Metadiario – 01 – 1a invernale alla Nord-est del Pizzo Badile (AG 1968-001)
(scritto nell’aprile 1968, in corsivo le note odierne)
Pizzo Badile 3308 m – parete nord-est, via Cassin, prima ascensione invernale: Paolo Armando, Camille Bournissen, Gianni Calcagno, Michel Darbellay, Alessandro Gogna, Daniel Troillet, dal 21 dicembre 1967 al 2 gennaio 1968. 10 bivacchi in parete più uno in vetta. Oggi cadono i cinquanta anni.
I protagonisti
A quest’impresa seguì un lungo ciclo di conferenze, che tenevo nelle varie sezioni del CAI e in alcuni circoli aziendali. Parlavo delle nostre avventure al Badile: mi piaceva raccontare, ero felice di proiettare quel poco materiale illustrativo che ero riuscito a racimolare con l’aiuto degli amici svizzeri. Dopo la presentazione al pubblico, prendevo io il microfono e non ero mai impacciato. Incominciavo così:
«Il 2 gennaio 1968, alle 16.15, sei alpinisti sono giunti in vetta al Pizzo Badile, per la via Cassin, compiendone la prima ascensione invernale. Tre guide svizzere e tre italiani senza guide. Questa sera, prima di iniziare la presentazione delle diapositive, vorrei parlare un po’ di questo nostro gruppo, la nostra cordata europea. Penso che una compagnia più male assortita della nostra non si sia mai avuta. L’unica qualità che ci accomuna è la notevole durezza di testa e la fondamentale capacità di soffrire. Come ci siamo incontrati con gli svizzeri dirò poi; per ora mi limito a tratteggiare rapidamente le nostre più sommarie caratteristiche.
A esattamente cinquant’anni dal binomio 1967-1968, in mancanza di celebrazioni di alcun tipo (dopo la scomparsa di Paolo Armando, Gianni Calcagno e Michel Darbellay), ci hanno pensato alcuni amici a condividere con me il ricordo di quelle giornate. Il team familiare di Marco Furlani ha inciso a mano questa scatola di legno e ci ha messo dentro, grazie alla Cantina Fratelli Pisoni di Sarche (TN), una bottiglia da collezione di Merlot Trentino… del 1967!
Pietramurata, 31 dicembre 2017. Da sinistra, Alberto Rampini, Giuliano Bressan, Marco Furlani, Alessandro Gogna e Carlo Barbolini
Daniel Troillet, 22 anni, guida di Orsières, forse il più dimenticato dei sei, quello di cui non si ricorda mai tanto bene il nome. Per questo voglio nominarlo per primo. Voi sapete che le guide di trent’anni non trattano sempre gentilmente quelle di ventidue, per l’anzianità, l’esperienza, il rispetto. Non è il nostro caso. Daniel era alla pari con gli altri e spesso gli veniva chiesto il parere. Fisicamente è magro e altissimo, tanto da sembrare un lampione. Gli manca solo la lampadina. Non credo che in tutta l’ascensione abbia pronunciato più di duecento parole: durante un bivacco al nevaio centrale, dopo una giornata molto nera per tutti, per aver constatato quanto la cosa andasse per le lunghe e mentre noi italiani cantavamo per dimenticare l’umido che inzuppava gli abiti e mentre gli svizzeri stavano molto silenziosi in meditazione, Daniel sillabò: Vous avez le moral! Dopo un po’ l’allegria era ancora aumentata.
Michel Darbellay, 33 anni, anche lui guida ad Orsières, il più conosciuto. La sua salita leggendaria (1963) alla parete nord dell’Eiger, da solo, lo qualifica eccezionale. Michel e io ci somigliamo, a parte gli occhi di differente colore. La testa è in entrambi riccioluta, tanto da far invidia a Gianni e Paolo per i quali, se la misura della forza fosse data dal segreto di Sansone, la Nord-est non sarebbe mai stata realtà. Ogni osservazione di Michel era sempre da noi ascoltata con grande interesse. Parlava molto lentamente, nello sforzo di non attribuire alcuna importanza al suo discorso. Modestia così contrastante con la sua notorietà. Noi lo ammiravamo per tante ragioni, ma questa è la principale.
Camille Bournissen, 30 anni, guida a Heremence, il più chiacchierone, ottimista. Se un primato si può attribuire a Camille, un uomo però che di primati ne può contare parecchi, è quello dell’avversione all’esibizionismo e alla reclamizzazione. Ma, intendiamoci bene, quando si parla di avversione trattandosi di Camille, si deve intendere odio, senza compromessi: per lui esistono il bianco e il nero, il bene e il male, racchiusi in un universo quadrato e immutabile, senza sfumature. Non conosce la paura di stancarsi, il verbo rallentare. Ha poco di moderno: per fortuna nostra egli è mansueto e non imperversa che su poche cose. I giornalisti sono in primo piano, la sola loro presenza lo imbestialisce e lo spinge a reazioni inconsulte, quali girare come un orso per gli alberghi, con i soli calzettoni, a nascondersi in cucina. Seguono i fotografi a breve distanza.
Pizzo Badile, parete nord-est, 1a invernale, tracciato. Foto: Renato Avanzini
Quando nel ’64 feci a Genova il Corso d’Alpinismo, uno dei miei primi istruttori fu Gianni Calcagno. Devo dire che la mia presunzione di allora trovò subito un duro ostacolo. Ricordo che vi fu uno scambio verbale sostenuto per via di un chiodo, secondo me inutile. Alla fine Gianni era inferocito. Dopo un odio profondo, scoprimmo che i caratteri erano simili. Fu un numero impressionante di salite insieme: di noi dissero che arrampicavamo a cottimo e che nelle nostre preghiere serali invocassimo “dacci oggi il nostro sesto quotidiano”. Gianni ha un fatto personale con l’alcool e il caffè. Ha invece fiducia smisurata nelle vitamine e ci costringeva alla somministrazione continua di strane gocce e amarissime pastiglie. In compenso è un ottimo cuoco: cosa c’è di meglio infatti che gustare ogni sera una buona minestra liofilizzata ed omogeneizzata al punto giusto? Gran maestro nell’arte dell’insaccamento, ha fatto sospettare qualcuno che possedesse virtù magiche nel riuscire a far entrare volumi inusitati negli zaini.
25 dicembre 1967, ritirata generale, D. Troillet, C. Bournissen, P. Armando, G. Calcagno, A. Gogna. Foto:Michel Darbellay
Passo quindi a Paolo Armando: di aspetto tipicamente “crucco”, per capigliatura e barba biondastre, il “nostro” è un umorista che osserva distaccato ma benevolmente le così di questo povero mondo, mentre un lieve sorriso ecclesiastico gli increspa le labbra. È stato il primo di noi a volere il Badile, contrastando molto con la sua studiata assenza di programmi. Meticoloso in arrampicata, lasciava le sue masserizie nella distribuzione più disordinata. Quando lo conobbi nel 1966 litigammo immediatamente. Ricordo che ci furono alcune imbarazzanti rappresaglie.
Infine dovrei dire qualcosa sul mio conto, ma siccome dovrò ancora parlare, passo alla proiezione».
Le grandi salite invernali e la Nord-est del Badile
La via Comici alla Grande di Lavaredo
Il 20 e 21 marzo 1938 è vinta la parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Fritz Kasparek e Sepp Brünhuber, con questa impresa, iniziano la serie di salite estreme nella più ostile delle stagioni, l’inverno.
È indicativo che questo atto ufficiale di nascita coincida con la fine dell’epoca delle «tre ultime Nord». È ben vero che né lo Sperone della Walker, né l’Eigerwand erano state salite, ma troppi morti, troppi tentativi sanguinosi vi erano stati, perché non si sentisse vicina l’imminente risoluzione. E infatti, pochi mesi dopo, si ebbero le due splendide vittorie. Indicativo, perché con questa prima impresa invernale si scoprivano nuove mete ai giovani, tesi all’estremamente difficile; mete di cui allora si sentiva un poco il prossimo esaurimento.
La parete nord della Cima Grande di Lavaredo era stata vinta nel 1933 da Emilio Comici e dai fratelli Angelo e Giuseppe Dimai. Venne quasi subito ripetuta da Peter e Paul Aschenbrenner e, negli anni immediatamente successivi, ebbe una serie impressionante di ripetizioni, culminanti con la solitaria di Comici e con la prima invernale. Strano destino di una via. Le altre dovevano solitamente attendere molti anni prima che qualcuno osasse ripercorrere le orme del “grande” che l’aveva aperta. E la storia è piena d’esempi. Ma forse qui stava cambiando l’epoca e tanti erano pronti a ripetere ciò che uno aveva appena fatto.
Esaminiamo da vicino la parete. 550 metri di dislivello, esposizione a nord, difficoltà estreme per 230 m poi quinto grado fino alle roccette terminali. Ma difficoltà estreme non è il termine esatto. Nel marzo del 1938 si era già fatto molto cammino rispetto al 1933. Vie come la Carlesso alla Sud della Torre Trieste, la Nord della Cima Ovest di Lavaredo, la Soldà e la Vinatzer alla Marmolada erano state interposte e, per gente come Kasparek e Brünhuber, d’estate, quei 230 metri non erano più estremi. Il quinto grado finale, poi, che è tutto in camino, poteva presentare notevolissime incognite. Però quel quinto grado è verticale e il camino non è abbastanza profondo perché la neve e il ghiaccio vi si soffermino in quantità. I posti da bivacco, sempre sgombri da neve, non mancavano. E così si ebbe la splendida impresa. Una lotta sovrumana più che altro contro il freddo che attanagliava le dita e contro cui gli scalatori non avevano alcuna arma e nessuna difesa psicologica dovuta a un inesistente esempio altrui.
Dall’esame della parete pre-impresa, c’erano dunque tutte le condizioni per una pazzesca, ma nello stesso tempo possibile impresa. Vale a dire le condizioni necessarie e sufficienti per fare di un’impresa una tappa fondamentale nella storia dell’alpinismo. Il limite oggettivo delle difficoltà è ulteriormente spostato, il gioco si rinnova, e le regole non cambiano.
Pizzo Badile, parete nord-est, 1a invernale. Foto: Renato Avanzini
Nelle Dolomiti
Bisogna attendere dodici anni prima che qualcuno osi fare di più oggettivamente. Bisogna attendere che anche ciò che nel 1938 era sesto superiore non sia più tale. Quando il limite oggettivo, già raggiunto con la Soldà alla parete sud-ovest della Marmolada, fosse stato superato, o per lo meno più volte uguagliato, allora sarebbe venuto il suo momento in inverno. Dal 19 al 20 marzo 1950, Hermann Buhl e Kuno Rainer affrontano la parete e la vincono con un bivacco. È raggiunto il limite massimo? Non ancora, perché tante altre salite sul tipo della Soldà, ma più impegnative e più lunghe, rimangono da fare. E così s’inizia la serie: la Cassin alla Nord della Cima Ovest di Lavaredo (Walter Bonatti e Carlo Mauri, dal 22 al 24 febbraio 1953), la Carlesso alla Sud della Torre Trieste (Armando Aste e Angelo Miorandi, dal 6 al 10 marzo 1957), la Brandler-Hasse alla Nord della Cima Grande di Lavaredo (Peter Siegert, R. Jäger, Reiner Kauschke, Werner Bittner, dal 13 al 17 febbraio 1961), la via Livanos-Gabriel sul diedro nord-ovest della Cima Su Alto (Roberto Sorgato, Giorgio Redaelli, Giorgio Ronchi, dal 19 al 22 febbraio 1962), la Vinatzer-Castiglioni alla Sud della Marmolada di Rocca (Otto Wiedmann, Walter Spitzensatter, dal 5 al 9 marzo 1967). Un filone che va verso l’esaurimento.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale. Una cordata raggiunge il nevaio centrale. Foto: Michel Darbellay
Nelle Occidentali
Nelle Occidentali intanto si preparava la strada alla caduta delle barriere psicologiche che resistevano circa la possibilità invernale di certe salite. Il 28-29 marzo 1948 cade la Cresta di Peutérey (Otto Gerecht, Hannes Husz ed Emil Meier), poi le due bellissime imprese di Arthur Ottoz e Toni Gobbi (23 marzo 1953, Monte Bianco, via Major) e Gigi Panei e Sergio Viotto (25 marzo 1953, Monte Bianco, Cresta dell’Innominata). Queste imprese sono le prime di una lunga serie, di cui forse il più splendido esempio si è avuto sulla Poire, 8-9 febbraio 1965, con Attilio e Alessio Ollier e Francis Salluard.
Ma l’impresa principe nel Gruppo del Bianco, dal 1950 al 1960, quella che s’impose come la massima, quella che in definitiva segnò una grande tappa, fu brillantemente compiuta da René Desmaison e Jean Couzy dal 10 al 14 marzo 1957 sulla via Magnone alla parete ovest del Petit Dru. Difficoltà dolomitiche ed estreme su una grande montagna del Bianco, 700 metri di parete con una discesa problematica. Questo basta a delineare il quadro. Salite come queste segnarono un’epoca e sulla scia di questa ci furono tante altre bellissime imprese quali, nell’ordine, la parete est del Grand Capucin (27-29 febbraio 1959, Romano Merendi, Luciano Tenderini, Gigi Alippi), il Pilastro Bonatti al Petit Dru (15-17 marzo 1961, Robert Guillaume, Antoine Vieille), la parete ovest dell’Aiguille Noire di Peuterey (dal 31 gennaio al 2 febbraio 1967, Angelo Bozzetti e Luigi Promotton).
L’idea della Nord delle Grandes Jorasses fu resa concepibile proprio da queste salite, anche se tra loro non vi può essere un paragone.
Camille Bournissen al nevaio centrale, accanto alla tana per sei. Foto: Michel Darbellay
L’Eigernordwand
1800 metri di dislivello, con uno sviluppo di 3900 metri. Tutta la salita si svolge sulle difficoltà classiche del terreno misto, tranne 220 metri di quarto e quinto grado, molto esposti alla formazione di ghiaccio. La parete è molto aperta e quindi espostissima a scariche di neve polverosa. Però ci sono molti terrazzini e i molti strapiombi possono favorire la protezione delle scariche suddette. Naturalmente tutti i terrazzini e i posti da bivacco sono completamente ricoperti dalla neve (abbondante su questa parete per la mancanza di vento). Con sei giorni e mezzo di scalata, il 12 marzo 1961 Walter Almberger, Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Toni Hiebeler, vincono la parete, con perfetta tecnica alpina, al ritmo di circa 450 metri di sviluppo al giorno. Da ciò si vede come su questa parete, a parte alcuni tratti come la “fessura difficile” o la traversata Hinterstoisser, le difficoltà tecniche non mutino molto dall’estate all’inverno. La lentezza di progressione si spiega soprattutto con il freddo intensissimo, l’impaccio dell’equipaggiamento, la minore quantità di luce disponibile.
Ma l’invernale sulla Nord dell’Eiger ha un’importanza enorme anche per gli sviluppi successivi dell’alpinismo invernale. Caduta essa, quale sarà la parete che resisterà sempre agli attacchi? Forse nessuna. Tanto è vero che l’anno dopo, il 4 febbraio, cade anche la parete nord del Cervino (Paul Etter e Hilti von Allmen, svizzeri, con un bivacco in parete), che ha le stesse caratteristiche della Nord dell’Eiger ma è molto meno lunga (1200 metri di dislivello, 1800 metri di sviluppo), e presenta meno abbondanza di neve perché più esposta al vento.
Daniel Troillet, 1 gennaio 1968 verso la parte alta della via Cassin. Foto: Michel Darbellay)
L’inverno 1962-1963
E arriviamo al 1963. Un inverno epico, in cui si svolgono tre grandi imprese.
La prima in ordine di tempo è la spettacolare dimostrazione di tenacia e resistenza offerta dai tre “Colibrì”, Peter Siegert, Gert Uhner, Reiner Kauschke, sulla super-direttissima alla parete nord della Cima Grande di Lavaredo. Con 17 bivacchi consecutivi aprono una nuova via tutta in artificiale, in pieno inverno. La loro impresa è molto discussa dai critici, i quali riconoscono la meravigliosa prestazione atletica, ma disconoscono il valore alpinistico dell’impresa. In effetti essa è di un genere tutto particolare, che si distacca dalla comune tradizione, anche estrema. Ma non si può rifiutarla. Ci si può limitare a non inquadrarla nel tradizionale svolgimento storico, pur segnando sempre una tappa nella storia dell’alpinismo.
Il vero seguito alla Nord dell’Eiger si ha con il Pilastro Cassin della Punta Walker delle Grandes Jorasses. Dal 25 al 30 gennaio 1963, con 5 bivacchi e 3 giorni e mezzo di effettiva arrampicata, Walter Bonatti e Cosimo Zappelli riescono nella tremenda prova. La via Cassin presenta 1200 metri di dislivello, con 1400 metri di sviluppo. 800 metri sono d’estate superiori al quarto grado. Pieno ambiente nord, in parete quasi verticale, su una montagna grandiosa. L’impresa è condotta in perfetto stile alpino. La via Allain-Leininger sulla Nord del Petit Dru è una diretta filiazione di questa impresa (7-8-9 gennaio 1964, Gerard Devouassoux, Yvon Masino, Georges Payot).
La terza salita del 1963 è la verticale parete nord-ovest della Civetta per la via Solleder-Lettenbauer. Il 7 marzo, con otto giorni di scalata durissima, Ignazio Piussi, Giorgio Redaelli e Toni Hiebeler, arrivano in vetta. Anche qui tecnica alpina, nonostante le prime lunghezze di corda precedentemente attrezzate. La parete è alta 1000 metri, con 1400 metri di sviluppo. L’arrampicata si svolge prevalentemente in camini e fessure, piene di neve perché non vi è molta attività di vento. Le difficoltà sono già estreme d’estate. La novità dell’impresa, oltre che dalle difficoltà, più prolungate che mai, è data dai nuovi ostacoli della neve, del ghiaccio e del vetrato. Si pensi a cosa doveva essere la famosa “cascata”, che già d’estate costituisce una dura prova.
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin, 1a ascensione invernale. Armando e Calcagno, bivacco in vetta, 3 gennaio 1968. Foto: Michel Darbellay
Nell’inverno 1967, dall’11 al 14 febbraio, in Dolomiti viene anche salito lo spigolo nord dell’Agnèr, con i suoi 1650 metri di dislivello, dai fratelli Heinrich e Reinhold Messner, sudtirolesi, e Sepp Mayerl, di Innsbruk. Grandiosa impresa, che ricalca le orme della Solleder invernale, e prelude alla grandiosa idea di salire la Andrich-Faè alla Punta Civetta, e il Philipp-Flamm, sulla parete nord-ovest della Civetta, il vero ultimo problema invernale delle Dolomiti.
Nell’inverno 1965, dal 18 al 22 febbraio, Walter Bonatti apre una nuova via sulla parete nord del Cervino, in quattro giorni. Tecnicamente nulla di nuovo, ma l’impresa è grandiosa e di notevole importanza psicologica.
3 gennaio 1968, Gogna e Calcagno dopo il bivacco in vetta al Pizzo Badile. Foto:Michel Darbellay
Eigernordwand Direttissima
Nell’inverno 1966 abbiamo la tanto deprecata ed esaltata direttisssima alla parete nord dell’Eiger. Dodici uomini vi si avvicendarono per più di un mese. Metodo himalayano, vale a dire corde fisse, squadre di rifornimento, ricambio degli uomini di punta. Soltanto cinque, Joerg Lehne, Sigi Hupfauer, Roland Votteler, Guenter Strobel e Dougal Haston, arrivarono in cima, in condizioni disastrose. È generalmente riconosciuto che la via non poteva essere aperta con la tecnica alpina. E che l’adozione di quel metodo fu appena sufficiente per il successo. Non ci sarebbe bisogno di invocare la morte di John Harlin per provarlo.
1967. René Desmaison e Robert Flematti, dal 1° al 6 febbraio, salgono il Pilone Centrale del Frêney. Salita di sesto grado a oltre 4000 metri, con attacco interminabile e uscita in vetta al Monte Bianco. L’impresa è importantissima per via dell’ambiente in cui si è svolta, non per le difficoltà tecniche, che non sono superiori alle altre già precedentemente superate. La tecnica alpina usata, rende questa impresa veramente magnifica.
3 gennaio 1968, in vetta al Pizzo Badile: dietro da sinistra, Gogna, Bournissen; davanti, Troillet, Armando. Foto: Michel Darbellay
Pizzo Badile, parete nord-est, via Cassin
La parete nord-est del Pizzo Badile è alta 900 metri e la via Cassin ha uno sviluppo di circa 1500 metri. Ha la struttura propria di tutte le montagne del Gruppo del Màsino, portata all’estremo. Verticalità affatto pronunciata, con enormi placche lisce (le “piode”) e rarissime fessure. E’ molto esposta al vento e perciò si può immaginare che d’inverno sia abbastanza libera dalla neve e dal ghiaccio. Invece non è così, perché non vi è verticalità, e così ciò che precipita dall’alto ha modo di posarsi sulle placche ruvide e nelle fessure, coprendo completamente le prime e intasando le seconde. Il vento, poi, completa l’opera pressando coscienziosamente e corazzando, per così dire, la parete. La scorza di neve e ghiaccio che così si viene a formare, non permette di salire con la normale tecnica di roccia. Ma tanto meno permette di salire come su una parete di ghiaccio, dato che di questo vi è solo una scorza (senza tener conto della pendenza, troppo accentuata per la progressione continuata con tecnica di ghiaccio) (Naturalmente queste righe sono state scritte almeno cinque-sei anni prima che la tecnica del piolet-traction rivoluzionasse la tecnica di salita su pareti ghiacciate, vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/nord-est-del-pizzo-badile-superstar/, NdA).
Armando e Calcagno in arrivo al rifugio Gianetti. Foto: Renato Avanzini
Nella parte terminale della parete, vi sono tanti grandi e piccoli canali (il più grande è chiamato “imbuto terminale”) che convogliano tutta la neve verso il basso, cioè sulla parete, che viene continuamente spazzata da piccole e grandi slavine, non molto pericolose, ma molto fastidiose, perché nelle ore di punta si raggiungono anche massime di una ogni quattro minuti. Arrivano giù velatamente, impalpabili, silenziose; se ne avverte il fruscio solo quando ci stanno investendo.
L’assenza assoluta di grandi strapiombi o di altre sporgenze, esclude il riparo. Esistono solo tre posti da bivacco in inverno, di cui due (e precisamente i due bivacchi Cassin), scomodissimi già d’estate. Il terzo è situato a metà parete, sul nevaio centrale, dove noi passammo cinque notti. Si potrebbe obiettare che, nella storia dell’alpinismo, si è trovato il modo di bivaccare anche dove la natura non avrebbe permesso. Per esempio l’uso delle amache e delle tane avrebbe ovviato alla mancanza di terreno orizzontale. Infatti sul nevaio centrale scavammo un buco, in cui ci sistemammo in sei. Fummo costretti ad abbondare in lunghezza, perché in profondità incontrammo, dopo appena un metro circa, la parete rocciosa. Ma solo lì, e a stento, si poteva scavare. Per tutto il resto, niente. Le amache, poi, vanno applicate sul vuoto, dove la parete strapiomba. Qui la parete non è neanche verticale, perciò nelle amache sarebbe stato difficile perfino l’entrarvi. A parte il fatto che le slavine ci avrebbero ricoperti di neve, e infradiciati, in brevissimo tempo.
3 gennaio 1968, rifugio Gianetti. Gogna, Armando, Calcagno. Foto: Renato Avanzini
Sulla Nord-est non c’è neppure da sperare in condizioni della parete eccezionali. Infatti d’inverno il sole illumina e non scalda, neppure per un minuto in tre mesi, queste placche, perché il Céngalo fa loro da scudo. Contrariamente quindi a quanto succede persino sullo sperone Cassin alla Punta Walker delle Grandes Jorasses, che invece, quando il cielo è sereno, è illuminato dal sole, al mattino e alla sera, per un totale di qualche ora. Io sono convinto che, se anche ci fosse il sole, la mancanza di verticalità, propria solamente di queste montagne, impedirebbe la pulizia e lo sgombero della parete. Tutto vi resterebbe ugualmente saldato e appiccicato.
Ma ciò che ci convinse della necessità di non usare il metodo alpino fu soprattutto l’impossibilità di bivaccare per dieci giorni di seguito in quelle condizioni previste. Perciò decidemmo di scavare una grotta di neve a duecento metri dalla base, sulla variante Molteni-Valsecchi, e di lì attrezzare fino al nevaio centrale, dove ne avremmo scavata un’altra. Questa decisione risolse anche il problema di un’eventuale ritirata. I primi 450 metri di dislivello, e perciò i primi 800 metri di sviluppo, si svolgono completamente in diagonale. Siccome le ritirate si svolgono sempre nelle condizioni più terribili (altrimenti non si tornerebbe indietro), questa sarebbe stata pressoché impossibile.
Riassumendo dunque, la novità e la grandiosità dell’impresa sono date non tanto dal metodo himalayano, poi così largamente pubblicizzato dai giornali – che infatti era già stato molto più abbondantemente usato sulla Direttissima alla Nord dell’Eiger, dove c’erano le squadre di rifornimento, e non tutti gli scalatori arrivarono in vetta – quanto invece dalla particolarissima struttura superata in inverno (si pensi che la Nord-est del Badile è la prima invernale su parete dei Gruppi Màsino e Bregaglia). Struttura che non trova riscontro su nessun’altra montagna delle Alpi.
Rifugio Gianetti, 3 gennaio 1968. Da sinistra, Troillet, Gogna, Calcagno, Bournissen e Armando intervistati dalla TV. Foto: Renato Avanzini
Consci di tutto questo siamo andati sulla parete nord-est del Pizzo Badile per risolvere il problema, peraltro già tentato da altri. Prevedevamo difficoltà eccezionali, vagamente intuivamo un nuovo “superamento” nella storia dell’alpinismo. Ci ha spinti un forte orgoglio, quello di sciogliere un Problema. Per quasi due secoli li avevano risolti gli altri e ora toccava a noi. Volevamo essere “noi” gli “attori” di questo superamento, abbiamo solo di sfuggita pensato che nell’“incordare” tutta o quasi la parete avrebbe potutto esserci un eccesso di tecnica. I fatti ci hanno dimostrato che avevamo ragione: quando siamo riusciti a raggiungere la cima abbiamo capito che il superamento era all’ultimo atto e noi non avevamo barato.
3 gennaio 1968, rifugio Gianetti. Da sinistra, Gogna, Bournissen, Armando, Troillet, Calcagno, Darbellay accanto all’elicottero della TV svizzera
21 dicembre 1967. Carichi come somari e raggiunto il Colletto dello spigolo nord scendiamo tutti e quattro alla ricerca del buco ricoperto con il telo e pieno dei nostri materiali portati su con tanta fatica neppure due settimane fa.
Mentre siamo lì a trafficare vediamo tre uomini risalire dal basso e presto ci sono le presentazioni. Lo sospettavamo, ma uno dei tre è proprio Michel Darbellay. Nel nostro francese non proprio forbito spieghiamo quello che sono i nostri intenti, meravigliati che questi “grandi” ce li abbiamo richiesti.
Nasce una simpatia immediata. E’ tale la fiducia che ci dimostriamo a vicenda che lì per lì decidiamo di dividerci in tre cordate da due, tutte e tre miste italo-svizzere. Aveva più che altro l’aria d’essere un esperimento… poi però le cose sono rimaste così per l’intera salita! Camille Bournissen con me, Daniel Troillet con Paolo e Michel Darbellay con Gianni. Questa divisione in cordate da due è anche facilitata dall’abbandono di Alberto Risso, che il 22 sera dorme al Sasc Furä e il 23 è gia in valle, di ritorno a casa.
3 gennaio 1968, sede del CAI di Sondrio: da sinistra, Armando, Gogna, Calcagno. Foto: Renato Avanzini
Tornando ogni notte (quattro) a bivaccare nella grotta, che avevamo battezzato il Palace, riusciamo dandoci il cambio ogni giorno a raggiungere il Nevaio Centrale e rifornire parzialmente quella che sarà la nostra prossima buca. Il giorno di Natale fummo costretti però a ritirarci, da una bufera di eccezionale violenza. Noi italiani ad attendere alla Capanna Sasc Furä, e gli svizzeri a casa loro!
Riattaccammo il 27 mattina la parete. Bel tempo. Ci siamo tutti, gli svizzeri (evidentemente ben più ricchi di noi) erano tornati addirittura in elicottero! Dopo una giornata massacrante per il peso dei carichi, nella notte scavammo la tana al nevaio centrale (in realtà un pendio a 50 gradi). Il 28 c’era un tempo abbastanza fetido con frequenti cadute di piccole slavine, ci convincemmo subito che non si poteva fare il programmato balzo alla vetta perché progredivamo di soli 30 metri al giorno ed era assurdo bivaccare sotto le slavine e sulle staffe, quando con relativa facilità potevamo tornare giù al nevaio centrale. Il tempo rimane invariato per altri tre giorni.
4 gennaio 1968, grande pranzo al rifugio SEM dei Piani dei Resinelli. Alessandro Gogna, Luciano Tenderini, Mirella Tenderini; di spalle, Augusto Martini, Gianni Calcagno e Paolo Armando. Foto: Renato Avanzini
Il 30 sera avevamo superato le maggiori difficoltà tecniche ma non avevamo ancora raggiunto il camino terminale. Avevamo decisamente “sforato” i tempi previsti e stavamo inesorabilmente finendo le riserve di viveri. Le previsioni, udite tramite la radiolina di Michel, davano ancora brutto per l’ultimo dell’anno. Il mitico balzo alla vetta aveva bisogno d’essere rifornito.
Ci offrimmo Camille ed io di scendere per recuperare un po’ di roba da mangiare. Partimmo il 31 mattina dal Nevaio Centrale e nel pomeriggio eravamo a fare acquisti dal Dino Salis di Bondo: gli altri avrebbero dovuto proseguire per quanto possibile ed era sottinteso che non sarebbero tornati più al Nevaio Centrale, visto che per il primo dell’anno davano una piccola schiarita.
Nella nostra breve permanenza a Bondo e dintorni Camille ed io veniamo a conoscenza del trambusto mediatico che avevamo suscitato. Ecco spiegato tutto quel via vai di aerei ed elicotteri che approfittavano di qualche brevissima interruzione delle precipitazioni nevose per venire a dare un’occhiata a quelli in parete. Qualcuno ci offre, praticamente ci costringe a dormire in un alberghetto di Stampa. Un ultimo dell’anno davvero “diverso”, visto che ci alziamo a un’ora pazzesca per iniziare la nostra rincorsa ai compagni. Ma non ce la facciamo, per via dei carichi, a raggiungerli e ci fermiamo al Nevaio Centrale, finalmente “comodi” visto che non siamo in sei ma solo in due…
Piani dei Resinelli, 4 gennaio 1968: Armando, Calcagno, Gogna. Foto: Renato Avanzini
Daniel, Gianni, Michel e Paolo, l’ultima notte infatti bivaccano al secondo bivacco Cassin. Per l’esposizione alle continue slavine è disastroso e il giorno dopo le loro condizioni fisiche sono tali che se non fossero già nella parte alta della parete, senza dubbio tornerebbero indietro. Non possono neppure infilarsi nel sacco piuma, non mangiano nulla e tutta la notte sono tormentati dalla temperatura rigidissima (-30°), da violente raffiche di vento, e continue slavine. Paolo e Michel accuseranno per colpa di questa notte un principio di congelamento ai piedi.
Il mattino del 2 gennaio 1968 sono decisi a fare di tutto per arrivare in vetta, anche se non sanno nulla di noi e noi non sappiamo nulla di loro. Sappiamo solo che stanno bivaccando da qualche parte perché durante la giornata di Capodanno li avevamo visti troppo bassi per sperare nella vetta.
Quel 2 mattina è bel tempo, e fa un freddo cane. Con Camille raggiungiamo la fine delle corde fisse (ben poco sopra al punto massimo raggiunto il 30 sera, anche perché non c’erano più metri di corda da fissare) e proseguiamo sulle tracce degli amici che sentiamo ogni tanto vociare in lontananza. Nella concitazione, e per il peso bestiale che ho sulla schiena, a un certo punto mi scivola un rampone e precipito per una decina di metri. Per fortuna un buon chiodo riesce a tenermi e non succede nulla né a me né al carico che porto. Finisco la mia lunghezza, poi continua Camille. Il bel tempo ha breve durata, la salita nel camino terminale è davvero bestiale, raggiungiamo gli altri in piena bufera e a pochi metri dalla cresta finale. Siamo fuori, ma dobbiamo ancora arrivare alla vetta, nei cui pressi (non era stato ancora costruito l’attuale bivacco fisso in lamiera, NdA) scaviamo quello che speriamo essere l’ultimo buco, questa volta con più neve a disposizione.
Il 3 mattino è sereno e dopo la classica foto di vetta accanto al segnale trigonometrico iniziamo a scendere sulla via normale verso il rifugio Gianetti. Qui veniamo accolti dal custode Giulio Fiorelli e da suo fratello Dino, venuti su dai Bagni di Màsino apposta per noi, assieme a Renato Avanzini e Rita Corsi.
Milano, sede centrale del Club Alpino Italiano, gennaio 1968. In piedi, da sin, Daniel Troillet, Camille Bournissen, Michel Darbellay; in ginocchio, Paolo Armando, Gianni Calcagno, Alessandro Gogna. Foto: ANSA
Le polemiche
L’impresa è stata generalmente apprezzata ed esaltata dai competenti. Chi era stato negli anni precedenti all’attacco della parete e chi l’aveva tentata, riconobbe apertamente che con il metodo alpino non sarebbe stato possibile. Lo stesso Riccardo Cassin, con cui parlammo due giorni dopo, si è congratulato pienamente con noi, pur dicendosi un po’ dispiaciuto per il nostro abbandono della sua via negli ultimi 100 metri (che su alcuni giornali diventarono persino 250), avendo noi preferito, per le condizioni particolari, tirare diritto invece che traversare a sinistra.
Passiamo ora alle dolenti note. Un non meglio identificato G. Ge. su La Stampa del 5 gennaio 1968, attribuendo a Riccardo Cassin dichiarazioni, in seguito da lui stesso smentite con una lettera al suddetto giornale, naturalmente mai pubblicata, fa dire al grande alpinista lecchese che:
– il metodo fu usato per mancanza di… stoffa (da quest’accusa per fortuna riesce a salvarsi Darbellay);
– gli alpinisti hanno avuto una fortuna eccezionale, con temperature intorno allo zero, cioè quasi miti, data la stagione;
– le energie, con il ricambio degli uomini di punta, «possono essere comodamente ricuperate” (forse il sig. G. Ge. non sa che quotidianamente tra noi c’era la battaglia per cercare di essere in testa e non dover invece sfacchinare nelle retrovie con corde e sacchi, oppure, ancora peggio, battere i denti nella grotta).
Non voglio continuare nella rassegna, ma non posso qui non riferire alcune definizioni di Luciano Garibaldi, su Tempo del 16 gennaio 1968, secondo il quale siamo i pragmatisti dell’alpinismo (avendo secondo lui badato soltanto al risultato e quindi al successo), siamo i «precursori delle scalate in ascensore”, e “abbiamo inventato l’alpinismo facile”.
Il libro
Introduzione all’edizione Nordpress (2004) di Capodanno sulla Nord-est del Badile:
“Nell’autunno 1967 Genova mi andava già stretta, di studiare non ne avevo proprio voglia e sentivo vagamente che avrei dovuto muovermi, fare qualcosa. Oggi, dopo tanti anni, è facile capire il perché di quell’agitazione interiore: allora invece era fastidiosa e facevo una gran fatica a sopprimere i sensi di colpa che mi assalivano. La colpa di non studiare era certo forte, ma ad essa si aggiungeva, più subdola, la colpa del sentire che stavo per rinnegare le mie origini e andare a cercar fortuna lontano dalla mia città e con amici del tutto nuovi. Passai l’autunno tra le palestre di arrampicata del torinese e la Grignetta, facevamo piani su piani: era la prima volta che organizzavamo un’ascensione che, per la sua complessità, poteva quasi essere chiamata una piccola spedizione. E anche quando necessariamente, preso dalla fame e dalla mancanza di spiccioli, dovevo fare ritorno a casa, con la testa e con il cuore ero sempre lontano. Con l’immaginazione vagavo sui pendii ghiacciati e sulle rocce innevate del Pizzo Badile.
Poi ci fu l’azione, il sogno stava diventando realtà. Quando per Natale scendemmo al rifugio Sasc Furä, i non pochi amici e appassionati saliti fin lassù per incontrarci ci avevano accennato al rumore che stavamo facendo. Ma questo non era ancora niente in confronto all’escalation d’interesse che doveva suscitare quell’ascensione nei giorni immediatamente seguenti, quando riprendemmo a salire, con gli svizzeri che teatralmente ci raggiunsero elitrasportati alla base. Ancora però noi eravamo lontani dall’interessarci a questo. Quando si è davvero concentrati si cerca di non subire alcuna influenza dal mondo esterno. Così come stavamo per conto nostro in parete, solo tra di noi, così i nostri pensieri non erano minimamente curiosi di ciò che succedeva laggiù. Passavano almeno due o tre elicotteri al giorno, più qualche aereo: vedevamo comitive che, come formiche, salivano al rifugio Sciora, un posto normalmente deserto in quella stagione. Poi, vicini all’esaurimento di cibo, Camille ed io ci prendemmo il compito di scendere a procurarci dei viveri al primo paese. Una delle prime persone che incontrammo fu un uomo asciutto, deciso, che non ci pose molte domande ma si affrettò a fornirci l’assistenza necessaria. La sera cenammo con lui in una piccola pensione di Stampa, il paesino dopo Bondo. Era Franco Rho, l’inviato speciale del Corriere della Sera. Non fu l’unico giornalista con cui parlammo, ma senza sapere perché, il nostro incontro seguì una corsia preferenziale.
Nelle mie fantasie autunnali avevo realizzato che un desiderio l’avevo: quello di diventare, prima o poi, giornalista. Mi piaceva scrivere, soprattutto mi piaceva leggere. Confrontavo gli stili dei vari quotidiani e ritenevo che il Corriere fosse di gran lunga quello al di sopra delle parti, oggettivo, esauriente. Non mi ritrovavo per nulla nei quotidiani genovesi, che trovavo eccessivamente provinciali. Non ero affascinato né dalla politica né dalla curiosità di cronaca: ammiravo la serietà, la sobrietà di esposizione, gli scritti di Dino Buzzati, gli elzeviri di altri stimati scrittori. Perfino l’odore di quel giornale mi sembrava diverso! Così, l’idea di essere lì seduto a parlare con un giornalista del Corriere, mi riempiva di gioia, più per la concreta vicinanza al mio sogno che per le possibili implicazioni di ambizione personale, tipo interviste e conseguente notorietà.
Non ci dilungammo moltissimo. Eravamo eccitati, ma anche stanchi. Il mattino dopo volevamo essere alle prime luci dell’alba alla base della Nord-est per salirla fino a raggiungere gli altri, che nel frattempo tentavano di proseguire ma che erano sicuramente rimasti senza mangiare. Così ci salutammo e ci ritirammo nelle nostre stanzette, con l’impegno di risentirci presto a impresa terminata, con successo o senza.
E quando tutto fu finito, quando il turbine di impegni e di festeggiamenti ebbe un primo calo, leggendo i vari servizi che erano stati pubblicati dai giornali e dai settimanali, mi accorsi subito di quale differente pasta erano fatti quelli di Franco. Erano oggettivi, asciutti. Semplicemente informavano, senza concedere nulla a polemiche o a entusiasmi eccessivi. Non appena mi fu possibile andai a trovarlo in redazione a Milano, in via Solferino. Ricordo ancora l’effetto che mi fece quel lungo corridoio severo al secondo piano, lo stanzone in cui mi ricevette. Non ci furono molti preamboli, si accese una sigaretta e mi propose subito di aiutarlo a scrivere una “monografia” (così la chiamava lui) sulla nostra impresa. Era brusco, deciso ma gentile. Mi disse che aveva già preso accordi con l’editore Tamari di Bologna. Io accettai volentieri, non mi sembrava vero di collaborare con un professionista così. Allora non pensavo proprio che il libro avrei potuto scriverlo io, perché davvero ritenevo più opportuno che fossero altri a parlare di noi. Andammo anche al bar d’angolo con la via Moscova. Con noi era pure un altro giornalista, Carlo Graffigna, che allora lavorava al Corriere d’Informazione. Fuori faceva freddo ma io ero davvero felice. Il 15 marzo 1968 fu pubblicato così Capodanno sulla Nord-est del Badile”.
Lessi avidamente il libro, trovando solo qualche lieve imperfezione, qualche piccola esagerazione: in generale il testo era fedele ai fatti e di lettura molto accattivante, aiutato pure dalla bella introduzione di Carlo Graffigna. Il libro si esaurì rapidamente, tanto che oggi (giugno 2004) l’editore Nordpress ne sta facendo la seconda edizione.
4
Affascinante il passaggio dell’incontro tra i due gruppi e la nascita sella immediata e spontanea fiducia. Tra l’altro mi ricorda un’altra situazione analoga, alla vigilia di un’altra impresa leggendaria di 7 anni prima, dalla conclusione meno felice.
si bellissimo racconto di vita intensamente vissuta.
Nella tua tua risposta alla domanda di Lorenzo, Alessandro leggo un pò di tristezza per i tempi che furono.
Ho interpretato male?
Bellissimo racconto Alessandro!!
In via ti dicevo «fenomeno», per quello che riuscivi a fare.
Ti dicevo che calcolando il rating, a causa dell’età, eri alla pari di chi fa i gradi – per noi – difficili.
Ora hai una forza che non interessa i bicipiti né la concentrazione per stare tanto sopra il chiodo, si chiama bellezza.
Quella della trasparenza.
La via dell’accettazione è forse la più dura e fredda.
Si fa sempre in solitaria e slegati.
Nessuno di noi dubita che tu non abbia le risorse per vederla, anche quella, dall’alto.
Caro Lorenzo… sarebbe bello? Non ne sono sicuro. In realtà ciò che è emerso in questi tempi mentre confezionavo l’articolo è stata la sensazione che cinquant’anni di deserto uccidono anche i cammelli più forti, e che questi prima di accasciarsi rimuginano sul fatto di non ricordarsi duna per duna, granello di sabbia dopo granello di sabbia. Per non parlare dei cammellieri che ti hanno caricato come un somaro. Sensazioni, brevi flash, rabbie, paure, emozioni sono tanto forti quanto scolorite e tutto è diventato come la neve che non sai quando arriva e quando sparisce. Forse il mio attuale timore di non accettarmi in pieno per come sono (diventato) mi evita la sofferenza di ricordarmi esattamente cosa ero.
In una parola, una riga, un fiato raccontaci il tuo sentimento di adesso per quella salita; quanto è salito al presente mentre lavoravi per pubblicare l’articolo.
Sarebbe bello.
bellissima l’introduzione hai tuoi compagni … il resto è STORIA dell’ALPINISMO.