Sulla Marmolada di Rocca – 2

Metadiario – 27 – Marmolada di Rocca, parete sud, un nuovo problema (AG 1970-007)
di Alberto Dorigatti

(continua da https://gognablog.sherpa-gate.com/una-vita-dalpinismo-26-sulla-marmolada-di-rocca/)

Il rifugio Contrin è pressoché deserto, è la fine di agosto, ormai la stagione turistica sta per finire. Sotto un caldo sole pomeridiano ci incamminiamo verso il passo Ombretta. Stanotte dormiremo al bivacco Marco Dal Bianco. Domani se il tempo sarà buono attaccheremo la parete sud della Marmolada; è nostra intenzione aprire un nuovo itinerario tra le vie Messner e Vinatzer, il nostro obiettivo è lo spigolo di Punta Rocca, che dalla cengia intermedia si alza aereo sino alla vetta.

Alcuni giorni fa, con Gogna, mi ero già portato sotto la parete e, dopo aver saggiato il terreno con alcune lunghezze di corda, ridiscesi ci siamo studiati l’itinerario.

Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI

Oggi siamo in quattro, con me c’è Almo Giambisi, albergatore del Passo del Pordoi; è a lui che dobbiamo l’idea della nuova via. Alessandro ha come compagno di cordata Bruno Allemand, un giovane con un solo anno di attività alle spalle e doti eccezionali.

Al bivacco siamo soli, c’è ancora un po’ di sole, prepariamo ogni cosa per l’indomani sotto l’attento sguardo del nostro spigolo che, illuminato dall’ultimo sole, si presenta ancora più vivo e affilato.

Siamo ben allenati, la nostra attrezzatura è completa, ci pervade però un senso di inquietudine, di incertezza; non sappiamo cosa ci aspetti domani sulla parete: una sola placca, imbattibile in arrampicata libera, senza l’ombra di fessure, e tutti i nostri sogni svaniscono in un amaro ripiego. Tutto questo per una nostra semplice volontaria dimenticanza, infatti non abbiamo con noi chiodi ad espansione. Basta quindi trascurare questo piccolo particolare nell’attrezzatura, per rendere tutta la salita un’incognita, un vero problema alpinistico e come tale risolvibile solo con la massima serietà con quello spirito di avventura e di ardimento con cui Vinatzer nel 1936 si era cimentato sulla stessa parete. Penso che l’attaccare una simile parete con i chiodi ad espansione sarebbe stato poco leale nei confronti di tutti coloro che già l’avevano salita senza; sarebbe stato un ulteriore passo verso la svalutazione dell’alpinismo.


Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI

È ancora buio quando scendiamo dal passo verso l’attacco della nostra via; fa freddo e ognuno di noi è immerso nei suoi pensieri, solo dopo le prime lunghezze di corda ritroviamo noi stessi. Il primo giorno ci ha riservato una meravigliosa arrampicata; piccole cenge e compatte fessure ci hanno portato in cengia, permettendoci di passare con qualche gioco di equilibrio in un mare di placche. Il tempo si è mantenuto bello e sulla cengia possiamo goderci qualche raggio di sole. Per bivaccare il posto è ideale, e mentre Alessandro Gogna e Bruno Allemand attrezzano una lunghezza sopra la cengia per l’indomani, io ed Almo Giambisi allestiamo il bivacco e prepariamo il primo pasto giornaliero.


Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI, 16a lunghezza

Alcune voci richiamano la nostra attenzione, poco dopo vediamo spuntare dal grande camino della via Vinatzer un alpinista austriaco; ma quel che maggiormente ci stupisce è il vedere il suo compagno di cordata: una bella figliola. Nel vederla salire, sicura e sorridente lungo una delle vie più impegnative delle Dolomiti, mi ritorna alla mente, fra le altre cose, il racconto di Guido Rey sulla salita della via Bettega di questa parete; quale differenza fra la compagna di salita di Rey con «quel pallido sorriso forzato, là sulla terrazza deserta», e la nostra occasionale compagna di terrazza! Indubbiamente, anche la donna ha avuto la sua evoluzione. La coppia austriaca ci lascia subito; con le ore di luce che ancora rimangono, può salire anche la parte alta della Vinatzer.


Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI, 19a lunghezza

La notte trascorre veloce, riusciamo a dormire abbastanza; purtroppo il tempo si va guastando e al mattino comprendiamo la difficile situazione in cui ci troviamo. La neve comincia a cadere, mentre siamo impegnati nelle prime lunghezze di corda sopra la cengia; non ci resta che uscire al più presto dalla parete, evitando possibilmente un secondo bivacco.

Siamo ormai in pieno spigolo, forti raffiche di vento ci disturbano. Durante un azzardato passaggio su una placca ghiacciata, volo alcuni metri, fortunatamente senza conseguenze; decidiamo così di formare un’unica cordata: avremo maggiori possibilità di uscire in giornata, senza altri incidenti.


Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI

È ormai buio e la neve ricomincia a cadere; dobbiamo arrampicare con le lampadine elettriche; la vetta non deve essere lontana.

Sono le 22 circa, quando Alessandro tocca la cima; non nevica più, un vento freddo ci gela i vestiti bagnati. Dimentichiamo tutto: i fulmini, la neve, il freddo, attraverso la luce delle lampadine leggo sui volti dei miei compagni la loro grande gioia; una stretta di mano e velocemente ci portiamo verso la stazione di arrivo della funivia.

Abbiamo superato la parete con le nostre forze, senza sotterfugi, essa ci ha offerto un itinerario impegnativo ma logico, noi l’abbiamo attrezzato e seguito.


Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI, Alberto Dorigatti dopo la seconda grandinata

Relazione tecnica
Marmolada di Rocca 3309 m – Parete sud – via 50° della FISI.

Prima salita: Alessandro Gogna, Alberto Dorigatti, Almo Giambisi e Bruno Allemand, il 27-28 agosto 1970; seconda salita: Sergio Martini e Paolo Leoni, il 1-2 settembre 1970; terza salita: Marco Pilati e Valentino Chini, il 5-6 settembre 1970; quarta salita: Pit Schubert e Klaus Werner, il 7 settembre 1970.

La parete a triangolo isoscele, alta 400 metri, che dalla cengia della parete sud della Marmolada di Rocca sale fino alla vetta, presenta un enorme spigolo all’estremo sinistro. Esso fornisce la direttiva della nuova via. Dall’attacco al cengione si seguono le placche sotto la verticale dello spigolone.

Attacco: circa 150 metri a sinistra dell’attacco Vinatzer e circa 60 metri a destra dell’attacco Messner, in corrispondenza di alcune rampe interrotte da gradoni. Si sale obliquando a destra, fino ad un ottimo terrazzo (ometto di sassi) situato a circa 40 metri dalle ghiaie (un diedrino di III con passo di IV). Si è così sotto una fessura-diedro. Salire la fessura che, dopo pochi metri, comincia a strapiombare. Superare la strozzatura e fermarsi sotto una seconda strozzatura, più marcata (20 m, 7 ch., V+, A2, VI-). S1 discreta.
Proseguire nella fessura-camino, superando la strozzatura a campana, poi più facilmente, e con una piccola deviazione a sinistra, fino ad un pilastrino. Da qui a destra, in salita artificiale, fino a girare uno spigolo grigio (20 m, 3 ch., V+, IV, III, A1, V). S2 su piccola cengetta. Seguirla a destra 4 m, salire 3 m a 2 chiodi (1 ch., A1, e VI-), calarsi a destra in traversata a corda, fino ad un altro chiodo. Salire a un altro chiodo ancora (A1) e di lì continuare la traversata a corda (difficile) fino al punto di sosta S3. Diritti fino ad un chiodo (8 metri, V), traversare a corda sulla destra (1 metro), poi obliquare a sinistra per 15 metri fino ad una grotta (V e IV). S4. Proseguire obliqui a sinistra 6-7 m, poi obliqui a destra 6-7 m in fessura fino ad un terrazzino. Continuare sempre nella fessura 10 metri fino a una buca (25 m, 1 ch., IV-, V, V+). S5. Continuare nella fessura, sempre un po’ obliqua a destra 10 metri fino alla sommità di un pilastro appoggiato, poi in un piccolo diedro molto aperto e obliquo a sinistra di 15 metri, infine in parete, sempre seguendo la fessura (40 m, 5 ch. e 1 cuneo: IV e V-, V+, A1, VI, V-). S6, su piccoli appoggi. Traversare a corda in basso a sinistra 5 m (servendosi di 1 chiodo 4 metri più alto), poi continuare facilmente altri 5 m fino ad un canalino abbattuto. S7. Salire il canalino 30 m, poi traversare a destra 10 m fino a una cengetta (35 m: III, IV, IV+). S8. Traversare a destra in leggera discesa 10 m (V+, poi III), salire una fessura di 10 m (V e IV) fino alla sommità di un pilastrino. S9. Traversare a corda in basso a destra 5 m, poi risalire su un piccolo pulpito (2 m: V+). S10. Salire diritti una fessura con chiodi fino a una cengia (15 m, 3 ch. e un cuneo: V+, A1, V+). S11. Traversare facilmente a destra, risalire un muretto di 10 m, fino a una cengia, poi in parete, qui più abbattuta, per altri 30 m (40 m: IV+, III, IV+). S12. Continuare diritti su piccolo pilastrino friabile e appoggiato 15 m, poi traversare su una cengetta a destra 7-8 m, poi ancora diritti 20 m fino a una cattiva sosta in una grossa nicchia (40 m, 1ch.: V+,III-,V+ con un passaggio di VI). S13. Traversare 6 m a destra, poi salire una fessura formata da una lastra staccata per 15 metri fino alla sosta su una cengetta (20 m, 6 ch.: III+, A1 e VI-, con un passaggio di VI+). S14. Traversare a destra sulla cengetta, poi traversare a destra a corda (1 chiodo) qualche metro fino a entrare nel gran canalone con acqua. S15, ottima. Salire il canalone sul lato destro (25 m, 4 ch.: IV e V-, V+, VI-, V). S16 su chiodi. Ancora nel canalone per fessura con chiodi (20 m, 6 ch. e 2 cunei – A1 con uscita di V+). S17 su cengia comoda. Traversare la cengia a destra 20 m e risalire diritti 40 m al gran cengione (II e III). S18. Attaccare la barriera verticale e strapiombante che difende lo spigolone di Punta Rocca circa 10 m a sinistra dell’uscita della via Vinatzer sulla cengia. Si segue una fessura con chiodi fino a raggiungere le placconate immediatamente superiori (35 m, 10 ch.: IV, VI, A1, A3, VI+, IV+). S19 su comoda cengetta. Diritti 40 m per le placconate. (III e IV). S20. Leggermente obliqui a sinistra 40 m sulle placconate (IV e IV+). S21. Traversare a sinistra per cenge e saltini, fino all’inizio di un camino-diedro. S22. Salire nel camino-diedro 12 m (IV+) e raggiungere il filo dello spigolo. Per esso 20 m fino ad un forcellino (1 ch.: VI- e V). S23. Obliqui a destra, poi di nuovo a sinistra fino a piccola cengia sotto un muretto verticale (30 m, 2 ch. e 1 cuneo di plastica: V+ e VI-). S24. Superare il muretto (A1 e VI-) poi sulle placche (IV) fino a piccolo terrazzino (35 m, 1 ch.). S25. Rampa di qualche metro a destra, poi diritti fino alla cengia, da cui si ritorna sullo spigolo fino alla base di un risalto giallastro (40 m: V e IV). S26 sulla spalla. 20 metri diritti sul risalto (2 ch: VI e V). S27 su piccolo terrazzino. 13 metri diritti, poi traversare a destra 5 m, poi ancora diritti 8 m fino a un terrazzino (25 m, 9 ch., 1 cuneo e 1 cunei di plastica: A1 e VI, poi A1 sulla traversata, poi A1 e VI-, V). S28.  Obliquare a destra, poi a sinistra (10 m, IV+). S29 sullo spigolo. Diritti in arrampicata artificiale 15 m, poi traversare su una cengetta e prendere un camino che riporta sullo spigolo (25 m, 6 ch.: A2 e V+, IV). S30. Obliqui a destra in salita artificiale, poi in un camino-diedro fino allo spigolo (20 m: A1, V+, 6 ch.). S31 buona. 20 metri sullo spigolo arrotondato (passaggio chiave della salita, A4, V e VI-, 12 ch.). S32, cattiva. 20 metri sullo spigolo arrotondato (5 ch.: VI-, A1, V+). S33, discreta, sotto l’ultimo salto. Superarlo a sinistra (3 ch., 6 m: A1). S34 all’uscita della via. Continuare facilmente fino alla vetta.

101 chiodi, di cui 96 lasciati; 5 cunei lasciati; 53 chiodi sosta lasciati e 2 cunei plastica lasciati.

Marmolada, 1970, 1a ascensione via 50° della FISI, 32a lunghezza

Marmolada 1970
di Almo Giambisi
(da facebook, 3 novembre 2018)

Da due anni mi ero stabilito al Passo Pordoi all’albergo Col di Lana che avevo preso in gestione con la mia famiglia. Nel 1969, conoscendo già l’ambiente alpinistico fassano, con Carlo Platter, Lodovico Vaia, Emilio Talmon e Renzo Planchensteiner avevo fondato il gruppo Ciamorces di Fassa. Faccio parte di quella generazione di alpinisti che negli anni ‘60 cercavano strapiombi, vie a goccia d’acqua, l’artificiale estremo pensando che non ci fossero più vie logiche che valesse la pena di salire: dopo alcune ripetizioni di queste vie, avevo individuato l’unico grande strapiombo sulla parete est del Catinaccio che salii con Sereno Barbacetto a più riprese e due bivacchi in parete e che chiamammo di comune accordo via CAI Alto Adige. Il periodo dell’artificiale non ebbe lunga durata, alpinisti emergenti volevano ritornare ad arrampicare, mettendosi in gioco, salire in maniera più pulita, non volevano stare in parete con punta e mazzetto, fare buchi per chiodi a pressione e rimanere in parete giorni e giorni, fare bivacchi freddi e scomodi: effettivamente avevano ragione, io stesso avevo provato questi disagi. All’albergo Col di Lana c’era una bella foto in bianco e nero a suo tempo regalata da Fosco Maraini a Tita Piaz della parete sud della Marmolada che conservo ancora gelosamente. Sulla Sud allora erano state realizzate 12 o 13 vie dai grandi alpinisti degli anni Trenta e nell’immediato dopoguerra, notai che sulla punta Rocca, in ordine di altezza seconda solo a Punta Penìa, non arrivava nessuna via in cima mentre invece sulla cima principale Micheluzzi e compagni avevano tracciato il loro capolavoro. Sulla foto vidi il più lungo spigolo che dalla cengia portava in cima a Punta Rocca, pensai subito che fosse uno dei maggiori problemi dolomitici del tempo trattandosi della Regina delle Dolomiti ed una delle più grandi pareti. Il progetto mi prese, e per me diventò un chiodo fisso pur sapendo che il lavoro e l’impegno della gestione dell’albergo mi lasciava poco tempo per allenarmi e prepararmi per una simile impresa: per assurdo mi trovavo nel cuore delle Dolomiti con una gran voglia di scalare, ma era come essere in un vigneto con l’impossibilità di mangiare l’uva. Ne parlai con diversi alpinisti che frequentavano il Pordoi, ma non trovai in loro la voglia di impegnarsi. Le salite in artificiale avevano fatto il loro tempo, era iniziata la volontà di cimentarsi sulle vie in arrampicata libera, si erano formate varie correnti di pensiero, termini come non uccidete il Drago erano slogan correnti. Io arrampicavo spesso con Alberto Dorigatti e Aldo Leviti, due talenti tra i migliori del tempo: ne parlai con loro e Alberto fu subito interessato al progetto. Conobbi anche Alessandro Gogna già affermato alpinista, era alla scuola di polizia a Moena, lo coinvolsi e fu subito entusiasta, poi si aggregò Bruno Allemand anche lui poliziotto. L’accordo per la salita si stabilì per la fine dell’estate del 70, io non potevo muovermi prima. Durante la stagione fui molto impegnato con il lavoro, non riuscii ad allenarmi molto, ma ci tenevo ad essere della partita, era stata una mia idea e non volevo lasciarmela scappare. I miei compagni mi avevano incoraggiato dicendomi che con il mio fisico non avrei avuto problemi, ma soffrii molto la salita, la parte del leone la fecero Alessandro e Alberto, dopo un bivacco in cengia in una grotta il giorno dopo fu molto impegnativo, vento, pioggia, neve e bufera non ci diedero tregua, arrivammo in vetta alla sera tardi, la stazione a monte della funivia riscaldata fu provvidenziale, una bella avventura. La via, in comune accordo, la chiamammo Via del Cinquantenario della FISI (il cinquantesimo anniversario della fondazione). Ora sulla parete sud della Marmolada ci sono 180 vie di salita, forse un po’ troppe, io sono sempre stato per l’evoluzione dell’alpinismo, non voglio esprimere un giudizio, metto solo un punto di domanda.

Dopo la Sud della Marmolada: Giambisi, Gogna, Allemand intervistati

Una mancata partecipazione
(autunno 1970)

Da Moena, il 27 settembre 1970, scrivevo al sig. Norman Dyhrenfurth (Weiserstrasse 6, Salzburg, Austria) il mio curriculum, come da accordi durante una nostra chiacchierata alla Cantinota di Trento. Con il prezioso aiuto di Ornella, un lungo dialogo tra italiano, tedesco e inglese. Norman era figlio del grande himalaysta Günther Oskar. Ero venuto a sapere che era il direttore della grande spedizione internazionale alla parete sud-ovest dell’Everest e non volevo perdere quell’occasione.

La sua risposta, del 19 ottobre, non fu prontissima: «[…] Il conte Ugo di Vallepiana sa che tu, Gianni Rusconi e Carlo Mauri avete fatto domanda per un posto nel nostro team. Lui sa anche dei nostri problemi economici, dunque sta cercando di trovare qualche sponsor in Italia. C’è anche un altro problema in più: da quando ci siamo incontrati a Trento, la nostra squadra è aumentata tremendamente di numero: si sono aggiunti due giapponesi e un’equipe britannica di sette operatori televisivi della BBC. Con anche un alpinista nepalese aggiunto, ora siamo in 29! Più 40 sherpa e 20 speciali Khumbu-Icefall porters. Sembra che, quando partiremo il 25 febbraio 1971 da Kathmandu, saremo un esercito di quasi 1000 uomini! A dispetto del fatto che la tua preparazione per questa avventura è fuori discussione, mi spiace dirti che non vedo al momento alcun modo di aggiungerti».

Naturalmente non mi arresi e il 22 ottobre scrissi a Ugo di Vallepiana, l’allora presidente del CAAI di cui io non facevo ancora parte, lamentando che ero stato escluso dalla spedizione per una mera questione di soldi. «Mi dice anche che tu stai cercando di ottenere un fondo per far partecipare Rusconi, Mauri e me. A che punto sei? A quanto pare le spese pro-capite ammontano a lire 5.312.500, una bella somma, quasi pazzesca. Ora io scriverò a Dyhrenfurth per sapere se, mettendogli in mano i 5 milioni, io possa o no partecipare. Impazzirei all’idea di poter andare con loro e anche lui sarebbe contento, vista la mia attività. E’ poi un peccato che non ci sia neppure un italiano. Ti sarei molto grato se tu mi dicessi come stanno le cose, cosicché io possa eventualmente cercare la somma da qualche altra parte […]».

In contemporanea scrivevo ancora a Dyhrenfurth chiedendogli papale papale: “If I have 8,500 dollars in my hands, may I be in your team?”.

Il primo a rispondermi (26 ottobre) fu Di Vallepiana: «[…] La Spedizione Internazionale all’Everest organizzata dal dott. Dyhrenfurth è una iniziativa strettamente privata finanziata dalla Radio Televisione Inglese, dai singoli partecipanti (i quali, a loro volta, sono finanziati dai giornali ai quali collaborano) e, solo in minima parte, da società alpinistiche. Gli alpinisti che partecipano a questa spedizione sono ben 30 fra americani, inglesi, tedeschi, austriaci, giapponesi, norvegesi, uno svizzero, forse un francese ed un italiano (Mauri). Vi sarà certamente il problema della lingua con relativi malintesi oltre, poi, temo, una certa rivalità di gruppi. La quota di partecipazione, per ogni individuo, è salita a 10.000 $. Per una quantità di considerazioni, che io condivido (oltre alla spesa, in quella massa il Club Alpino Italiano, anche partecipandovi, passerebbe nell’ombra data la predominanza economica del gruppo americano e del gruppo inglese per il finanziamento della Radio Televisione), il CAI, come tale, non partecipa. Carlo Mauri vi partecipa in proprio in quanto un giornale lo finanzia. Questa, in poche parole, la situazione. Certo è, però, che ormai l’organizzazione è molto avanzata cosicché il tempo stringe; mettiti, di conseguenza, direttamente in contatto con Dyhrenfurth: auguri di successo».

Seguì poi la risposta di Dyhrenfurth (27 ottobre): «Carlo Mauri è venuto a Salzburg da me, il suo giornale Corriere della Sera intende sponsorizzare la sua partecipazione e pagherà tutte le sue spese oltre a dotarlo di tutto il necessario materiale foto e film. In cambio vogliono l’esclusiva per l’Italia.

Il nostro team è ora di 29 membri. Alla tua domanda diretta “se avessi gli 8.500 dollari…” difficilmente posso rispondere. 1) Il team è già molto voluminoso, 2) l’esclusiva per la stampa italiana è già aggiudicata (e questo ti priva di sicuro di una buona possibilità di ottenere i quattrini). Come pensi di farcela? Anche Gianni Rusconi mi ha telefonato un po’ di tempo fa, voleva sapere a che punto stavano le esclusive italiane. Insomma le possibilità di aggiungere un altro italiano sono davvero minime […]».

Risposi a mia volta (29 ottobre) che, visto l’elenco dei partecipanti, forse la spedizione aveva ancora bisogno di qualche uomo di punta in più… ma non insistetti ulteriormente.

La spedizione fu litigiosa e del tutto fallimentare, in più funestata dalla morte per sfinimento dell’indiano Harsch Bahuguna. Per un resoconto particolareggiato vedi American Alpine Journal 1972, pagg. 7-20. Mentirei se non dicessi che un po’ ero sollevato per ciò che, alla fine, il destino mi aveva evitato.

Sulla Marmolada di Rocca – 2 ultima modifica: 2020-08-28T05:40:43+02:00 da GognaBlog

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