
Sassolungo, parete nord, via Soldà: Reinhold Messner;
Cima d’Auronzo, cia Comici-Casara: Enzo Cozzolino;
Furchetta, parete nord, Meranerweg: Reinhold Messner;
Eiger, via Lauper: Jacques Sangnier;
1970
Ailefroide, via Gervasutti-Devies: Jacques Sangnier;
Aiguille de Blaitière, parete ovest: René Desmaison;
Petit Dru, parete nord: Joël Coqueugniot;
Aiguille du Midi, parete nord: Walter Cecchinel. Salita in inverno;
1971
Monte Bianco, pilastro centrale del Brouillard: Eric Jones. Una prima salita di un itinerario molto remoto;
Monte Bianco, pilastro centrale di Frêney: Georges Nominé. È caduto per 25 metri salendo ma, illeso, ha continuato;
Monte Bianco, Sentinella Rossa: Jean Afanassief;
Aiguille Verte, Couloir Cordier: Jean Afanassief;
Petit Dru, via Hemming-Robbins: Jean-Claude Droyer. Arrampicata libera molto difficile;
Mont Blanc du Tacul, Couloir Jager: Walter Cecchinel. Una salita invernale;
Sciora di Fuori, Diretta parete ovest: M. Indergand;
Piz Cengalo, sperone nord-ovest: Alan Rouse;
Lenzspitze, parete nord: David Belden;
Brenta Alta, parete nord-est, via Detassis: Sereno Barbacetto.
Tra le prime salite in solitaria a est c’era quella di Paul Preuss, nel 1911, di un nuovo grado, il V: la parete est del Campanile Basso. Nel 1914 Hans Dülfer salì in solitaria la prima della parete sud del Catinaccio d’Antermoia, che oggi è di grado V+. Comici ha effettuato una salita in solitaria della sua via sulla parete nord della Cima Grande nel 1937. Uno dei pochi risultati comparabili nelle Alpi occidentali è stata la salita in solitaria di Andéol Madier della parete sud diretta della Meije.
Mentre è vero che alcune salite in solitaria, come la salita di Bonatti al Dru, sono indubbiamente prove molto serie, non tutte le solitarie devono essere un grande calvario. Il racconto di Hermann Buhl della sua rapida ascesa della parete nord-est del Piz Badile indica alcuni dei piaceri più basilari da provare: “Così con contorsioni, spinte, spaccate, continuo ad innalzarmi metro per metro, con l’estremità libera della corda che mi seguiva seguendomi come un compagno fedele. Non può esserci una sensazione più meravigliosa che arrampicare in questo modo, libero da qualsiasi mezzo artificiale, con il piede leggero e senza legami, come fecero Paul Preuss o Hans Dülfer nei tempi passati, del tutto autosufficienti, guardinghi e con tutta la sensibilità concentrata sulle punte delle dita di mani e piedi. L’unica cosa richiesta qui è un buon stile di arrampicata naturale e pura abilità tecnica. Avrei potuto gridare ad alta voce per puro piacere…”.
L’estate scorsa ho scalato lo sperone nord-ovest del Cengalo in una fitta nebbia e, come Buhl, mi sono goduto ogni minuto. In netto contrasto, ho tentato con eccessiva sicurezza di scalare la parete sud dell’Aiguille du Fou, una via molto difficile con la necessità di mettere molti chiodi e con arrampicata libera difficile. Due corde, trenta chiodi, venti moschettoni, piccozza, ramponi e attrezzatura da bivacco pesano certamente quello che basta per rendere difficile un compito.
Dopo una prima giornata faticosa, in cui ho scalato un canale ghiacciato e ho fatto neanche cento metri con chiodatura difficile, ho bivaccato su una piccola cengia. Mi sono reso conto troppo tardi che i bivacchi solitari non erano proprio il mio genere. Non riuscivo a dormire, quindi per passare il tempo ho legato insieme le due corde e mi sono calato fino in fondo alla ricerca di acqua. Oscillando al buio e alla fine di una corda di 100 metri su una grande parete rocciosa non è proprio come andare all’osteria. Il giorno successivo ci sono state altre sorprese: una bella arrampicata libera mi ha condotto fino a un rurp in posto. Vedere un chiodo sulle Alpi di solito ispira l’aggancio automatico, e spesso subito dopo il tirarcisi sopra… ma quello era un rurp (un chiodino speciale simile a una lametta da barba, NdR)! Beh, era un’altra storia. Allora mi sono rimproverato d’essere un codardo. “Gli americani magari usano i rurp anche per le soste”, mi sono detto. “Questo non è posto da tentennamenti”. Alla fine mi ci sono tirato su. La caduta, oltre a dimostrare che gli americani devono essere matti se usano davvero i rurp per le soste, mi ha procurato una gamba e una caviglia rotte. A vederla dopo la ritirata è stata comica. Hai mai saltellato giù per 17 calate? Beh, io l’ho fatto, ma non vedevo alcun lato divertente in quel momento.
L’etica delle solitarie
La definizione di salita “vera e propria” in solitaria varierà a seconda della regione in cui si effettua la salita. In Gran Bretagna ci sono vari livelli di solo climbing: chiaramente, un uomo che ha una corda dietro di sé è solo qualcosa in più di uno che arrampica senza un secondo; anche avere con sé dei cordini o l’imbrago per potersi attaccare in caso di problema imprevisto evita la sfida integrale; arrampicare senza imbrago o corda su vie che si sono già fatte in precedenza in modo normale è buono, ma non è ancora l’ultima esperienza da solitario. Questa dev’essere una solitaria di una via difficile, vicina alle proprie normali capacità di arrampicata da primo, ma a vista, senza conoscenza diretta delle difficoltà della salita. Se in più questa è anche una prima salita, l’impegno diventa assoluto, anche se pochi intraprenderebbero una prima salita in solitaria senza una qualche forma di attrezzatura per le evenienze.
C’è anche la questione della presenza di altri alpinisti. In Gran Bretagna, due persone che percorrono in solitaria una via tecnica contemporaneamente, ma senza corda o imbrago, dovrebbero sicuramente essere in grado di rivendicare valide salite in solitaria. La difficoltà sta nelle singole mosse e c’è poco che uno scalatore possa fare per aiutare l’altro in caso di scivolata. Infatti, se lo scalatore davanti scivola, c’è il rischio in più che faccia cadere il compagno.
Sulle Alpi, invece, la questione si fa più difficile. I principali pericoli nelle Alpi tendono a incentrarsi sul maltempo, la lontananza e le discese slegate e pericolose. La difficoltà tecnica c’è, ma se le cose si fanno troppo dure è accettato che si possa sempre usare qualche aiuto per superare un tratto difficile. La sfida principale del solitario alpino è sicuramente attenuata dalla presenza di altri alpinisti. Eric Jones e Cliff Phillips hanno salito insieme in solitaria il pilone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, e il più delle volte erano solo a poche lunghezze di corda l’uno dall’altro. Inoltre, quando Pete Minks ha salito in solitaria lo sperone della Walker ed Eric Jones il Pilier Bonatti al Dru, entrambi gli alpinisti hanno incontrato altre cordate sulle loro vie; nessuno di loro aveva previsto questo, ovviamente, e a volte questi incontri presentavano ulteriori problemi in termini di progresso più lento e rischio aggiuntivo di caduta di sassi. Ma resta il fatto che tale impresa pianificata o non pianificata su una grande via alpina riduce la serietà e il senso di impegno. Sulle Alpi i mezzi sono molto meno importanti dell’isolamento totale della propria salita in solitaria: tutto si riduce a una questione di preservare un ragionevole grado di incertezza, come ha sottolineato Lito Tejada-Flores nel suo ormai classico saggio sull’etica Games climbers play.
Forse una definizione corretta di “vera e propria” salita in solitaria sulle Alpi includerebbe le salite in cui altre cordate erano sul percorso, ma non quelle in cui la presenza di tali cordate fosse stata organizzata in precedenza per fornire assistenza. Tali salite, sebbene possano ancora essere ottimi risultati, devono essere invalidate come vere ascensioni in solitaria. C’è un interessante parallelo qui con la definizione di arrampicata invernale in Scozia. La recente ascensione di Astronomy, sul Ben Nevis, di Allen Fyffe, Kenny Spence e Hamish Maclnnes, ha scatenato un’ondata di polemiche sul fatto che si trattasse o meno di una vera salita invernale. Alcune persone, pur applaudendo il risultato, hanno affermato che non c’era abbastanza neve per renderla una vera salita invernale. La definizione proposta dai primi salitori sembra però molto corretta: per una salita invernale l’arrampicata deve essere più facile con i ramponi che senza. Allo stesso modo, va detto che due persone in solitaria insieme sulle Alpi possono sempre ‘barare’, e darsi assistenza a vicenda, se le cose si fanno difficili. Tali ascensioni devono quindi essere considerate non valide.
Anche la salita in solitaria di Bonatti della via Major, fatta in contemporanea al suo compagno Carlo Mauri, in solitaria sulla via della Poire, non era proprio come essere completamente soli sul Monte Bianco: in più i due alpinisti si sono uniti in vetta riducendo così l’impegno della discesa. È un peccato che debba essere fatta una definizione di “vera” salita in solitaria, ma la natura competitiva di base degli esseri umani lo rende necessario. Ammettiamolo, la maggior parte delle persone preferirebbe fare una prima salita in solitaria piuttosto che una successiva (anche se questo vale meno con vie più facili che con quelle difficili), sia per motivi personali che per motivi di orgoglio nazionale.
Tecnica di salita in solitaria sulle Alpi
Sono disponibili varie tecniche di autoassicurazione per superare tratti difficili in solitaria sulle Alpi o su big wall altrove. Il metodo più sicuro consiste nel legare la corda a uno o due chiodi di assicurazione e, dopo aver esaurito un tratto di corda, ancorare la corda, scendere e risalire, avendo rimosso il punto di sosta inferiore e gli eventuali punti di protezione sul tiro. I dettagli reali di come ci si protegge progressivamente mentre si sale sul campo sembrano essere una questione di preferenze personali. La mia tecnica consiste nel legare le estremità di due corde alla sosta e poi legarne una (corda A) alla mia vita normalmente. Sull’altra corda (B) mi lego con un nodo a otto a una distanza adeguata lungo la sua lunghezza (diciamo, 8-10 metri), per permettermi di salire una distanza tale da non esserci un volo eccessivo in caso di caduta. Salgo quindi fino a quando il nodo non mi permette di andare oltre, lo disfo e me ne rifaccio un altro distanziato di altri 8-10 metri. Quindi per tutto il tempo mi proteggo solo usando la corda B. Quando raggiungo la sosta, vi lego entrambe le corde e mi calo in doppia lungo la corda A. Se la roccia è del tutto strapiombante, o se il tiro è stato un po’ obliquo rispetto alla solita linea verticale, è importante recuperare in sosta tutta la corda prima di scendere alla sosta inferiore. Un discensore o un freno a moschettone è quindi essenziale, poiché le doppie in spalla con imbrago e moschettone sono impossibili su una corda molto tesa. Raggiunta la sosta inferiore e tolti i chiodi di ancoraggio, si sale sulla corda B a jumar, rimuovendo le protezioni e il materiale usato sulla lunghezza. Lo zaino può essere carrucolato con la corda A. Una variante comune a questo metodo consiste nell’usare uno jumar invece di un nodo a otto per attaccare la corda alla vita durante l’arrampicata. Questo è più veloce ma piuttosto meno affidabile se si verifica una lunga caduta.
Un’altra tecnica utile nelle Alpi è semplicemente quella di posizionare lo zaino sulla cengia che è all’inizio del tiro, e poi legare un’estremità della corda a se stessi e l’altra allo zaino. Non vengono impiegate protezioni o soste intermedie, ma le cose sono un po’ più facili in quanto si può salire molto più liberi e tirare su il sacco quando si raggiunge la successiva posizione adeguata. Inoltre, la corda è già fissata e potrebbe essere utilizzata in diversi modi in caso di emergenza. Sebbene questo metodo non dia sicurezza aggiuntiva, rende l’arrampicata notevolmente più facile.
Un altro metodo particolarmente utile su percorsi popolari che hanno un buon numero di chiodi in posto consiste nel legare entrambe le estremità della corda alla vita e fare un nodo al centro. Quando si raggiunge un chiodo, un’estremità della fune (sempre la stessa estremità) viene slegata e infilata verso l’alto attraverso l’occhio del chiodo e quindi legata di nuovo. L’idea è che se lo scalatore cade il nodo si incastrerà nell’occhio del chiodo più basso, e lo tratterrà in quel modo. La corda può essere recuperata senza scendere, svincolando l’estremità che è stata infilata e tirando l’altra estremità. Ovviamente la tecnica non è molto usata per tiri lunghi, ma per brevi tratti semplici di difficoltà è l’ideale. Pete Minks l’ha usato con ottimi risultati durante la sua salita in solitaria della Walker la scorsa estate. Un metodo più semplice che può essere impiegato è quello di rimanere agganciati a uno o due chiodi tramite cordini un po’ lunghi, mentre si passa al successivo chiodo. Una tecnica in qualche modo simile può essere impiegata con i nut: il nut viene incastrato nella fessura, collegato in vita con un lungo cordino: tirando questo dall’alto, una volta raggiunta una posizione meno critica, si riesce a disincastrare il nut stesso. Non c’è davvero limite al numero di acrobazie che possono essere impiegate per proteggersi su una via in montagna.
Il futuro dell’alpinismo solitario
Chiaramente il numero di salite difficili fatte da soli vicino a casa propria aumenterà sempre di più. Il grado Very Severe ora fa poca paura ai più bravi, e i veri sforzi saranno sulle vie HVS (Hard Very Severe) e XS (Extremely severe). Le vie che saranno salite a vista saranno davvero imprese molto audaci. Finora non ci sono stati molti incidenti gravi, anche se recentemente un alpinista australiano è rimasto ucciso mentre cercava di salire in solitaria una via di roccia tecnica difficile vicino a Melbourne. Chiaramente, i gravi rischi che accompagnano questa disciplina non devono mai essere ignorati.
Il salire da soli sulle Alpi ha raggiunto un livello molto avanzato sotto l’influenza di alpinisti come Buhl, Maestri, Bonatti, Desouilliard e Messner, ma alcuni dei pionieri sono morti nel processo. Presto potremmo vedere ciò che si fa oggi nelle Alpi in un contesto himalayano. Dato che stiamo già aspettando con impazienza che piccole spedizioni autosufficienti vadano a salire le grandi montagne, forse questo porterà alla prima ascensione in solitaria di alcuni dei giganti himalayani. Chissà cosa verrà dal progresso di attrezzatura e di tecnica. Per non parlare dell’audacia.
Sommario
Un breve sguardo su etica, motivazioni e tecniche dello scalatore solitario, sia sulle falesie britanniche che sulle Alpi.
Alan Rouse
(da wikipedia)
Alan Paul Rouse (19 dicembre 1951 – 10 agosto 1986) è stato il primo alpinista britannico a raggiungere la vetta della seconda montagna più alta del mondo, il K2, ma è morto durante la discesa.
Rouse è nato a Wallasey e ha iniziato ad arrampicare all’età di 15 anni, scalando presto molte delle vie più difficili del Galles del Nord. Ha frequentato la Birkenhead School dal 1963 al 1970 e l’Emmanuel College, Cambridge fino al 1973. A Cambridge era distratto dai suoi studi dall’arrampicata e dal suo stile di vita edonistico. Era un bevitore molto socievole, ma accanito; per sua stessa ammissione era un “donnaiolo” e gli piaceva “vivere al limite”. Di conseguenza, riuscì a ottenere solo una laurea ordinaria in Matematica, nonostante si fosse mostrato una promessa iniziale in materia. Dopo aver lasciato Cambridge ha lavorato periodicamente nell’insegnamento, ma era spesso via per spedizioni di arrampicata.
Rouse è stato un eccezionale arrampicatore tecnico, uno dei migliori della sua generazione. Le sue ascensioni di The Beatnik a Helsby e la sua salita in solitaria di The Boldest a Clogwyn Du’r Arddu lo hanno contraddistinto come un talento eccezionale. Era un membro di un gruppo di contemporanei (tra cui Cliff Phillips, Eric Jones, Pete Minks, Richard McHardy) il cui spirito competitivo li ha spinti a percorrere in solitaria le vie più difficili del momento.
Si ritiene che Rouse (con Minks) abbia innalzato gli standard delle scogliere di Gogarth con l’ascesa di Positron nel 1971.
Il suo andare da solo non si è limitato al Galles, né ha sempre avuto successo. Un tentativo sulla via americana sulla parete sud dell’Aiguille du Fou è fallito quando è caduto per aver utilizzato un piccolo chiodo come aiuto. Nonostante sia caduto di soli 5 metri, Rouse si è rotto una caviglia ed è stato costretto a fare 17 doppie lungo l’intera via, per la maggior parte del tempo usando solo le ginocchia.
Alla fine Rouse divenne un alpinista professionista, insegnando, facendo la guida, scrivendo e agendo come consulente per il commercio di attrezzature per outdoor. Si trasferì a Sheffield, a breve distanza dalle rocce del Peak District. Rouse è diventato uno scalatore di grande esperienza in luoghi lontani come Scozia, Galles del Nord, Patagonia, Perù, Alpi, Ande, Nuova Zelanda e Nepal. È stato anche eletto vicepresidente del British Mountaineering Council.
Nel 1980, Rouse, il dottor Michael Ward e Chris Bonington furono tra i pochi europei a visitare le alte montagne della Cina, riaprendo alcune di queste agli alpinisti stranieri. Nell’inverno 1980-81, Rouse guidò una spedizione britannica per tentare l’Everest dalla cresta occidentale, senza usare ossigeno o sherpa. Il progetto non ebbe successo, ma nell’estate del 1981 scalò il Kongur Tagh, una vetta fino ad allora mai scalata nella Cina occidentale, con Bonington, Joe Tasker e Peter Boardman.
Disastro del K2 del 1986
Il K2, la seconda montagna più alta della Terra, è considerata una scalata molto più difficile della montagna più alta, l’Everest, e ha un tasso di mortalità più elevato. Nel 1983, Rouse fece il suo primo tentativo sul K2, per una nuova via con un team internazionale. Nel 1986, Rouse tornò come leader di una spedizione britannica e ottenne un permesso per scalare la difficile cresta nord-ovest, al posto del convenzionale Sperone degli Abruzzi. Dopo aver fatto diversi tentativi infruttuosi di stabilire campi sulla rotta prescelta, i membri del team britannico – a parte Rouse e il collega alpinista e cameraman della spedizione Jim Curran – se ne andarono.
Mentre Rouse e la spedizione britannica tentavano la cresta nord-occidentale, anche altre spedizioni avevano provato varie altre vie, con e senza ossigeno. Dopo che i suoi compagni di squadra hanno lasciato la montagna, Rouse e sei altri alpinisti delle altre spedizioni hanno deciso di unire le forze per provare la via convenzionale senza permesso. C’erano quattro uomini austriaci, Alfred Imitzer, Hannes Wieser, Willi Bauer e Kurt Diemberger, una donna polacca, Dobroslawa Miodowicz-Wolf, e una donna britannica, Julie Tullis.
Hanno raggiunto il campo IV a 8157 metri, l’ultima tappa prima della vetta. Per motivi ancora poco chiari, questa squadra improvvisata ha deciso di aspettare un giorno prima di tentare la tappa finale verso la vetta. Nessuno di questi quattro alpinisti ha seguito il team di tre alpinisti coreani partiti il 3 agosto per un tentativo con l’ossigeno, anche se la traccia sarebbe stata comunque aperta nella neve alta da loro. Il giorno successivo era evidente che il tempo stava peggiorando, ma Rouse e la Wolf si sono comunque avviati verso la vetta. La Wolf si stancò presto e indietreggiò, mentre Rouse continuò. Siccome stava percorrendo la traccia da solo, i due alpinisti austriaci, Willi Bauer e Alfred Imitzer, lo raggiunsero circa 100 metri di dislivello sotto la vetta. Rouse si è messo alle spalle degli austriaci, rendendo così più facile la sua salita nell’ultimo tratto, e i tre hanno raggiunto la vetta insieme il 4 agosto 1986.
Durante la discesa, hanno trovato Dobroslawa Miodowicz-Wolf addormentata nella neve e l’hanno persuasa a scendere. Incontrarono anche Kurt Diemberger e Julie Tullis, nel pieno del loro tentativo, e cercarono di convincerli a scendere ma senza successo. Anche Diemberger e la Tullis sono saliti in cima, ma molto tardi, all’imbrunire intorno alle 19.00. Durante la discesa, la Tullis è caduta. Anche se è sopravvissuta, entrambi hanno dovuto passare la notte in bivacco all’aperto.
Alla fine, tutti gli alpinisti hanno raggiunto il campo IV, dove Hannes Wieser aveva aspettato. I sette aspettavano che la tempesta si placasse. Invece la tempesta è peggiorata con molta neve, venti oltre i 160 km e temperature sotto lo zero. Senza cibo o gas per sciogliere la neve con i fornelli, la situazione divenne presto grave. Julie Tullis è morta nella notte tra il 6 e il 7 agosto, presumibilmente di edema polmonare da alta quota, una conseguenza comune della mancanza di ossigeno e della bassa pressione atmosferica ad altitudini estreme. Gli altri sei alpinisti rimasero per i tre giorni successivi, ma rimasero a malapena coscienti. Il 10 agosto la neve è cessata, ma la temperatura è scesa e il vento è continuato senza sosta. Gli alpinisti, sebbene gravemente indeboliti, decisero di non avere altra scelta che scendere a un campo inferiore.
Rouse, se pur cosciente, era in agonia e gli altri alpinisti decisero di lasciarlo per salvarsi la vita. Dei sette alpinisti che avevano originariamente raggiunto il campo IV il 4 e 5 agosto, solo Diemberger e Bauer hanno raggiunto il campo base.
Si presume che Rouse sia morto il 10 agosto 1986. La sua ragazza, Deborah Sweeney, ha dato alla luce la loro figlia, Holly, tre settimane dopo.
Le solitarie sono la simbiosi tra te e la montagna. Avrei voluto farne di più di quelle che ho fatto. Ma non te le puoi imporre, devono essere spontanee, nascere da se, piano piano . Magari ti viene l’idea, ti prepari, pensi di essere pronto e parti. Ma poi rinunci perchè l’imposizione che ti sei dato in raltà non basta, non è sufficienti a farti sentire sereno con l’ambiente che ti circonda. È una crescita che deve nascere dentro da se.
Articoli come questo fanno risuonare nel mio cuore le trombe dell’alpinismo!
La differenza fra arrampicare da soli invece che da capocordata è paragonabile a quella che c’è fra arrampicare da primi invece che da secondi.
Ma questa è una considerazione soltanto quantitativa: riguarda soltanto l’impegno.
L’arrampicata solitaria richiede un equilibrio fra te e la montagna che, nella mia personale esperienza, non è da sempre: va fatto soltanto quando ne hai l’ispirazione.
Il primo segnale su quell’equilibrio ti arriva quando ti accorgi che, inebriato, arrampichi senza le normali soste di attesa del compagno. Devi acquisire un tuo ritmo, che concilii le tue energie con la montagna, altrimenti arrivi stanco sulle difficoltà.
Il tuo rapporto con la montagna diviene molto intenso, e questa è la magia dell’arrampicata solitaria.
Geri