Una bella domenica
di Patrick Cordier (1973)
con introduzione di Gian Piero Motti (GPM 039)
Il lucido diario di uno dei più forti alpinisti francesi del momento ci permette di accostarci alle sensazioni più drammatiche e più sincere che può provare un solitario lungo una via di estrema difficoltà (pubblicato in origine su La Montagne n. 2-1973, poi su Rivista della Montagna n. 18, 1974, a cura di Gian Piero Motti, con traduzione di Corrado Furno)
Patrick Cordier è un giovane scalatore parigino, sicuramente al momento attuale uno dei migliori alpinisti d’Europa. Penso sia superfluo elencare la sua attività alpinistica, d’altronde so che gli farei una cosa sgradita. Sappiate comunque che ha al suo attivo le ripetizioni dei più difficili itinerari delle Alpi. Ha aperto vie nuove di estrema difficoltà un po’ dappertutto, principalmente sulle Prealpi Calcaree francesi. Ama la scalata solitaria. Il polacco Andrzej Mróz lo definì uomo-ragno dalle illimitate possibilità in arrampicata libera.
Ho avuto il piacere di vederlo arrampicare a Fontainbleau e a Saussois. Ammettiamo pure il beneficio della conoscenza di ogni mimima struttura della parete – derivata dal numero infinito di ripetizioni degli stessi gesti – comunque al Saussois, su difficoltà estreme, da solo, senza alcun mezzo di assicurazione, arrampicava a 50 metri da terra con una leggerezza, una naturalezza ed una sicurezza incredibili. Dava l’impressione di aver soppresso in sé ogni emotività, ogni senso di angoscia. Che cosa fa nella vita? Non si sa bene. Sposato con Sylvie, abita nel quartiere di Monparnasse, ama la pop music, suona il flauto indiano. È uno studioso di religioni e discipline orientali, credo che cerchi di applicarle nella sua vita. Certo in arrampicata riesce ad attuare quel controllo della mente di ispirazione yoga, di cui tanto si discute in California, dove assistiamo ad un revival dell’arrampicata libera spinta a finezze incredibili (si veda un articolo di Henry Barber che tratta a fondo del «control of mind» in Mountain Magazine, 1974).
Gian Piero Motti
Il tracciato della Via del Nose (El Capitan), con i sei bivacchi di Patrick Cordier
Una bella domenica
di Patrick Cordier (1973)
Questo è il racconto della seconda ascensione solitaria della Via del Nose sul Capitan. L’itinerario fu aperto da Warren Harding, Wayne Merry e George Whitmore nel novembre del 1958. I primi salitori passarono 47 giorni in parete e la vera ascensione durò 13 giorni. Da quella data nulla è mutato sulla parete tranne che sono rimasti in parete i 125 chiodi a espansione piantati dai primi salitori e che le fessure almeno per i primi 300 metri sono rese quasi inservibili dal lavoro di chiodatura e schiodatura. I mille metri di scalata artificiale interrotti da numerosi pendoli sono ora percorsi in tre o quattro giorni da una cordata abbastanza veloce.
Esistono molti modi di avvicinarsi alla montagna.
Il più perverso di tutti è certamente la scalata solitaria delle grandi pareti, impresa che esige tenacia e una resistenza eccezionali, o una grande confusione mentale secondo alcuni oppositori. In ogni caso francamente ignoro quasi tutti i motivi che conducono l’alpinista ad affrontare da solo una grande parete, ma so molto bene che non sono certo quei luoghi comuni traboccanti di nobiltà sui quali si sofferma compiacente un certo tipo di letteratura alpina. A me pare che per la realizzazione di una grande impresa solitaria siano necessari prima di tutto una buona dose di egoismo e di orgoglio. Questo egoismo e questo orgoglio devono essere giustificati, d’altronde abbastanza ingenuamente da un’azione esemplare che comporti un massimo di rischio e di difficoltà. Royal Robbins che effettuò quattro anni fa la prima ascensione solitaria della Via Muir sul Capitan giunse ad intuire che simili azioni sono assimilabili ad una specie di onanismo spirituale. Non ho ancora capito esattamente il paragone, tuttavia lo riporto per ciò che esso ha di piuttosto insolito. Robbins ci dice anche: «La scalata solitaria è come un grande specchio, è un modo di esplorare se stessi». Questo concetto, d’altronde già antico, è tratto direttamente dalle ideologie che hanno come punto di ispirazione la filosofia orientale, riveduta e corretta in California.
Il concetto è secondo me fin troppo seducente. Mi sembra piuttosto che la scalata solitaria richieda il massimo controllo e la più completa attenzione nel pieno possesso di tutte le facoltà morali e fisiche, escludendo ogni altra attività dello spirito, tranne quella utile all’azione. Questo concetto mi sembra di facile comprensione. Qui compare una delle virtù essenziali alla scalata solitaria: gli arrampicatori solitari sono spesso uomini che nutrono un’estrema preoccupazione per se stessi.
Trovarsi solo su una grande parete sconfigge il nervosismo per pura necessità essendo il mondo in cui agisce lo scalatore uno dei più ostili che esistano. Ciò esige di conseguenza la massima concentrazione per riuscire semplicemente a sopravvivere. È un po’ come mettersi con i piedi in aria, la pressione del sangue è invertita e da sollievo al cuore; arrampicando in solitaria la pressione mentale è invertita ed alleggerisce lo spirito. All’eterno perché dell’alpinismo, Andrzej Mróz rispondeva spesso in un modo molto convincente: «Ma perché, “perché”?». Può darsi che il gioco consista proprio nel cercare una spiegazione a tutto, anche se poi queste spiegazioni non esistono.
Di solito non amo affatto la scalata artificiale in solitaria, la progressione è troppo lenta e richiede una fatica infame, soprattutto al Capitan, dove bisogna chiodare, scendere in doppia la lunghezza di corda salita, risalire con le maniglie jumar schiodando, ed infine issare il sacco, e non è certamente un piccolo sforzo pensando che è necessario portarsi dietro più di 20 litri d’acqua. In ogni caso le ascensioni della parete sud del Capitan richiedono un dispendio enorme di energie. Naturalmente si possono immagazzinare tutte queste energie durante lunghi mesi d’allenamento metodico, e costante, ma nel mio caso fu precisante il contrario. Una brutta frattura del polso mi aveva impedito di arrampicare per i sei mesi che avevano preceduto il mio arrivo nella Yosemite Valley.
Fu questo un lungo periodo di immobilità e frustrazione che mi permise di varcare quella soglia di credibilità e conflitto con se stessi al di là della quale l’energia necessaria può essere liberata per poter trasformare il sogno in progetto ed il progetto in realtà.
Patrick Cordier il 25 settembre 1972 risale le corde fisse sistemate durante il primo giorno di scalata, 22 settembre (Foto Sylvie Cordier)
Finalmente decido di partire e passo tutto il giorno a riunire il materiale necessario: ma mi accorgo ben presto che me ne manca molto. L’alpinismo è uno sport da ricchi, ed è ben noto! Così come è d’uso comincia il delicato lavoro di accattonaggio verso i miei vari amici: una staffa qui, una corda là, un sacco da recupero a sinistra, una dozzina chiodi a destra…
Il mattino del 22 settembre attraverso la grande foresta che conduce ai piedi della parete. Mi affascina e non mi sono ancora stancato di guardarla. Cammino, ma ho lo sguardo perso nelle sue immense placche rosse e spesso inciampo nelle radici e nelle pietre. Questa parete ha veramente qualcosa di inafferrabile; mi sembra che voglia sfuggire agli sforzi che l’immaginazione attua per catturarne la grandezza ed assimilarla. Oggi devo attrezzare quattro lunghezze di corda. Non è che un semplice flirt che permetterà di conoscere i legami che mi uniscono già segretamente ad essa e che non si romperanno che dopo un idillio di sei giorni.
Patrick Cordier sospeso sulla parete della Via Salathé durante il terzo bivacco (Foto Joël Coqueugniot)
Al crepuscolo tutto il materiale, circa 35 kg di peso, è già issato 120 metri al di sopra della foresta. La notte mi sorprende quando mi accingo a ridiscendere. Questa notte voglio ancora trascorrerla nella valle. Ho annodato le mie tre corde, mi lascio scivolare verso l’oscurità della foresta, giungo al primo nodo, ora devo bloccarmi con il prusik e fermarmi sulle staffe, poi il freno, risalirlo dopo il nodo, riprendere la discesa mentre i piedi sfiorano di tanto in tanto la roccia granulosa.
Queste lunghe discese in doppia, se tecnicamente ben preparate, sono veramente divertenti e procurano una specie di ebbrezza e di pace per la sensazione di vincere la gravità, l’ostilità dei luoghi e la notte. È ancora molto presto il giorno seguente mentre mi sto preparando ad attaccare e vengo a sapere che una squadra di soccorso sta operando in vetta, in otto stanno per scendere su un terrazzino posto a 200 m sotto la vetta. È piuttosto rischioso avventurarsi in parete in questo momento. Ci sono scariche di sassi anche in Yosemite. È un imprevisto che difficilmente riesco ad accettare, tanto più che mi è pressoché impossibile scaricare tutta la tensione nervosa accumulata nel corso delle giornate trascorse in febbrili preparativi.
In arrampicata sul Nose del Capitan. Foto: Marco Milani
Finalmente il 25 la via è libera e approfitto delle ore fresche del crepuscolo per risalire le corde lasciate alcuni giorni prima. Sinceramente la manovra mi impressiona parecchio perché so benissimo che ieri sono cadute alcune pietre in prossimità del punto in cui sono ancorate le corde, circa 120 m più in alto. Il giorno 26 avevo sperato in un tempo più fresco almeno nella parte inferiore della parete, che generalmente è la più calda. Sette lunghezze di 45 metri, interrotte da due pendoli, mi separano dal prossimo punto di bivacco. Devo assolutamente fare in fretta. Sfortunatamente mi accorgo ben presto che il mio polso destro è ancora molto debole e anche se racchiuso e bloccato da quattro stecche d’acciaio e da un vistoso bendaggio, mi fa spesso soffrire. Così sono costretto a togliere il 95% dei chiodi con la mano sinistra. Se la mia non è la prima ascensione solitaria del Nose, almeno ho la consolazione di compiere la prima salita con una mano sola. Le fessure sono larghe e mettono rapidamente in crisi il mio stock di cunei d’alluminio. Sono così costretto a una manovra abbastanza rischiosa, tuttavia frequente, ossia togliere il chiodo che ho appena caricato per riportarlo un metro più in alto. Ripeto questa operazione una buona dozzina di volte per circa tre lunghezze di corda, tutto ciò è evidentemente non molto raccomandabile e mi angoscia leggermente. A dire il vero questo primo giorno mi ha lasciato con l’amaro in bocca; la notte mi sorprende a metà di uno strapiombo, stupidamente avevo commesso l’errore di non portare l’amaca ed il secondo bivacco non fu certo confortevole. Il mattino del giorno 27 il vento che soffiava mi dava una nuova carica: la giornata fu senza problemi, la scalata piacevole e veloce, con dei bei passaggi in arrampicata libera. Il giorno 28 al levarsi del sole lascio il terzo bivacco con un po’ di dispiacere perché era splendido. L’atmosfera particolarmente calma a quest’ora, la valle è ancora intorpidita, annegata nella nebbia, sono solo al mondo con questa fessura che sale diritto verso gli strapiombi; boot flake, questo è il suo nome e ha la sinistra reputazione di allargarsi a mano a mano che la si schioda. Mi impongo con scarso successo di non pensarci e poi tutto si svolge molto in fretta e molto bene.
Alexander Huber sul Nose, El Capitan
Mi attende ora il più lungo dei pendoli della parete. Ci provo, ho il sacco appeso alla fettuccia, due metri sotto le mie gambe. Mi accorgo che il progetto era troppo ambizioso. Ci provo senza il sacco, una, due, tre volte.
Corro a tutta velocità sulle placche mentre la corda gratta un po’ sinistramente sulla roccia granulosa. Ma non riesco a concludere nulla. Il punto più lontano che riesco aggiungere è ancora a più di quattro metri dal chiodo a espansione che assolutamente devo afferrare. Dopo una decina di prove sono sfinito. Allora scarico tutti i miei chiodi e moschettoni e, ripartendo più leggero oltrepasso addirittura, in un vero e proprio sprint col corpo orizzontale, il chiodo a espansione e non riesco ad agganciarlo al ritorno: questa volta ho voluto strafare. Con un moschettone tra i denti faccio il dodicesimo e questa volta vittorioso tentativo; mi sento decisamente sollevato, ma non sono certo fiero di me stesso.
Alexander Huber sul grande tetto del Nose, El Capitan
Questo giorno sarà uno dei più duri di tutti quelli che ho vissuto in parete, data la grande pericolosità dei passaggi. Fermandomi spesso, chiodo dei blocchi malfermi ed insicuri con una certa angoscia data dal fatto che ancora non ho sperimentato l’efficacia del mio sistema d’autoassicurazione; tuttavia ciò, da un dato punto di vista, è abbastanza incoraggiante. Ma cosa accadrebbe se uno di questi blocchi si staccasse? La corda è precisamente sulla traiettoria di uno di essi. Allora la paura mi assale, paralizzante. Rimango sovente più di un minuto a riflettere inutilmente appeso a un chiodo. Non smetto di immaginare, ma contro la mia volontà, le più drammatiche situazioni. Ora non sono più padrone dei miei pensieri, della mia immaginazione e il mio senso critico e razionale che si sbriciola è vacillante e mi lascia in preda al più grande nervosismo. Giunti a questo punto non rimane che una soluzione per uscirne: immergersi più profondamente nell’azione, fare convergere tutte le proprie risorse, legate come in un fascio, verso un’unica direzione: il presente, perché solo l’azione possiede le virtù che liberano e svuotano la mente. In alcuni momenti mi sembra che la coscienza si risvegli come da un sogno che si astragga dal presente. Ma perché sono qui? La montagna è per me come un bisogno che non si appaga mai, una sete insaziabile, che nessuna esperienza, sia essa difficile e drammatica, può spegnere.
Salgo con una lentezza opprimente verso il quarto bivacco, oasi di sicurezza così lontana da sembrarmi irraggiungibile. Non mi resta che mezzo litro d’acqua per la fine del giorno, sera e notte: è infinitamente poco quando si conosce il caldo torrido delle pareti del Capitan, gli alpinisti sprovveduti sottovalutavano spesso le condizioni atmosferiche al Yosemite. In settembre il caldo è soffocante nei versanti esposti a sud. Due ore in queste condizioni sono talvolta più spossanti che due giorni passati sulle Alpi.
Giuseppe Popi Miotti sul grande tetto del Nose, El Capitan
Mi ripeto che non devo, non devo più bere.
Allora scopro un trucco: aspiro profondamente aria dalla bocca completamente aperta e ciò mi dà la vaga illusione di un liquido che scorre nella gola. Chiodare, tirar su la corda che s’incastra; attrezzare il punto di sosta, scendere a corda doppia, fare un pendolo sullo strapiombo fino al punto di sosta inferiore: poi bisogna lasciar andare nel vuoto il sacco del materiale la cui corda è legata 40 metri più in alto. La parete è molto strapiombante, il sacco decolla mollemente fischiando nell’aria, è impressionante! Bisogna risalire, schiodare, poi tirar su il sacco, disporre le corde, scegliere i chiodi e ripartire di nuovo, ancora, ancora lentezza, calma; inquietudine e sete. Sovente sono obbligato a chiodare là dove potrei, senza l’impedimento del mio braccio, fare qualche passo in libera e guadagnare minuti preziosi. Tuttavia alle 20 raggiungo in extremis, nel buio più completo, la terrazza del “Campo 4”. Tutti i miei bivacchi si rassomigliano. Mezzo cielo stellato, gli ultimi rumori che salgono dal mondo che ho lasciato da molto tempo, mi sembra; poi insensibilmente la parete si anima. Un topo che corre su una cengia alla ricerca dei miei viveri, una rana che gracida in una fessura sopra dì me. Non capisco come questi animali possano vivere in un luogo così secco e arso. Infine a metà della notte la luna si alza e illumina tutto il bivacco. Neanche la sera del quarto giorno il bivacco fu diverso. Meccanicamente mi scarico del materiale, poi a tastoni ripongo tutta questa ferraglia, i grossi chiodi a sinistra, poi i moschettoni, con una cura quasi maniaca costruisco la mia ghirlanda. Scopro che il fatto di riporre, disporre, ordinare, ha un effetto rilassante, rassicurante. L’oscurità è quasi totale, non esiste più il vuoto né le fessure fuggenti verso valle, il mio mondo si limita a ciò che posso toccare. È in questo momento che le mie dita sfiorano un oggetto inaspettato, un libro incastrato in una fessura.
In arrampicata sulla via del Nose, El Capitan. Foto: Luca Biagini
Incredibile! Sto per farmi una biblioteca…
Cosa ci fa questo in questi strani posti? Prendo la lampada frontale: I Ching, il libro delle Metamorfosi, antico libro cinese che tratta delle divinazioni. Curioso incontro! Non apro il libro, non è certamente il momento di lasciare che fosche superstizioni invadano il mio spirito (d’altronde non è già per superstizione che non ho voluto aprire il libro?). Tutto ciò ci porterà ben presto al non passare mai sotto una corda oppure sempre il piede destro per primo nella staffa. In fondo voglio ben credere che domani accadrà, almeno in parte, ciò che io avrò scelto. Domani 29 devo superare il gran tetto di cui ho scorto due lunghezze più in alto l’ombra opprimente. Demistificazione, il passaggio del tetto mi ha tratto in inganno; come spesso accade in simili situazioni l’itinerario evita la parte strapiombante del tetto e si accontenta di seguire una fessura al limite tra il muro verticale e la parte orizzontale del tetto che non è più lunga di 30 metri. L’ambiente non è tuttavia meno severo, i chiodi sono saldi e facili da mettere, l’avanzamento è rapido, vivo l’esaltante sensazione che nulla mi potrà più fermare. Giorno dopo giorno il sacco del materiale diventa più leggero, sempre meno viveri, sempre meno acqua. Ora compio le manovre con le corde al punto di sosta in tempo minimo. Tre quarti d’ora per chiodare una lunghezza, un quarto d’ora per attrezzare il punto di sosta e scendere con la seconda corda alla sosta inferiore e mollare il sacco del materiale che dondola nel vuoto, 20 minuti per schiodare, 10 minuti per preparare la lunghezza seguente e issare il sacco: il ciclo adesso è di un’ora e 45 minuti cioè rapido.
Conto e riconto continuamente quante ore mi separano dalla fine dell’impresa, conto stretto, conto largo, margine di sicurezza, così tengo occupata la mia mente. Questa lunghezza di corda mi impegnerà per due ore, quella là mezz’ora di meno perché c’è un po’ di libera; ora dopo ora prendo possesso del futuro, provo a prevedere il seguito. Non sono dunque così sicuro di me stesso? Tuttavia tutto procede perfettamente bene. Il Campo 5 è una piccola terrazza che servì da base per l’assalto finale al tempo della prima ascensione, qui passo il mio quinto bivacco. Conto sedici chiodi a espansione piantati nel granito, vestigia dell’ultimo salvataggio. Da questa terrazza Jim Bridwell fu calato per tre ore, con un ferito sulle spalle, legato all’estremità di un’unica corda di 700 metri. Domani deve essere la mia ultima giornata completa in parete. Il 30 settembre chiodo furiosamente, senza tregua, fessure e muri straordinariamente strapiombanti con la speranza di raggiungere l’ultimo bivacco prima della cima, almeno secondo il pronostico di Jim. Alle 19, nella penombra, mettevo piede su di un minuscolo scalino all’uscita di un diedro strapiombante di 300 metri: era il bivacco indicato, tre lunghezze sotto la cima; momento amaro: con un piede sulla roccia e l’altro in una staffa la notte fu lunga, la conclusione vicina mi rende nervoso.
L’arrivo in vetta di Patrick Cordier la domenica del 1° ottobre 1972 sulla via del Nose di El Capitan in California. (Foto Sylvie Cordier)
Domenica 1° ottobre si annuncia con una tenue luce verso est e riparto in una nuvola di piume perché ho bucato il mio duvet. Le 10. Una trentina di chiodi a espansione piantati negli strapiombi sommitali mi separano ancora dal mondo degli altri. L’arrampicata è rapida, incredibilmente serena. Una freschezza autunnale corre sulla roccia e indovino il fremito di qualche cespuglio al suo passaggio, là in alto, dietro l’ultima gobba di granito. Al di là di uno spigolo, subto l’aria mi porta un odore di resina e di ginepro. La foresta! È là, deve essere là, molto vicina, ma non la vedo. Ho voglia di correre, ma ci sono gli strapiombi e la verticalità della parete. Una traversata a destra, poi improvvisamente non c’è più nulla, solo il cielo. Una voce molto vicina… qualcuno arriva. In meno di 30 secondi mi scarico di tutto materiale e lo attacco a un grosso chiodo a espansione, l’ultimo chiodo. Risalgo correndo delle placche inclinate facili, una testa sconosciuta emerge dietro un blocco: «All right». In un istante faccio di questo incontro un amico carissimo. Altri sono là e mi circondano. Parlo senza smettere. Non avevo mai sospettato il piacere che si può provare a parlare. Parlo di tutto e di nulla, di non so cosa ed anche dei giorni che ho vissuto. È una bella domenica…
Patrick Cordier su Wikipedia (in francese)
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