1a invernale alla via dei Ragni al Grand Capucin

Metadiario – 12 – 1a invernale alla via dei Ragni al Grand Capucin (AG 1969-001)
(scritto nel 2018, quando non riferito diversamente)

La notte di Capodanno fu indimenticabile. All’ultimo piano di via Morgagni 1 a Milano abitavano le sorelle Marina e Ornella Antonioli con i loro genitori. Marina e i “vecchi” erano a Courmayeur, non ricordo più per quale motivo Ornella era rimasta in città e si apprestava ad attendere lo scoccare delle 24 assieme agli amici e coniugi Antonella Rapetti e Lorenzo Marimonti. Costui era il fratello del maledetto Lucio, quello che ci aveva fregato la macchina. Altro legame che devo ricordare per collegamento del tutto è il fatto che Leo fosse il fidanzato di Marina.

La telefonata che fece Leo da Lecco era stata travolgente, dalla voce si capiva che volevamo divertirci, distoglierci da quei fantastici dieci giorni di freddo atroce e lotta inutile.

La casa era grande e assai accogliente, le presentazioni furono molto informali. Gettai gli occhi sulle due ragazze: belle, senza dubbio, simpatiche e molto diverse tra loro. Quanto Antonella era espansiva ed estroversa, tanto Ornella (Nella) era più riservata, ma ugualmente attenta e ricettiva. La confidenza che Antonella aveva con Leo le permetteva di dichiarare apertamente quanto fossimo fighi così imbarboniti e selvaggi, mentre di certo io non potevo commentare quanto le due m’avessero immediatamente interessato. Che poi delle due era una sola quella cui potevo puntare, ovviamente.

La parete est del Monte Pisanino

Dopo aver trangugiato un bel po’ di bicchieri di vino rosso e aver spazzolato tutti i loro avanzi di cena, fu il momento di andare in due dei numerosi bagni e tentare una faticosa operazione di scrostamento e restauro. Dimenticai la vasca così come era, scura di schifezza, e la cosa fu ovviamente notata e poi ricordata a memoria sempiterna.

Ripuliti e sbarbati, il nostro iniziale successo non diminuì, perciò con rinnovato vigore ci venne ancora versato da bere, in attesa dell’ormai vicinissima mezzanotte.

Nello Tasso nella 1a invernale della parete est del M. Pisanino. 5 gennaio 1969.

Tutti e cinque ormai amiconi, facemmo le ore piccole senza accusare il minimo sonno, profferendo una tale quantità di cazzate da far dubitare della nostra sanità mentale. L’alcol poi favoriva sempre più la nostra generale euforia. Verso le quattro decidemmo di andare in un locale del centro a ballare. Mi sembrava un sogno, perché le due erano proprio “fighe” e ormai con Nella mi permettevo anche qualche lieve avvicinamento corporeo e delicatezze sentimentali. Trascinammo i bagordi fino alle otto del mattino, quando finalmente decidemmo, in po’ rincoglioniti a quel punto, di tornare a casa. Dopo i saluti e i baci, Leo mi portò a casa sua in via Castelfidardo 8, dove cercammo di recuperare qualche energia in vista del prossimo round: l’invito a pranzo da parte di Pompeo Marimonti, che abitava in via Foppa. L’accademico del CAI Pompeo era il padre di Lorenzo e Lucio. Lì incontrammo anche quest’ultimo, non vi sto a raccontare i lazzi e i frizzi sull’usucapione dell’auto. Al pranzo erano ovviamente presenti anche Antonella e Nella. Questa avrebbe dovuto partire in serata per andare a Courmayeur con Leo. Nello svolgimento di quel pranzo capii anche che tra Nella e Lucio in un recente passato doveva esserci stata una liaison, finita peraltro. La qual cosa non andò certo a favore delle mie già un po’ scarse simpatie per Lucio. Pompeo era un grande, un anziano signore pieno di vitalità, il classico milanese carico di entusiasmo e generosità.

Il commiato da Ornella fu triste ma pieno di aspettative. Un sentimento forte era nato. Nei giorni seguenti mi accorsi di avere continuamente una strana sensazione allo stomaco e non ci fu bisogno che qualcuno mi spiegasse cosa era.

Il 5 gennaio 1969 andai in Apuane per una coppia di giorni, con la solita partenza da Genova antelucana. Con Alba Coronzu, Lino Calcagno e Nello Tasso affrontammo la parete est del Monte Pisanino 1946 m. L’avevano salita otto anni prima (12 marzo 1961) Euro Montagna, G. Piombo e S. Rinaldi. In seguito, Dai miei appunti, e quasi casualmente, ho scoperto chi ne ha fatto la seconda salita: marzo 1963, Eugenio Vaccari e Piergiorgio Ravajoni. Dunque, noi eravamo i terzi. Con i suoi 850 metri di dislivello era una delle pareti più temute delle Apuane in veste invernale.

Impiegammo nove ore per arrivare in vetta. La povera Alba ci rallentò infatti, ma fu bravissima e, da buona sarda tenace, non emise alcun lamento fino alla fine, data dal nostro ingresso notturno nel rifugetto della Serenaia. Il giorno dopo con Arrigo Giorello salii la cresta ovest (via Questa) del Monte Contrario.

Alba Coronzu, Nello Tasso e Lino Calcagno nella 1a invernale della parete est del M. Pisanino. 5 gennaio 1969.

Era il momento delle Apuane. Strano, visto che i miei desideri puntavano molto più a nord, alle nebbie milanesi. Il 12 gennaio fu la volta di un altro tentativo alla Pania Secca, per salire d’inverno il pilastro sud-est. Per l’occasioni ricostituimmo la cordata della Major (i due Calcagno e Nello Tasso), ma non ci fu nulla da fare, a dispetto di essere partiti da Genova alle due di notte per essere all’attacco presto. Ancora una volta non ho ricordo se tornammo indietro per il brutto tempo o per l’eccessiva quantità di neve. Ritengo più probabile la prima. Il 19 gennaio ancora Apuane, questa volta con Vittorio Pescia. Dopo una notte comoda in qualche pensioncina di Gramolazzo (o Gorfigliano), andammo lungo il vallone dell’Arnétola a fare una ricognizione fino alla base della parete nord del Monte Alto di Sella. Questa parete non era mai stata salita, il tempo era buono, ma il mio compagno non era in forma e, dopo una lunghezza, fummo costretti a tornare indietro. Tanto per fare qualcosa, ripiegammo sulla cresta nord-est. Questa non era mai stata salita se non per il suo terzo superiore (Emilio Questa e M. Corti, 15 maggio 1904). La salita integrale e d’inverno era un bel bocconcino ma anche questo ci sfuggì per la febbre che debilitava Vittorio. Quattro anni dopo questi ci tornò e riuscì a fare quella bella salita con Lorenzo Pomodoro, 11 febbraio 1973.

Pania Secca, prima invernale del Pilastro Montagna
di Gianluigi Vaccari
(Rassegna Alpina n. 9, marzo-aprile 1969)

Tre ore circa per giungere all’attacco. Nove di arrampicata. Tre e mezza di discesa. Milleduecento metri di dislivello: settecento in un canalone, e cinquecento lungo un poderoso sperone con difficoltà (estive) di quarto e quinto grado e tratti di A1. Quindi altri milleduecento di discesa. In totale duemilaquattrocento metri di ginnastica.

Quattro tentativi falliti, il quinto (il nostro) vittorioso. Non si parte da Courmayeur o Chamonix, non siamo in Occidentali, né ad Alleghe o a Cortina, non siamo in Dolomiti. Si parte da Fornovolasco 480 m. Siamo nelle Alpi Apuane. Si tratta della prima invernale, nonché prima ripetizione della via Montagna al Pilastro sud-est della Pania Secca 1711 m.

Alessandro Gogna in arrampicata sulla Pania Secca, 1a invernale del pilastro Montagna-Dellacasa

Base dell’azione non è uno sperduto bivacco di problematico accesso, bensì la Locanda La Buca situata in pieno centro di Fornovolasco, che come posizione è però più isolato di molti rifugi. Si trova infatti al fondo di una gelida gola in posizione tale da godere d’inverno di circa un’ora e mezza di luce solare.

Tale paese può essere raggiunto in automobile percorrendo una scomoda e tortuosa strada ricca di pericoli oggettivi: infatti essa è spesso sbarrata da massi di notevoli dimensioni, ed è esposta al tiro di ragguardevoli formazioni di ghiaccio pendenti dagli soprastanti strapiombi. La locanda non è frequentata da rudi alpinisti, né si odono struggenti melodie alpine; la clientela è infatti composta da indigeni forse però ancora più rudi e decisi, che quando arriviamo noi discutono animatamente di politica estera.

Alle quattro del mattino del 26 gennaio 1969 ci addentriamo nel Canalone di Trimpello. Fa freddo, è bel tempo e per fortuna il fondo è asciutto, se no la sua risalita sarebbe problematica, infatti c’è ogni difficoltà torrentizia: rapide, cascate, marmitte dei gi­ganti, ecc…

Si procede alla luce delle pile frontali. Unico accompagnamento sonoro è costituito dai richiami dei gufi e delle civette che pare siano abbondantissimi. Ad ogni impennata del canale qualcuno esclama: siamo al salto! Infatti tra gli innumerevoli saltini, protuberanze, caminetti, ce n’è uno di circa otto metri di IV, primo assaggio delle asprezze della salita. Stando al parere di uno dei nostri predecessori, pare che bagnato diventi di V, con un poco di vetrato di VI, se poi si ha sulle spalle un sacco di diversi chili forse VII! Oggi è di IV.

Alessandro Gogna sul Pilastro della Pania Secca, via Montagna, 1a invernale. 26 gennaio 1969

Giungiamo all’attacco ai primi raggi solari. Seduti ci godiamo lo spettacolo. Verso oriente e verso sud montagne a non finire, a occidente la Versilia e il mare. A nord l’impressionante muraglia delle Panie. Le pareti est e ovest sono innevatissime, le creste sono invece piut­tosto pulite, si vede che il vento ha lavorato bene. I primi cento metri dello sperone sono facili sebbene in alcuni punti ci sia del vetrato. La roccia non è certo ideale: in diversi luoghi è tanto sbriciolata da essere persino sof­fice, ci si sta bene seduti sopra. Dove la parete è verticale fortunatamente è migliore. E qui, a parte i primi metri, il resto è verticale.

Sul primo tiro di artificiale c’è una lama dall’aspetto mal­sicuro, e Alessandro che al momento è in testa, conferma che potrebbe benissimo cadere. Noi sotto guardiamo lui e la lama, chiedendoci con aria ebete cosa accadrebbe se cadesse. La lama resiste, e noi ci restiamo quasi male. Era così grossa…

Sul terzo tiro di corda tre chiodi lucenti e un cordino nuo­vissimo segnano il limite massimo raggiunto nell’ultimo tentativo. Le nostre due cordate funzionano egregiamente: la prima è la cordata di assalto, la seconda ha il duplice compito di schiodare e di sollazzare l’intera «equipe». Essa è in­fatti composta dal giovane e valente Franco Piana, e dal­l’altrettanto valente e meno giovane Giorgio Noli. Nel frattempo costui tra una spaccata e una Dülfer declama a gran voce i ricercatissimi sollazzi amorosi a cui sotto­pone la sua esigentissima persona.

Tali avventure veramente non comuni ascoltate con un piede sul gradino di una staffa, con una mano attaccata a un ciuffo d’erba e l’altra alla ricerca di qualche cosa che permetta di procedere sono senza dubbio rilassanti. La relazione dice che ora dietro lo spigolo c’è un diedro di IV. Facile quindi. Giro deciso una quinta rocciosa, e altrettanto decisamente affronto il diedro alzando un piede e una mano. Rimango fermo; provo con l’altro piede e l’altra mano, non mi muovo. Il maledetto è in ombra, ed è intasato di neve e ghiaccio e la sua parete destra l’unica percorribile è interamente vetrata.

I suoi 25 metri di IV vengono superati con sette chiodi in circa quarantacinque minuti. Un’aerea crestina nevosa interrompe brevemente la serie di passaggi e consente di osservare l’intorno. Veramente strane queste Apuane. Non superano i due­mila metri, ma cominciano quasi da zero. Intricatissime, solcate da gole profonde. Cosparse da antichissimi paesini, abitati da gente forte e ospitale.

Interessanti d’inverno, quando innevate offrono vie di no­tevole impegno con dislivelli considerevoli. Siamo nuovamente a ovest. Nella neve e nel ghiaccio. Un camino da superare in spaccata. Poi una terrazza con tanta neve.

Franco Piana (morto all’Everest, 1980) sul Pilastro della Pania Secca, via Montagna, 1a invernale. 26 gennaio 1969

Gli ultimi due tiri in pieno sud e al sole li percorriamo insieme, ridendo e discorrendo. La roccia non è molto buona. Gli appigli ogni tanto cedono, ce li passiamo gentil­mente e li lanciamo nel vuoto; intanto dietro non c’è nessuno. Chissà quando verrà ripetuta questa via.

Alle sedici siamo in vetta. Il sole comincia a scendere. Ci lanciamo giù per il versante ovest della Pania. I pendii sono innevati. La neve un po’ tiene, un po’ no. Bisogna raggiungere il Passo degli Uomini della Neve col chiaro, poi siamo a posto. Ma il passo è… laggiù. Anzi lassù. Quasi in cima alla Pania della Croce. Alessandro, l’esperto, ci precede di corsa. Noi dietro. Bisogna far presto.

A passo di carica raggiungiamo il rifugio Pania. È chiuso. Il serbatoio di raccolta dell’acqua piovana è pieno di neve e ghiaccio. Ad ogni modo ci deve essere stata gente, anche molta a giudicare dalle innumerevoli orme e dalla corona di escre­menti. Assetati continuiamo.

Arranchiamo in lotta con le tenebre sui pendii orientali del­la Pania della Croce e finalmente eccoci al desiderato passo in tempo per vedere il sole sparire. Si vede benissimo la Corsica. Le luci si accendono in Versilia. Di fronte a noi il Monte Nona e il Procinto con i Bimbi. Due anni fa su quella parete rossastra soffrivo la sete e il caldo.

Ora con altri amici, ho ancora sete, e fa freddo. Laggiù, in fondo, Fornovolasco. Quanto è lontano. Riaccendiamo le frontali. Ricominciano i boschi di castagni e finisce la neve. Si risentono le civette e i gufi. Finalmente una fontana. Bella, così isolata, e desiderata. Alle venti entriamo in Fornovolasco. Dalle finestre illuminate del paese ci spiano le ragazzine indigene. Appena si accorgono di essere notate si ritraggono ful­minee.

Qui alpinisti se ne vedono pochissimi: razza strana. Loro che sono nati qui, non sono mai stati sulle Panie. Alla locanda la padrona ci accoglie chiedendo giuliva: andata bene la passeggiata? Usciamo lentamente in auto dal paese, diretti verso Genova. In silenzio. Forse a Fornovolasco non torneremo mai più.

Il ricordo della Pania Secca
Inverni come una volta la mamma non ne fa più… ma anche Franco non c’è più, e di gente come lui ce n’è sempre di meno. Per ben due volte eravamo andati in 500 (e dentro in quattro) fino a Fornovolasco, uno sperduto paesino incassato alla fine degli anni ’60 al fondo di una valle che in zone più ragionevoli del mondo anche allora sarebbe stata disabitata. Alla terza eravamo almeno riusciti a partire, ed era più o meno ai primi di febbraio del 1968. L’alba ci vide impegnati in quel budello sinistro che caratterizzò quasi tutte le tre ore dedicate per arrivare alla base del pilastro.

Anzitutto il nome di questo canalaccio: Trimpello. Ricordo una specie di tormentone, forse dovuto alla sfortuna di tutti quei viaggi a vuoto, trimpello stava per strimpello, vocabolo che ci risuonava nel cranio e che non evocava alcun suono sgraziato di strumento musicale, bensì, chissà perché, un fastidio continuo alle parti basse, più o meno la stessa molesta figuratività della parola “menata”, che già allora era in gran voga.

Giorgio Noli (mancato nel febbraio 2018) sul Pilastro della Pania Secca, via Montagna, 1a invernale. 26 gennaio 1969

Il tempo era bellissimo, ma di neve ce n’era davvero tanta e ci vollero quattro ore per arrivare dove d’estate ci si lega. Noi ci eravamo legati già da un bel po’. Gianni Calcagno osservava dubbioso le condizioni davvero spaventose della roccia, il fratello Lino e Nello Tasso non commentavano, ma in cuor loro erano ben decisi a scendere. Avrebbero lasciato sfogare i due più pazzi per una, magari anche due lunghezze, poi sapevano che il buon senso avrebbe trionfato.

Non alla prima, ma alla fine della seconda ci azzeccarono! Dopo le due o tre ore che mi furono necessarie per fare il primo tiro, comunque quello tecnicamente più difficile, anche Gianni ed io ci convincemmo che non era il caso di insistere. Sul secondo tiro Gianni aveva dovuto ripulire la roccia centimetro dopo centimetro, perché la neve era incrostata ovunque. C’erano delle condizioni che in seguito avrei definito “scozzesi”, l’umidità atlantica era quella tirrenica della Alpi Apuane e quanto a freddo ce n’era stato e ce n’era abbastanza.

Altro tentativo abortito nel gennaio dell’anno dopo (il quarto!), poi finalmente, ma cambiando compagni (perché quelli vecchi avevano deciso che il Canalone di Trimpello portava sfiga), mi ritrovai a dormire nella Locanda La Buca, l’unica di Fornovolasco. Non lo sapevo: ma lì, complice la bambinetta dell’oste, avrei preso il morbillo: la cosa invece mi apparve ben chiara qualche settimana dopo…

Con l’automobile di Giorgio, se non ricordo male, avevamo raggiunto il paese per la solita scomoda, tortuosa e pericolosa strada. Nella ruvida ed essenziale locanda alcuni paesani, dietro a gotti di vino, discutevano animatamente di politica ed era un fiorire di esilaranti bestemmie.

I nuovi compagni erano il gaudente e ottimista Giorgio Noli, l’atletico Gianluigi Vaccari, detto il “professore” e infine una nuova conoscenza, quel Franco Piana la cui attività cominciava a far parlare di sé nel giro degli alpinisti genovesi. E genovese lui lo era davvero, tanto è vero che il suo eloquio escludeva per principio qualunque espressione in italiano. La lingua nazionale la conosceva benissimo, credo però che all’inizio considerasse Gianluigi e me un po’ come fighetti borghesi, quindi quello era il suo modo d’imporre la sua natura “radical pop”.

Vogliamo fare la prima invernale, nonché prima ripetizione, della via di Euro Montagna e Gino Dellacasa al pilastro sud-est della Pania Secca, una via di circa 400 metri di dislivello aperta il 7 luglio 1963.

E partiamo alle solite e buie tre e mezza di notte, dai 480 m di quota di Fornovolasco. Ci sembra di essere Tuckett o Freshfield un secolo fa. Secondo Gianluigi, che le Apuane le conosceva bene, quel vallone era davvero uno dei posti più remoti e bui.

Alle quattro del mattino del 26 gennaio 1969 ci addentrammo nel Canalone di Trimpello, aiutandoci con le pile frontali. Il percorso lo ricordavo bene, ma questa volta era asciutto, sarebbe stata una bellissima giornata. Più o meno a metà budello trovammo il saltino di IV grado, una bazzecola rispetto all’altra volta, e con i primi raggi del sole arrivammo alla base del pilastro.

La prima lunghezza dura, vista la mia esperienza precedente, era affare mio, ma non c’era confronto con l’altra volta. Ricordo però che notai l’inaffidabilità di una lastra rocciosa, davvero temibile. L’anno scorso con tutta la neve e il ghiaccio la bastarda si era camuffata…

Alessandro Gogna sul Pilastro della Pania Secca, via Montagna, 1a invernale. 26 gennaio 1969

Gianluigi giunse dunque alla fine della seconda lunghezza: tre chiodi lucenti e un cordino segnavano il limite massimo raggiunto nel tentativo.

Si era instaurata una bella collaborazione. Gianluigi ed io davanti, Franco e Giorgio dietro a schiodare (ma anche eventualmente pronti a darci il cambio). Soprattutto Giorgio era scatenato: sollazzava il secondo di turno della prima cordata con il racconto di esperienze amorose (non capivo bene se reali o fantastiche) cui lui si sottoponeva con entusiasmo e ripetutamente. Era così tranquillo mentre declamava che riusciva a fare del pornoalpinismo anche nelle posizioni più assurde. Franco commentava a modo suo e stimolava con battute graffianti e molto “genovesi” la creatività del meno giovane Giorgio, una vita, sembrava, spesa negli accoppiamenti improbabili. Intanto Gianluigi, girato uno spigolo, si ritrovò in un diedro completamente intasato di neve e ghiaccio e anche vetrato (perché in ombra).

In cima arrivammo alle sedici, in piena luce calante. Non ci fermammo che qualche minuto, poi ci buttammo giù verso il Rifugio Pania (oggi Rossi) in quell’atmosfera da crepuscolo che ti rimane stampata nella mente. I pendii erano innevati, ma si scendeva bene. Il problema era che, dal rifugio, avremmo dovuto risalire, altro che scendere!

A passo di carica e abbastanza assetati raggiungemmo la costruzione del rifugio. Desolante! Il serbatoio di raccolta dell’acqua piovana era pieno di neve e ghiaccio. E quel giorno ci doveva essere stata molta gente a scalpicciare intorno: qualcuno aveva defecato lì accanto.

Bisognava far presto. Era assolutamente necessario raggiungere con la luce almeno il Passo degli Uomini della Neve, quasi a 1700 m, una specie di spalla della Pania della Croce, punto obbligato di passaggio per raggiungere la Foce di Valli e da lì poter scendere a Fornovolasco. I valligiani si recavano un tempo negli anfratti della Borra di Canala, dove la neve resisteva anche in piena estate, e da lì la trasportavano a spalle fino a Fornovolasco e poi Gallicano.

Gianluigi Vaccari sul Pilastro della Pania Secca, via Montagna, 1a invernale, 26 gennaio 1969

Il sole sparì all’orizzonte della ben visibile Corsica proprio quando raggiungemmo il passo. Riaccendemmo le frontali molto al di sopra della Foce di Valli, poi ci fu una navigazione buia, tra civette e gufi esagerati, fino alle 19.30, ora in cui vedemmo la tenue illuminazione del nostro paesino di partenza.
– È andata bene la passeggiata? – ci accolse lieta la padrona della locanda.
– Certo che è andata bene… belin, e come doveva andare? – le rispose in italiano Franco.

Dopo una conferenza a Firenze la sera del 29 gennaio, ripartii il 30 con la mia Volkswagen alla volta di Bologna, per accordi con l’editore Tamari. In discesa dalle gallerie della Futa, già a Sasso Marconi m’immersi in una nebbia storica, di quelle che oggi proprio non ci sono più. Quasi a passo d’uomo raggiunsi il centro di Bologna. Lì si girava un po’ meglio. Come al solito il gioviale Oscar Tamari, che fumava come un turco, m’invitò al ristorante per parlare dei nostri progetti. Gli avevo appena consegnato il dattiloscritto di Grandes Jorasses – Sperone Walker. Dunque il mio primo libro era in lavorazione nella loro tipografia. Avevo anche assistito a come il litocompositore a quei tempi disponeva una per una le lettere di piombo… Mi fece impressione soprattutto che dovesse disporle al contrario!
I pranzi con Oscar erano sempre molto bolognesi e pingui, innaffiati da ottimo lambrusco. Dal telefono della tipografia chiamai Leo Cerruti, che stava lavorando nel suo laboratorio artigiano di elettrosaldatori a Vimodrone, e lo avvisai che stavo arrivando. Avevo una conferenza a Brescia il 31, dunque il passaggio a Milano era obbligatorio.

Risalii in auto di malavoglia, avrei preferito andare a fare un sonnellino. Appena fuori dal centro la nebbia ricominciò inesorabile. Ricordo che allora non esistevano luci gialle antinebbia, né fanalini posteriori. Era una corrida assurda in mezzo a TIR e ad autisti impietriti al volante. Per due volte feci fatica a trovare una piazzuola in cui addormentarmi per una decina di minuti.

Arrivai a Milano all’ora di cena e mi diressi subito al Cantinone, l’osteria in pieno centro vicina al Teatro della Scala, quella che faceva da succursale al CAI e che era servita di base ai miei accordi con Carlo Ciceri e Leo Cerruti per aggregarmi alla cordata dell’invernale al Crozzon di Brenta. La nebbia peggiorava, se possibile s’infittiva sempre di più mentre cercavo un posteggio. Finalmente lo trovai, scesi e chiusi a chiave. Mentre mi avviavo verso il Cantinone, mi sentii chiamare:
– Alessandro!
Ornella mi raggiunse da dietro. Tale era la mia felicità di incontrarla, lì, inaspettatamente, che la abbracciai e la baciai senza pensarci. Lei mi rispose con lo stesso entusiasmo. Lo aveva saputo da Leo che stavo andando al Cantinone.

Uscita in vetta della Pania Secca, dopo la 1a invernale del pilastro Montagna-Dellacasa. Giorgio Noli e Franco Piana

Furono giornate travolgenti. Lei lavorava impiegata alla Braun, quella dei rasoi elettrici, per via della sua buona conoscenza del tedesco: andavo a prenderla all’uscita del lavoro alle 17.30 e la sera e la notte erano tutte per noi. Mi ero portato il minimo indispensabile (facendogli prima fare il giro per Firenze e Bologna) per trasferirmi in casa del Leo. Il mio locale era una specie di soggiorno con branda sul passaggio per la stanza del fratello di Leo, Claudio, ma la cosa non mi dava il minimo fastidio. La convivenza a tre si rivelò un’ottima iniziativa e durò parecchi mesi, fino a settembre, quando Leo e Claudio ebbero la necessità di ospitare il loro papà, che aveva bisogno di cure. Per ottobre trovai un alloggio in via Cavezzali, vicino a viale Padova, ben dopo piazzale Loreto.

Tornando a febbraio, il 2 feci una capatina in Grignetta dove salii con un tempo schifoso la prima lunghezza del Triangolo Industriale al Nibbio, assicurato non ricordo da chi, probabilmente da Ornella.

Dopo una serata a Sondrio, la mattina seguente 7 febbraio, con Fernando Gianesini, salii con gli sci verso una vetta proprio sopra a Sondrio, la Corna Mara 2807 m. Andammo in cima per la cresta sud-est, e mi dissero che nessuno lo aveva mai fatto. Nel pomeriggio non mi sentivo benissimo, ma andai ugualmente a Chiavenna per un’altra conferenza. Tornai nella notte a Genova, dovevo tornarci per prendere libri e altre cose che mi servivano. Non stavo per nulla bene, e la mattina mi svegliai con gli evidenti segni del morbillo, febbre e puntolini rossi. Da quattro conti fatti, risultò che probabilmente ero stato contagiato a Fornovolasco dalla bambina della locanda.

Guarito dalla maledetta malattia infantile, iniziai il mio giro di tentate vendite per conto di Cassin, quindi mi rivolsi al Piemonte, sia pur con l’esclusione della città di Torino. Non mi trovavo male. Si girava parecchio per non tanti soldi, ma sentivo che per me fare quel lavoro era importante. Il massimo di difficoltà lo avrei dovuto trovare qualche settimana dopo in Alto Adige, dove Cassin era visto da alcuni negozianti come il fumo negli occhi. Si lamentavano che erano stati lì a vendere e poi non si erano mai più visti. Facevo capire che io non c’entravo nulla con le “politiche commerciali” precedenti e in ogni caso ero lì per rimediare. Mentre in Liguria e in Piemonte tutti mi conoscevano di nome, in Sud-Tirolo le cose erano più complicate e dovevo superare le talvolta ben radicate diffidenze anti-taliane. Ricordo uno di Lana d’Adige che vendeva tutto, dai tabacchi alla frutta, dall’utensileria agli articoli sportivi da montagna. Mi fece soffrire un po’, ma poi diventammo quasi amici.

Alpi Apuane, Garfagnana. Da San Pellegrinetto su Pania Secca e Pilastro sud-est in versione autunnale

Il 15 febbraio ero a Torino: Gian Piero, Gian Carlo Grassi e Fulvio Berrino mi portarono per la mia prima volta all’Orrido di Foresto. Salimmo la Via della Fessura.

Il lavoro si rivelò più lungo del previsto, però ebbi qualche soddisfazione economica che non mi aspettavo. Comunque in quel periodo il mondo mi era stato tinto di rosa e non c’era nulla che potesse infastidirmi. Milano era un ambiente impossibile dal punto di vista della salute. Non si potevano fare due piani di scale senza sentire i polmoni invasi dalle particelle velenose. Al mattino si trovava l’auto ricoperta di uno spesso strato di polvere untuosa. Il riscaldamento, che tutti facevano funzionare a manetta, era ancora a nafta. Il traffico era selvaggio in quella nebbia sudario, nessuna centralina, nessun controllo. Ma io non tornerei indietro per tutto l’oro del mondo, perché Milano, allora, era una città accogliente, per me la più bella. Erano distanti i tempi della trasformazione degli anni Ottanta, la Milano da bere, eccetera. La tristezza era data da altre cose: sul Lambro e sui Navigli navigava quotidianamente una schiuma bianca, la superstrada per Lecco era una fila continua di fuochi che, producendo colonne di fumo nero, bruciavano pile intere di copertoni di camion, con accanto quelle poverette in minigonna e stivaloni che cercavano di scaldarsi un po’. Nella nebbia si distinguevano appena.

Sabato 1 marzo salii con Ornella il Canalone Caimi e poi la Cresta Cermenati fino alla vetta della della Grignetta. Mentre il giorno dopo ero con Leo alla base della Corna di Medale. Salimmo l’intero zoccolo che porta all’attacco della via Bonatti, ma il nostro scopo era quello di iniziare una via nuova, proprio a destra della Bonatti e a sinistra della Milano ’68 aperta da Tiziano Nardella ed Ettore Pagani. Salimmo il primo tiro difficile, poi scendemmo all’Osteria del Medale, ben convinti che la via sarebbe stata bella e possibile.

Lotta sul Grand Capucin
[Il presente racconto è l’unione di quanto già pubblicato su Un alpinismo di ricerca (scritto nel marzo 1969), qui in tondo, e l’articolo Al Grand Capucin d’inverno di Leo Cerruti (Rivista Mensile del CAI, agosto 1970), qui in corsivo]

«Il Grand Capucin 3838 m è uno dei più splendidi obelischi di granito delle Alpi, forse il più bello. Striato da fessure e stra­piombi che disegnano misteriosi geroglifici, la sua parete sboccia direttamente dal bacino superiore del Gigante, sentinella avan­zata della coorte di guglie che arricciano i contrafforti orientali del Mont Blanc du Tacul (Marcel Ichac, Quand brillent les etoiles de midi, 84)». Il più bello, ma anche il più impossibile in ar­rampicata libera: perché nessuno dei suoi itinerari può essere percorso senza l’impiego dell’uno o dell’altro mezzo artificiale.

Fu salito la prima volta dal grande Adolphe Rey, con le altre due guide Henry Rey e Louis Lanier, e con il cliente En­rico Augusto, il 24 luglio 1924. Fu usata una pertica di legno di 10 metri, e la salita si svolse con rischi e pericoli veramente eccezionali, in un’assurdità di manovre primitive ed entusia­smanti. Questo itinerario venne ripreso altre tre volte, nel 1929 da Aimé Grivel, nel 1946 da Giusto Gervasutti, e nel 1949 da Lionel Terray, sempre con successive modifiche al metodo ori­ginale dei primi salitori, che non conoscevano ancora i mo­schettoni e le staffe.

Gruppo del Monte Bianco, Grand Capucin

Nel 1951 Walter Bonatti e Luciano Ghigo vincono la pa­rete est, con un’impresa veramente grandiosa, che porta per la prima volta la concezione dolomitica su una montagna del Mon­te Bianco. Oggi la Bonatti è praticamente la via normale, su­perchiodata, ridotta al ruolo di via prettamente artificiale, che con il sesto grado nulla ha a che vedere. Nel 1955 Lucien Berardini e Robert Paragot, in due giorni salgono la tetra e repulsiva parete nord, e a tutt’oggi nessuno è più salito di lì (la via in seguito è stata ripetuta, NdR). Nel 1956 cade anche la parete sud, con due bivacchi in parete, per merito degli svizzeri Claude Asper, Marcel Morel, Marcel Bron e Mario Grossi. Poi le invernali. Nel 1959, la via Bonatti è salita d’inverno da Romano Merendi, Luciano Tenderini e Gigi Alippi. E nel 1965 è la volta di Gianni Ribaldone, che, con Armando Mar­chiaro, sale la parete sud, con due bivacchi.

Nel 1966 cominciano i tentativi per salire la parete sud-est. Vi si avvicendano molti alpinisti. Salire, scendere, ritornare, bivaccare, scendere di nuovo. Finalmente la vittoria ai lecchesi Aldo Anghileri, Carlo Mauri, Pino Negri, Guerrino Cariboni e Casimiro Ferrari, dal 30 giugno al 2 luglio 1968.

Perché è stato necessario tutto questo lavoro? Perché la via non è stata cominciata e terminata, senza interruzioni? Me lo chiedevo anch’io, e la risposta l’ho avuta non appena mi sono reso conto dell’impresa che stavo per fare: la via dei Ragni in prima invernale!

L’obelisco del Grand Capucin

Certo il Monte Bianco ha attualmente dei problemi inver­nali più grandi di questo. Però quando l’inverno si rivela così impietoso per gli alpinisti, bisogna accontentarsi di ciò che si può fare. Questa era la mia idea sul Grand Capucin: un ri­piego! Vediamo come invece ho cambiato radicalmente opinione.

Quando una via, per essere compiuta, richiede un’attrezza­tura di circa due anni, il meno che si possa pensare è che sia tutta in artificiale. Ed è risaputo che d’inverno, sull’artificiale, si può soffrire tutt’al più un po’ di freddo, ma si va avanti lo stesso.

Il giorno 6 marzo 1969, con l’amico Leo Cerruti, attacco la pa­rete. Dopo il canalino iniziale, e dopo circa 4 ore spese sui pas­saggi ghiacciati delle rocce di base, arriviamo all’inizio delle grandi difficoltà. Una fessura, di 40 metri, senza chiodi, e con qualche cuneo in posto. Arrivato in cima al tiro, piuttosto pro­vato, mi trovo di fronte ad una realtà incredibile: una plac­ca, senza una fessura, in apparenza, senza un chiodo, tutta sporca di neve. In una parola, l’impossibile. Altro che facile lista di chiodi!

Questa promette di essere una durissima salita, con passag­gi estremi di arrampicata libera, con fessure intasate di ghiac­cio e di neve fresca… Ma per oggi niente da fare. Scendiamo.

Ritorniamo il 9 marzo. Due giorni di bel tempo dovreb­bero aver ripulito un po’ la placca. Il sole che sta sorgendo ci infonde la fiducia di riuscire. Abbiamo viveri (pochi) per due giorni, e a tutti i costi dobbiamo sbrigarci, prima che ritorni il brutto tempo. Leo Cerruti sale la prima fessura di 40 metri molto velocemente. Pochi i chiodi, e malsicuri, fino alla sosta sulle staffe. Lo raggiungo, lascio lì lo zaino, e mi avvio verso destra, sulla placca, che ancora non è completamente pulita. Subito sembra di essere in palestra, a fare giochetti di equili­brio, poi la distanza dal compagno aumenta e le difficoltà non mollano. Soprattutto non vedo dove potrò riposarmi. Quando sono ormai a 10 metri da Leo, trovo un fessurino, dove a stento riesco a piantare un chiodo ultra-piatto. Con quella mo­desta sicurezza riparto, non più in diagonale, e mi ritrovo su roc­cia bagnata. Qui sento che i piedi mi scivolano, gli scarponi non riescono a fare l’aderenza necessaria. Dopo 7-8 metri, co­mincio ad avere di nuovo paura, perché sono arrivato alla neve, in via di scioglimento, e non so come passare. Provo ad affon­darvi i piedi, ma sotto non c’è niente di orizzontale. Provo ugualmente, sposto i piedi e le mani… sento la neve che cede, e le mani devono tenersi a piccoli bitorzoli di granito, per mantenere l’equilibrio… Uno scatto, e riesco a mettere un piede su un appoggio piccolissimo e inclinato. Con la bocca impa­stata e affannosa, guardo in su e vedo un chiodo. Se riesco a prenderlo sono salvo. Tento e ritento, ma sento che volerei giù. Finalmente con un altro colpo di reni, senza alcuno stile, riesco ad afferrare quell’anello, a cui mi aggancio subito. Dopo, una fessura e la sosta.
Ora tocca a Leo, mi invia lo zaino, poi mi raggiunge, rischiando di volare più volte.

Entréves, 11 marzo 1969. Alessandro Gogna di ritorno dal Grand Capucin

Primo giorno. Da alcune ore siamo impegnati, Alessandro Gogna ed io, sulla parete est del Grand Capucin. Stiamo cercando di ripetere, in prima invernale, la nuova via aperta nella scorsa estate dai «Ragni» di Lecco. Le lunghezze di corda si susseguono una all’altra. Le difficoltà sono notevoli.

I chiodi infissi dai primi salitori nel periodo estivo si rivelano tutti insicuri, ora che fa freddo. Bisogna ribatterli ogni volta e ciò dilata il tempo di salita. Chi è avanti è completamente assorbito dall’arrampicata sempre impegnativa. Il secondo invece, mentre assicura il compagno, può lasciar vagare i suoi pensieri. Nella mente sfilano allora immagini e sensazioni che apparentemente non hanno alcuna relazione con l’impresa che si sta tentando. Ma, ora che mi accingo a descriverle, mi accorgo che, l’una sommata all’altra, possono avvicinare chi leggerà queste righe alle impressioni più profonde che una salita di questo genere provoca in chi la compie.

È la quarta volta che vengo all’attacco di questa parete: le prime tre volte sono sempre stato respinto dal cattivo tempo. Una volta la tormenta mi ha sorpreso quando, sulla via Bonatti, ero già arrivato al primo bivacco.

La figura del mio compagno di allora mi appare improvvisa. Caro Alberto Di Benedetto, amico buono e paziente di tante salite, come vorrei che anche tu fossi qui con noi…
— Ricupero!
Ritorno bruscamente alla realtà, mi carico sulle spalle il sacco, sciolgo la sicurezza e inizio a salire. Mi chiedo come ha fatto Alessandro a passare di qui; impreco contro il gancio di uno scarpone che s’impiglia in una staffa, cerco di far presto. Forzo troppo su di un cuneo che, offeso dalla mia indelicatezza, abbandona la sua sede. Mi ritrovo appeso alle corde, sento chiara la sghignazzata del mio compagno, gli urlo cose irriferibili e riprendo il mio calvario. Arrivo al punto di sosta.

Cerruti e Gogna dopo prima invernale alla via dei Ragni al Grand Capucin

Poi va davanti lui; la placca non è ancora finita, e occorre rischiare ancora parec­chio. Verso i due terzi del tiro, mi dice:
– Alessandro, io qui ci volo! Non riesco più a salire.

Se volasse, cadrebbe per 20 metri+20, con conseguenze impre­vedibili. Cominciano a tremargli le gambe, poi riesce a domi­narsi, continua, in un impeto di coraggio, di voglia di riuscire, di pazzia, se vogliamo. Ce l’ha fatta!

È ora il mio turno ad andare avanti. Mi guardo intorno come un animale braccato, ansimo, cerco di impietosire il mio socio, gli dico che non è il caso di fare complimenti, può benissimo andare avanti lui. Io non mi sentirei minimamente frustato. Alessandro è impermeabile, le mie querimonie gli scivolano addosso senza minimamente commuoverlo. Mi passa con grazia i mazzi di chiodi che io, tetro, mi attacco alla cintura. Brontola un commento piuttosto acido sulla mia condotta cittadina, che ritiene dissoluta e non consona alle grandi imprese alpinistiche, quindi mi esorta a proseguire e a non perdere tempo in futili commedie.

Ora sono alle prese con una placca sporca di neve. Fra me e Alessandro vi sono circa 20 metri; chiodi non ne ho trovati e non mi è stato possibile metterne. Mi viene d’un colpo una paura lucida e selvaggia. Mi rendo conto che in caso di volo sia io che il mio compagno verremmo strappati via: c’è infatti un solo chiodo al punto di sosta e non giurerei sulla sua tenuta. Che ridda di pensieri turbinano ora nella mia testa! Salgo lentamente su questa placca; tolgo piano piano la neve che copre i minuscoli appigli.

Ormai non posso più tornare indietro. Guardo avanti e vedo a un tratto un chiodo a pressione di tipo a me sconosciuto. È privo di anello. Dal granito sporge solo una piccola testa rotonda. È stato infisso nell’estate del 1967 durante un tentativo di alcuni alpinisti svizzeri, e segna la fine di una loro variante, che sale dal basso e da destra. Dio, come è distante! Quanti anni di vita è lontano? E perché sono qui? Ma cosa diavolo mi è venuto in mente di mettermi con quel pazzo lì sotto?

Ora c’è un gran silenzio sul Grand Capucin. Anche Alessandro tace; lo sento vicino come mai mi era successo prima. Sotto, sul Glacier du Géant, spuntano al sole i primi sciatori che scendono veloci verso Chamonix. Ricordo la discesa che ho fatto lo scorso anno lungo la Mer de Glace; poi giù fra gli abeti sino a Le Bois; la birra bevuta al sole scherzando con care amiche francesi…

Ma perché sono qui?

Mi muovo lentamente. Tutta la mia vita è affidata ora solo alla calma che riesco a mantenere. Il chiodo, questo piccolo orribile bottone ruggine, che spunta per un centimetro dal granito, rappresenta ora per me la meta a cui devo assolutamente arrivare. Tutto ora è così lontano… Le mie speranze, il mio lavoro, i miei cari, sono come pallide figure. Fantasmi che non hanno più rilievo. Sono immagini di un mondo che non mi appartiene e cui non appartengo più.

Delicatamente pulisco dalla neve un minuscolo rilievo nel granito e vi appoggio la punta dello scarpone; lentamente mi sollevo e riesco infine a prendere fra le dita la capocchia del chiodo. Non so come descrivere la felicità che si prova in questi momenti. È come se, improvvisamente, un cieco scoprisse di poter vedere. Tutto il mondo gli si apre davanti meraviglioso, fantastico, irreale.
— L’ho preso! — urlo nel silenzio.
E sotto, sento che Alessandro ha sofferto con me attimo per attimo, ed ora dà sfogo alla stessa gioia che mi soffoca cantando una sguaiata canzone di vittoria.

Ora ho il problema di come utilizzare questo chiodo. Gli svizzeri (solo loro li piantano e li usano) applicano a questi bottoni delle piastrine che vi si incastrano. Io che non sapevo nemmeno che esistessero questi orribili aggeggi (frutto, senza dubbio alcuno, di una fantasia malata), mi ritrovo ad appoggiare il cordino di una staffa sul tondino maledetto, salire uno dopo l’altro i gradini e poi proseguire — sperando in tutto ciò in cui uno in queste condizioni può sperare — lungo la placca sino al punto di sosta. Mi assicuro a dei buoni, vecchi, sani chiodi nostrani e recupero Alessandro.

Marzo 1969. Sede del CAI Milano, premiazione per il Grand Capucin. Da sinistra, xy, Aurelio Garobbio, Leo Cerruti, Alessandro Gogna, Renato Gaudioso.

E ora guardiamo cosa ci aspetta. Un diedro strapiombante, con chiodi e cunei in posto, all’apparenza faticosissimo. Comincio a salire, e per poco non mi esce un chiodo. Lo ripianto e proseguo. Mi rimane in mano un cuneo, marcio. Ogni volta che pongo il peso su un chiodo, ho paura di volare, di farmi male. E lo zaino mi tira nel vuoto, mi impedisce di respirare. Ogni tanto mi fermo su una staffa, completamente appeso, come un prosciutto, e respiro affannosa­mente, come in una salita himalayana! La sosta è scomodissi­ma. Leo mi raggiunge esausto, e non vuole proseguire. Allora vado ancora io, e alle 18.30 arrivo ad un bel terrazzo, tutto co­perto di neve.

L’unica piccozza che avevamo con noi, ci è caduta nelle varie manovre. Così dobbiamo spianare a colpi di martello. Le prime stelle brillano in cielo quando noi, chiusi nei nostri piu­mini, sorbiamo allegramente una minestra, non di prima qua­lità…

Il giorno dopo, 10 marzo, il cielo è un po’ velato. Segno che il bel tempo non durerà più a lungo. Il passaggio che ci aspetta per primo è un lungo diedro di 40 metri, regolare, liscio e strozzato in più punti. Lo attacco, con le dita che si appic­cicano sul metallo dei moschettoni. Esce un cuneo, e poi un altro, e io mi ritrovo sette metri più in basso, quasi accanto a Leo, spaventatissimo.
– Niente di rotto?
– No.
– E quel sangue sulle mani?
– Niente, niente.

Riparto deciso a non mollare la presa. Ma dopo un po’ sento una voglia irresistibile di tornare indietro. Ma come è possibile, come faremo a scendere la placca obliqua? Così con­tinuo. Passaggi estremi in arrampicata libera si alternano con pericolosissimi metri di artificiale delicata. Sosta sulle staffe. Il rosso del granito protogino sembra non dover finire più, le placche continuano smisurate, segmentate dai tetti, dai nasi, dalle cicatrici di roccia.

Secondo giorno. Tocca ancora a lui, salire sino a me e proseguire. Il mio cuore esulta. Ciarlo come una popolana al mercato. Sfodero tutte le mie facezie migliori. La vita mi sorride per ben due lunghezze di corda… Alessandro mi raggiunge. Lui è troppo dignitoso per inscenare le manfrine, che invece a me sono solite.

Leo va avanti, e si trova impegnatissimo su una parete che non offre via d’uscita. A stento scende, si ferma sulle staffe, a dieci metri da me. Riparto, lo supero, in­contro i famosi chiodi a pressione. Noi italiani non abbiamo mai usato questi chiodi, senza anello, a cui bisogna attaccare un’apposita piastrina forata. Riesco a cavarmela con dei lacci di scarpe, che incastro tra il corpo e la testina dei chiodi, af­fidandovi tutto il mio peso. E così per almeno 10 chiodi. Poi, altra sosta sulle staffe. È tardi, urlo a Leo di fare presto.

Riparte sicuro e subito si trova alle prese con ben sette chiodi a pressione del tipo svizzero. Io non so cosa lui abbia provato in quel momento. So solo che io mi sarei sicuramente messo a piangere dirottamente. La differenza di classe è tutta qui! Alessandro con calma si fruga nelle tasche. Trova una stringa e la taglia in minuscoli pezzi che pazientemente annoda. Avvolge poi uno di questi cordini sul primo chiodo, mette una staffa, sale i gradini, arriva al secondo chiodo, mette un nuovo cordino e così via sino alla fine della serie.

E di nuovo mi sorprendo a divagare con il pensiero. Mi risuonano nella mente le note di una canzone che al vecchio rifugio Torino abbiamo suonato sino alla noia. Osservo dei cumuli formarsi lontano. Penso a quanto sarebbe bello volare in aliante fra queste montagne. Mi riprometto di venire quanto prima ad Aosta per riprendere il volo a vela, che da tempo ho trascurato. Mi rendo conto anche di quanto si possa essere insaziabili: sto vivendo un’esaltante, completa avventura e nello stesso tempo ho il desiderio di altre sensazioni e di nuove esperienze.

Gli ultimi sciatori intanto, giù nel ghiacciaio, scendono il Glacier du Tacul. Il sole ora colora di rosso acceso le Aiguilles du Diable. La Nord della Tour Ronde si fa sempre più scura.

Marzo 1969. Sede del CAI Milano, premiazione per il Grand Capucin. Da sinistra, Ernesto Fabbri, Leo Cerruti, Lucio Marimonti, Antonella Rapetti.

Proseguo, ancora su chiodi che si staccano letteralmente. D’inverno, in granito, evidentemente, il gelo allarga le fessure, e i chiodi, se non sono più che buoni, tendono a uscire. Poi altri passaggi di sesto, una traversata su cui mi trovo vera­mente al limite. La sosta non è proprio sulle staffe, ma ci man­ca poco. Quando Leo mi raggiunge, sono ormai le 18.30.

Sopra di noi un tiro durissimo, oltre cui dovrebbe esserci posto per bivaccare. Così, con uno slalom tra i tetti, merito dell’intuito di Aldino Anghileri, con passaggi in Dülfer su cui mi sento mancare le forze, arrivo al tanto sospirato terrazzino, a notte.

Questo terrazzo non è certo come il precedente: una volta liberato dalla neve e dal ghiaccio, risulta essere piccolo e molto inclinato. Comunque ci sistemiamo alla meno peggio, e ci scal­diamo un tè.

Abbiamo trovato un posto per bivaccare e ora lavoriamo con foga per sgomberare dalla neve e dal ghiaccio il terrazzino. Ci infiliamo nei sacchi da bivacco; prepariamo una minestra; mangiamo qualche cosa e subito la notte e la solitudine più completa ci circondano. Guardiamo le stelle nel cielo buio e ricordiamo i bivacchi che abbiamo passato in dicembre sulla via delle Guide al Crozzon di Brenta. Ridiamo delle interminabili discussioni avute con Gianni Rusconi a proposito di certi satelliti. Secondo me erano stelle, secondo Gianni erano satelliti. Io ritenevo che avessero una luce troppo calda. Alessandro, alla fine, concluse la diatriba dicendo che probabilmente erano satelliti verniciati di rosso. Ci sembra di risentire Gianni (da noi soprannominato «lo sciacallo ferito») cantare, incredibilmente stonato, per far passare il tempo e il gelo. Chissà se lui, Antonio e Pumèla sono tornati alla via delle Guide? Che grossa impresa quella! La notte è lunga, non finisce mai.

Dopo una notte quasi insonne, al mattino nevica. Senza per­der tempo, affronto il diedro strapiombante che mi sta so­pra, poi una fessura, già tutta piena di neve fresca, su cui lotto per non scivolare, per far presto.

Poi, l’ultimo tiro, anche questo durissimo, di artificiale con passi di sesto grado, e gli ultimi dieci metri al limite delle pos­sibilità per la neve. Ma ormai sono scatenato, e quando urlo che sono arrivato in cima, Leo mi risponde: – Bravo!

Dopo un’energica stretta di mano, con le ciglia incrostate di ghiaccio, nella bufera inizia la discesa, una sequela intermi­nabile di corde doppie, in un posto impressionante, fino ai nostri sci. Non si vede più niente, quando cominciamo a sa­lire verso il Rifugio Torino.

Ghiacciaio del Gigante, Grand Capucin, Mont Blanc du Tacul, e satelliti

E il giorno dopo, di nuovo su per questa via pazzesca. Una lunghezza di corda dopo l’altra. Ogni metro con i suoi problemi. Il tempo intanto si va guastando. Su, più in fretta. Dobbiamo trovare un posto per bivaccare.

Alessandro va come uno sparo. Io invece mi perdo a osservare due puntini che, sotto nel ghiacciaio, avanzano lenti trascinando un altro puntino nero. Mi chiedo chi sono. Che cosa trascinano. Li seguo nella loro fatica, sono senza sci. Chissà dove vanno… Ormai è quasi buio. Alessandro parte veloce. Non abbiamo ancora trovato il posto ove sistemarci. Speriamo alla fine di questa lunghezza. Passa il tempo, le corde mi scorrono lentamente tra le mani. I due puntini intanto continuano ad avanzare. Adesso so che puntano al bivacco della Fourche; ma è tardi, non possono raggiungerlo prima di notte.

È ormai buio. Sento la voce del mio compagno che mi annuncia di aver trovato un terrazzino. Metto il frontale della pila sul casco e affronto questa nuova allucinante esperienza. Non ho mai arrampicato su queste difficoltà di notte. Quando arrivo al terrazzino (molto piccolo e inclinato) sono morto di fatica. E di nuovo ci prepariamo a passare la notte.

Milano, via Castelfidardo, dalla mia finestra

Non abbiamo voglia di preparare la solita minestra per cui facciamo solo un po’ di tè e ci infiliamo nei sacchi trattenuti dalle corde. Questa notte però non siamo soli. Anche i due puntini si sono fermati e mi accorgo che un legame si è stabilito fra noi. Chissà chi sono! Forse la stessa domanda se la pongono anche loro vedendo due piccole luci quasi in vetta al Grand Capucin.

Siamo accomunati nei nostri bivacchi dallo stesso amore per queste montagne, dallo stesso cielo che ci sovrasta, dalla stessa lucida follia che ci fa lasciare caldi letti per passare la notte abbarbicati alla roccia a venti gradi sotto zero.

Terzo giorno. Il tempo intanto è decisamente cambiato. Durante la notte comincia a nevicare fitto. Il mattino tutto è bianco intorno a noi. Alessandro compie miracoli nelle ultime due lunghezze, sul granito coperto di neve. Io lo seguo come in un sogno e come in un sogno scendiamo a corde doppie fra piccole slavine di neve polverosa. Giù sempre più giù fino ai nostri sci.

Siamo stanchi. Non si vede nulla. Come automi puntiamo verso il rifugio Torino. Qualche breve schiarita e molta fortuna ci aiutano a raggiungere questa estrema appendice del vecchio mondo di tutti i giorni. Ai rifugio troviamo dei giornalisti. Fanno un gran baccano. Non siamo più soli. La nostra avventura è finita.

E oggi sono giusto cinquanta anni.

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1a invernale alla via dei Ragni al Grand Capucin ultima modifica: 2019-03-11T05:34:37+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “1a invernale alla via dei Ragni al Grand Capucin”

  1. Bellissimo racconto…

    Quasi quasi… mi compro un libro di Alessandro 😉

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