Lo scrittore Premio Strega è stato appena dimesso dal reparto dove era stato ricoverato con un Tso. E ha deciso di parlare con Repubblica: “Le malattie nervose non devono più essere una vergogna da nascondere, la risalita comincia solo accettando chi realmente si è”.
Vivo ma morto
(i giorni in psichiatria di Paolo Cognetti)
di Giampaolo Visetti
(pubblicato su La Repubblica del 19 dicembre 2024)
Paolo Cognetti, scrittore e regista, è stato dimesso martedì 17 dicembre 2024 dal reparto di psichiatria dell’ospedale Fatebenefratelli di Milano. L’autore de Le otto montagne, al cinema durante le prossime festività con il suo Fiore mio, è stato ricoverato a causa di una «grave depressione sfociata in una sindrome bipolare con fasi maniacali». A 46 anni la luce per lui si è spenta all’improvviso e al culmine del successo. Ha accettato di parlare con Repubblica di questo macigno misterioso «per dire pubblicamente che le malattie nervose non devono più essere una vergogna da nascondere e che la risalita comincia accettando chi realmente si è».
Perché ha passato le ultime due settimane in psichiatria?
«In primavera e d’estate, senza un apparente perché, sono stato morso dalla depressione. Nelle scorse settimane, invece, sceso dal mio rifugio sul Monte Rosa, ero in una fase bella e creativa. Un giorno mi sono accorto che il mio pensiero e il mio linguaggio acceleravano. Gli amici mi hanno fatto notare che facevo cose strane. Il 4 dicembre il medico ha disposto il Tso: trattamento sanitario obbligatorio».
Che cosa era successo?
«Nelle fasi maniacali si può perdere il senso del pudore, o quello del denaro. Io ho inviato ad amici immagini di me nudo e ho regalato in giro un sacco di soldi. Si sono allarmati tutti: c’era il timore, per me infondato, che potessi compiere gesti estremi, o che diventassi pericoloso per gli altri».
Alla fine ha condiviso queste cure?
«Le ho subite, non avevo alternative. Mi sono ritrovato sotto casa un’auto della polizia e un’ambulanza. Sono stato sedato: da inizio dicembre, causa farmaci, non ho fatto che dormire».
Si è dato una ragione di questa fragilità?
«Per imparare quasi a scrivere ho impiegato quarant’anni. Dopo il successo con Le otto montagne, una storia urgente e necessaria, mi sono chiesto: “E adesso cosa faccio?”. Non ho trovato una risposta convincente. Forse ho temuto che il mio massimo editoriale, con il Premio Strega, fosse stato toccato: la popolarità è spietata e ha un prezzo significativo».
Pensa che il peso del talento superi le opportunità che offre?
«Io so che mi sono innamorato di una donna e che per lei, dopo dodici anni, ho lasciato la mia compagna. Per non abbandonare chi mi è stata vicina a lungo, ho chiuso anche la nuova relazione. Non si deve mai rinunciare all’amore, che non ritorna».
Perché, con i capelli tinti di rosso, ha scelto di parlare pubblicamente di un tempo per lei tanto vendicativo?
«Trovo insopportabili le persone che raccontano un sacco di balle. Depressione e disagio psichico sono un fiume carsico in piena, negato e ignorato per accreditare l’idillio di una società felice. Siamo obbligati ad apparire sani, forti e colmi di gioia. Io però sono uno scrittore: per me è tempo di alzare il velo della colpa che nasconde il dolore. Voglio dire semplicemente la verità, a costo di essere sfrontato».
Come si rivede la luce?
«Nel mio caso ci vuole ancora tempo. Resto un anarchico, ma in ospedale ai medici devi obbedire. Ti svegliano alle sei di mattina e ti obbligano a bere subito due bicchieri di tranquillanti. Sei vivo, ma è come se fossi morto. Avrei cercato di guarire risalendo piuttosto in montagna, o partendo per un viaggio. Dal reparto psichiatrico di un ospedale esci solo se dici e se fai esattamente ciò che chi ti cura si aspetta».
In queste pagine alcuni scatti di Paolo Cognetti in montagna. Sotto Le otto montagne (Einaudi), il romanzo che nel 2017 gli è valso il Premio Strega.
Quali progetti ha per i prossimi mesi?
«Tornerò in Nepal: un sopralluogo, prima di girare un documentario nel Mustang. In marzo terrò un corso di scrittura a Marrakech: una settimana, poi mi fermerò un po’ in Marocco. In ospedale ho iniziato a scrivere un nuovo romanzo, a tratti divertente, sui temi seri di cui stiamo parlando. Nel tempo che rimane dovrò sistemare la casa, ancora vuota, dove mi sono appena trasferito».
Perché ha scelto di vivere buona parte dell’anno in alta quota?
«Mi sono illuso di poterlo fere. L’innamoramento è durato quattro anni: per due ho fatto il cameriere e mi sono sentito parte di una comunità. Poi, dopo che ho cominciato a camminare e a scrivere, l’umanità della montagna mi ha respinto».
Misurandosi con la solitudine pensava di poter fuggire al confronto con gli altri?
«Sì. A Milano il progetto politico degli anarchici, di cui pure frequento ancora due circoli, era finito. Dopo dieci anni avevo lasciato una ragazza da vigliacco. Non ho avuto il coraggio di dirle la verità, le ho fatto credere che me ne andavo per ritirarmi in montagna. Mentire rende soli, ma da soli non si vive».
Montagna e natura l’hanno sempre risanata: come hanno smarrito il loro potere salvifico?
«È successo che i miei occhi hanno mutato sguardo. Già un anno fa mi sono scoperto depresso. Per me un bosco è tornato solo un bosco, un torrente solo un torrente, perfino un albero non mi ha detto più niente. Nel cuore è sceso il silenzio: la malattia è riuscire a vedere solo il lato apparente della realtà».
Lei non smette di denunciare gli sconvolgimenti climatici che travolgono il pianeta: nel suo primo film, che inizia da una sorgente prosciugata, mostra un congedo o indica la via di una rinascita?
«Mi irrita chi si rifugia nella nostalgia, chi circoscrive la gratitudine verso la natura misurando il ritiro dei ghiacciai. La vita è trasformazione: anche l’irresponsabilità delle azioni umane è parte del cambiamento. Io denuncio e lotto, sapendo però di dover accettare le evoluzioni che per colpa nostra ci segnano».
Si fa abbastanza per assicurare il rispetto della natura?
«Vale la stessa legge dell’istruzione: fortunatamente in Italia la natura è stata dimenticata dalla politica. Gli ettari di foresta sono passati da 8 a 12 milioni, gli animali selvatici si moltiplicano. Temo che l’oblio stia scadendo».
Gli anni in montagna hanno cambiato la sua visione dell’ambientalismo?
«Da ambientalista di Milano sono contrario all’uccisione di lupi e orsi per non porre limiti all’attività umana, da montanaro valdostano capisco rabbia e paura di pastori e malgari. Il numero dei carnivori va contenuto: pascoli e alpeggi, se vengono abbandonati, rischiano di scomparire».
Anche ghiaccio e neve sulle Alpi minacciano di trasformarsi in un ricordo: ha senso investire ancora sull’industria dello sci e degli impianti di risalita sulle piste?
«Sopra quota duemila gli scienziati assicurano che per trent’anni lo sci resterà remunerativo. Più in basso, l’inverno in montagna va invece rapidamente reimmaginato. Serve uno sforzo di fantasia, il recupero di una dimensione naturale che costringa ad aprire gli occhi. Senza neve si può camminare: nei giorni in cui resta ci si può muovere senza seggiovie, come è avvenuto per secoli. Gli inverni diversi che ci aspettano sono un’opportunità da scoprire senza fingere drammi».
Fascismo, razzismo, antisemitismo e autoritarismo avanzano in tutta Europa: la sorprende che gli anticorpi civili e democratici si rivelino tanto vulnerabili?
«Sono arrabbiato e triste, ma non sorpreso. Chi ha lottato per la libertà, per la giustizia e per la democrazia, nel corso di ottant’anni è stato soffocato da un’educata gratitudine di facciata, subito catalogata alla voce memoria. Non sopravvivono quasi più testimoni, ci si affretta a raccontare il presente come passato. La storia in questo modo può essere non solo negata, ma riscritta: ai valori della resistenza viene associato l’odore della muffa, troppa gente non viene più pagata per il suo lavoro. L’Europa oggi fa paura perché ha paura».
Il ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara ha querelato lo scrittore Nicola Lagioia, reo di aver criticato il suo italiano: cosa ne pensa?
«È un calibrato atto di intimidazione, un segnale per tutti. Il governo così dice agli italiani di stare molto attenti a come si esprimono. Mi ricorda Erri De Luca, accusato di istigazione a delinquere e poi assolto. Il ministro Valditara oggi stabilisce che la critica al potere è un lusso riservato ai pochi che possono permettersi di rispondere di un reato in tribunale. La libertà di parlare torna a essere un costo e un ministro parte in vantaggio».
Anche il ministro alla Cultura Alessandro Giuli reagisce alle inchieste giornalistiche minacciando denunce: c’è un filo che lega i titolari dei due ministeri?
«Sì e il filo è l’inadeguatezza alla responsabilità assunta. Per fortuna l’istruzione in Italia è nelle mani degli insegnanti, ridotti a essere i missionari della civiltà. La cultura allo stesso modo è fortunatamente affidata all’intelligenza di studiosi e artisti. La sostanza c’è e resiste: i ministri senza qualità, scaduto il mandato, vengono dimenticati».
L’Italia è ancora un Paese colto?
«Sempre meno. Stiamo tornando ignoranti perché la cultura è stata appaltata alla televisione. L’Italia colta viene rapidamente risucchiata nell’equivoco di un reality».
Perché lei è buddhista, nel Paese custode del cattolicesimo cristiano?
«Ho avuto un’educazione ipercattolica e sono stato focolarino. Dieci anni fa ho scelto una filosofia fondata sulla ricerca dell’armonia tra esseri umani, animali e vegetali. Il buddhismo non ha mai promosso guerre sante: pratica la pace e insegna che la sofferenza nasce dal desiderio di ciò che non si possiede. Celebro il Natale in famiglia, senza regali, solo per fare felici i miei genitori».
Se pensa a un modo per sentirsi in pace, dopo settimane tanto generose di dolore, cosa le viene in mente?
«Vorrei avere cinque o sei amici sinceri, per contare su una mia famiglia vera. E poi essere libero, con un’agenda sempre vuota per i successivi sei mesi. Riuscire a godermi il pianeta, rifugiandomi negli ultimi luoghi rimasti originari. Alla fine anche per me è vivere la cura per riuscire a vivere».
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La depressione è come il cancro: non guarda chi sei, come vivi, cosa fai. Arriva perché trova una strada per insinuarsi e poi s’installa. Poi, però, qualche considerazione va fatta: essere una bella e colta persona, oltre che ottimo scrittore, che vive in montagna (in una bellissima baita, non in un maso agricolo e poi in Valle d’Aosta non si chiama ‘maso’) non fa necessariamente di te un montanaro. Così come salire ogni tanto una vetta accompagnati da una guida alpina non fa di noi veri alpinisti. Con la montagna così come in tutto ciò che estremo, ti ci devi ‘sporcare’ se ne vuoi davvero far parte. E questo non vuol dire soltanto far la legna per la stufa, che già è tanto eh, per carità, ma è solo l’inizio. Certo, l’isolamento alpino piace assai alla depressione. Quelle montagne sì bellissime ma che sanno essere cupissime, talvolta persino orride, che ti circondano, che impediscono l’orizzonte, che sanno essere dure, fredde, faticosissime, possono schiacciarti, toglierti il respiro. Tutto è fatica, in montagna; tanto è dolore, in montagna. La chiamiamo viticoltura estrema, agricoltura estrema, perché tutto è estremo, in montagna. E ci sono giorni che davvero vorresti fuggire da qui, che maledici il posto dove sei nato. E ti senti in trappola, in arresto tra queste cime che diventano, in quel momento, nemici invalicabili. Chi non ha mai provato ovvero vissuto queste sensazioni può leggere e persino scrivere tutto ciò che vuole sulla montagna: non ne potrà mai , per sua fortuna, coglierne l’estremo disagio.
Quando brucia così tanto, meglio usare un… balsamo!
Pasini, sono nato a Genova da madre finalese e padre lecchese-cimbro.
Io vivo sui monti tutto l’anno dal 1982.
C’è di tutto.
Ci siamo sfiorati. Oggi ero a Recco da mia sorella.
Sono scappato per evitare i gaudenti sci-muniti di Natale.
Scusate il divagare.
@39 “chi è?”
Se non mi confondo con un omonimo (nel qual caso mi scuso fin d’ora con l’interessato) dovrebbe essere l’autore di “Sopravvivere al nuovo ordine mondiale“, edito da Byoblu, che egli stesso così commenta:”In questo mio lavoro di geopolitica ho analizzato, in chiave storica, quanto accaduto in quella che è stata definita “la pandemia”.
Una raccolta di dati e fatti, depurati da semplici e banali opinioni, per capire i motivi reali e concreti del delirio collettivo di cui siamo stati vittime.
A prescindere dall’emergenza sanitaria, un autentico progetto di controllo sociale preludio a nuovi prossimi ridimensionamenti delle libertà individuali.”
@35 “Dicono che la primavera sia il periodo migliore per pescare, infatti in marzo-aprile 2020 sono abboccati in tanti”
Per chi si ritiene il più furbo, invece, non c’è un periodo migliore, in quanto abbocca tranquillamente tutto l’anno.
Come ben sanno tutti i suoi pusher di disinformazione 🙂
Incredibile lapsus. Volevo scrivere Cognetti ma è venuto fuori Cominetti. Però non importa, creda valga anche per lui, genovese doc, che saluto con piacere dal suo mare d’inverno. Bellissimo. San Fruttuoso oggi deserta: solo io e le capre.
Pasini, mi unisco a quanto scrive Antonio: ti leggo sempre con interesse, qui in particolare anche con sollievo. Invece, quei due tre interventi pieni di livore e sospetto, in particolare quello di tal Dalla Palma (chi è?), mi sono parsi davvero fuori luogo: per quel poco che ne capisco io, l’iper attività post cure di Cognetti (interviste, idee, piani per il futuro) non è altro che una ulteriore polarizzazione del suo problema. Meriterebbe solo comprensione e solidarietà.
Grazie Antonio. Sappiamo che il dolore è pure il suo opposto, la gioia, la bella figlia dell’Elisio, uniscono e fanno sentire fratelli, nonostante tutto, mentre la prestazione e la competizione dividono, come abbiamo già detto. Siamo fatti così anche se a Natale in tutte le chiese della cristianita’ si racconta quella bellisima storia di nascita ma anche di morte, annunciata come intuì il poeta Eliot, di fratellanza e di amore. Mentre fuori, da sempre, ci si ammazza con gran piacere. Saluti. Ps. Cominetti non è un montanaro, neppure di seconda generazione, ma non mi sembra si sia presentato come tale.
Il montanaro non parla troppo.
https://youtu.be/V9WQRoQPel8?si=7nIjQWM3Eud8DrM7
In ogni caso, auguro a chi soffra, di riaversi. Chiunque sia.
Il montanaro non parla troppo.
https://youtu.be/V9WQRoQPel8?si=7nIjQWM3Eud8DrM7
In ogni caso, auguro a chi soffre di riaversi. Chiunque sia.
Dicono che la primavera sia il periodo migliore per pescare, infatti in marzo-aprile 2020 sono abboccati in tanti, quasi tutti.
Però per Repubblica anche prima di Natale è un buon periodo per buttare le reti.
Caro Roberto di cosa scusarti?Anzi!per quel che mi riguarda è sempre il benvenuto leggerti.Certo l argomento non è facile e leggero non si tratta di spit o valanghe dove si vaga e vagheggia su orizzonti e libertà ritagliate col proprio sarto che è dentro noi.Qui siamo nella testa, la parte più misteriosa (per fortuna)ed inesplorata del nostro corpo e spesso indipendente dalle credute volontà di autocontrollo e autodifesa.
Ho sempre notato la gara ad apporre le firme e frasi sui grossi gessi di frattura agli arti da parte di amici e anche no…al contrario quando si spezza qualcosa nella mente scattano meccanismi opposti quasi di vergogna e ci allontaniamo ed allontaniamo. Consapevolmente spaventati ,diventa impossibile o quasi comunicare.
Ben vengano questi segnali di aiuto e fai bene ad evidenziarli inizimente nel tuo ultimo commento.
Il messaggio di Cognetti depurato da tutti i cascami (reputazione e marketing compreso) e’ molto chiaro. E viene da un uomo sofferente, il video senza barba, i capelli rossi, gli occhi spiritati fa soffrire, l’ombra di se stesso. Ai sofferenti: chiedete aiuto, non cercate scorciatoie o strade illusorie di uscirne fuori. Ai familiari: non fatevi fregare dall’ottimismo negazionista, intervenite, purtroppo le conoscenze e i mezzi primitivi che abbiamo oggi comportano durezze, dolore e conseguenze ma la domanda è: lo vuoi vivo con qualche speranza di salvezza o forse morto senza speranza ? Bella domanda e bel dilemma. Il messaggio è chiaro e chi non lo coglie o è accecato da sue emozioni che riguardano il personaggio non la persona o non è mai stato a contatto come paziente, familiare, amico, terapeuta con una sindrome bipolare grave con tendenze suicidarie, magari aggravata dall’uso di sostanze, come ha ben detto Bonsignore. Scusatemi tanto se sono intervenuto più volte, non volevo ma poi il sentimento di chi ha visto e partecipato, anche se in forma indiretta, ha prevalso. Mi scuso davvero ma le intenzioni erano buone. Buon Natale.
Grazia. Certo non solo la montagna ma tante altre cose non salvano. Qui però di montagna si parla. Le riviste di montagna e i blog di montagna sono lette da un gran numero di persone. Trovo meritorio pubblichino storie coinvolgenti,non articoli scientifici, che hanno una funzione di prevenzione primaria. Tutto qui. Anche una sola vita salvata vale.
Interessante il fatto che ci si affidi a una persona in cura per problemi psichiatrici (da cui gli auguro sinceramente di guarire, peraltro) alla ricerca di verità inappellabili su politica, società, montagna e futuro… ma Repubblica annusa l’affare. Un libro interessante e autentico (il primo) poi solo retorica.
Roberto, mi sento di sottolineare che non è solo la montagna a non essere salvifica in certi casi, ma qualunque luogo, visto che ovunque andiamo ci portiamo dietro noi stessi e il nostro bagaglio, e che non c’è una ricetta valida per tutti. Non credo ci sia bisogno di articoli per rendere più palese questa verità.
Per me la montagna è stata un grande culla oltre che maestra, ma può non esserlo per altri.
Andare a vivere in un maso, mi raccomando, non una baita, viene riportato dalla letteratura scientifica come l’elemento fondate per modicare i propri geni ed avere il DNA della montagna.
Tanti articoli pubblicati, risultati dei singoli a volte in contraddizione ma una bella meta analisi ci dimostra che il nostro ha ragione.
Mi raccomando, scegliete il giusto maso, per la valle pare che gli studi pubblicati non mettano in luce differenze statisticamente significative. Però solo sulle Alpi, non ci sono studi sugli Appennini.
Sul fatto che la montagna e l’andare in montagna non siano una cura efficace ma solo un complemento quando i problemi sono seri sono usciti un mare di articoli e di avvertimenti sulle riviste di settore. Ne segnalo uno particolarmente coinvolgente. Cognetti ha il merito con queste interviste di lanciare un messaggio importante per chi potrebbe farsi delle illusioni. Magari avrebbe potuto starsene in silenzio e nascosto ma forse sente il bisogno di condividere la sua esperienza e in qualche modo, come dice nell’intervista, di continuare quel ruolo che ha giocato in particolare con il suo ultimo romanzo. Il desiderio di parlarne è caratteristico di chi è passato attraverso esperienze traumatiche ed essendo lui uno scrittore lo fa in pubblico. C’è una componente narcisistica e un bisogno di protagonismo? Certo, fa parte del gioco e della personalità di molte persone con talento artistico, ma bisogna guardare anche il lato positivo e di prevenzione che esce dalle sue parole. Il fine può assolvere anche umane, molto umane debolezze. D’altra parte chi e’ senza peccato in tema di bisogno di protagonismo tra coloro che come noi partecipano ad un blog scagli la prima pietra. Vivere nascostamente non è per tutti e a volte può anche non far bene.
https://www.outsideonline.com/outdoor-adventure/climbing/climbing-wont-save-you/
Un’altra intervista, con altri dettagli: In dialogo con Paolo Cognetti: “La montagna è stata salvifica per alcuni anni. Poi le cose sono cambiate, ora non lo è per niente”
Non avevo letto l’articolo per intero ma ora dopo averlo fatto ho come l’impressione che anche in questi ennesimo caso dietro ci sia solo una questione di top@, come si dice in Toscana, altro che!😅👍
Solidarietà e massima comprensione a Paolo Cognetti che ha scritto un gran bel libro.
“La menzogna non paga e la vita presenta il conto…”. Queste parole mi hanno colpito. Spero davvero siano solo uno slittamento della frizione e che non sottintendano una visione della malattia mentale come “punizione” per qualche colpa. Sarebbe, magari inconscio ma ugualmente pericoloso, un ritorno ad una concezione “antica”della patologia psichica che tanta inutile sofferenza, colpevolizzazione ed emarginazione ha prodotto nel passato. Bisognerebbe stare attenti quando si usano certe espressioni, non tanto qui ma nella più ampia e ahimè più paludosa platea di FB come ha fatto l’autore del post, provocando una marea di commenti, alcuni dei quali francamente inquietanti.
Trovo fuori luogo il commento di Dalla Palma, che forse si dimentica d’essere umano egli stesso, con le stesse paure e preoccupazioni.
Portiamo tutti maschere e corazze, più o meno consapevolmente, costruendoci personaggi che sfoggiamo a seconda dei contesti – e certamente il volto che mostriamo non è quello che avevamo prima di nascere.
Il messaggio che mi arriva da questa intervista è che non bisogna vergognarsi nell’esternare, anche in pubblico, la propria fragilità e chiedere aiuto. Questo è particolarmente importante per quanto riguarda i disturbi mentali, ancora un tabù per molti di noi.
Tuttavia alcuni commenti, come quelli di Cla e Michele Dalla Palma (11 e 19), sembrano incentrati su giudizi personali: c’è chi insinua che c’è “ben altro sotto” e afferma che siano “più credibili i Rom“, o chi lo definisce “egocentrico” e “disonesto” affermando che la vita “presenta il conto” (così impara a scrivere di montagna senza averla “nel DNA“).
Mi chiedo quale sia la ragione nell’esprimere tanto rancore e se, in fondo, la vera colpa che viene attribuita a Cognetti non sia proprio il suo successo.
Eppure, la malattia mentale è una realtà che può colpire chiunque e in qualsiasi momento, indipendentemente da fama o ambizione. Sono esperienze molto difficili, e come tali impossibili da trasmettere a chi non le ha vissute.
Auguro a tutti – anche ai due commentatori citati – di non provarle mai, né sulla propria pelle né indirettamente. Anche se queste sofferenze cambiano il modo in cui vediamo gli altri, spesso rendendoci meno rancorosi e più aperti alla comprensione.
E, per quello che può valere, tutta la mia solidarietà umana a Cognetti.
Chi non ha provato può solo tentare di immaginare il labirinto delle forme depressive che possono portare a situazioni imprevedibili ma tutte devastanti, sia per chi ne soffre e sia per coloro che sono vicini affettivamente a questi soggetti.
Mi sento vicino a Cognetti e provo per lui una grande umana e ideale solidarietà.
Le banali ferocie di alcuni commenti, a mio parere dettati da un afflato dietrologico imbarazzante, mi lasciano un fetido sapore in gola.
Io non sono mai stato (credo) vittima di una simile tragedia mentale, ma c’è stato un lunghissimo momento durato tre anni dove ho avuto pensieri e formulato strategie/azioni dalle quali non si sarebbe più potuti tornare indietro.
Sono sempre più convinto che, nei momenti più bui delle nostre esistenze, siamo totalmente soli e le nostre eventuali “grida di allarme” rischiano di non essere comprese perché nemmeno noi stessi le riusciamo a farlo.
C’è bisogno di umana modestia.
@19
io non capisco cosa c’entri l’autenticità di Cognetti come scrittore o montanaro o quello che é con il discorso che fa qui.
si parla di salute mentale, non c’entra che lui sia un personaggio pubblico che possa piacere o meno (a me per esempio come scrittore non piace, leggo altro e bon).
o pensi che abbia raccontato questa vicenda per finta, per qualche ragione mediatica?
boh, forse non vi rendete conto di cosa significa avere ‘sti problemi
Dalla Palma. Ogni giudizio anche duro e severo su figure pubbliche come Cognetti è lecito (anche qui furono formulati giudizi critici in passato) magari nei tempi giusti e forse con un pizzico di pietas che non è buonismo ma umanità, minima per carità, visto che siamo in un contesto pubblico e non privato e chiunque può leggerlo. Vorrei solo ricordare che la malattia non è una punizione per le proprie colpe. Una teoria un pochino superata, anche senza essere adoratori della Scienza.
Una delle persone più egocentriche e disoneste, dal punto di vista intellettuale, che abbia mai conosciuto. E l’ho scritto, da giornalista, fin dalle prime volte che l’ho sentito pontificare sulla “montagna”. Che ha sfruttato per la sua ambizione senza neppure sapere di cosa stava parlando. Da “Milanese di San Babila” ha pensato di costruirsi un personaggio alla Mauro Corona (altro personaggio caricaturale, ma almeno genuino) abusando della retorica legata al mondo valligiano, pensando che fosse sufficiente una camicia a scacchi e una baita extralusso per definirsi “montanaro”, pretendendo di insegnare agli altri, come un novello messia, la “giusta via” per vivere e confrontarsi con un ambiente che, se non lo hai nel sangue, ti risputa da dove sei venuto. E parlo con cognizione di causa, vivo in un maso in Val di Rabbi, in Trentino, e la “montagna” è scritta nel mio dna. Ma la menzogna non paga e la vita presenta il conto anche a uno che ha cercato di essere quello che non era.
Grazie Paolo,
la tua non è solo una testimonianza importante. E’ molto di più, quanti vivono in montagna dovrebbero avere il coraggio di affrontare alcuni dei passaggi del tuo vivere e sentire. La fragilità può diventare ricchezza, se la si affronta, specie in modo collettivo.
Alcuni dei commenti (rari per la verità) sono ridicoli. Altri completano il discorso: un discorso, il vivere, che non ha comunque mai fine e che le parole possono solo contribuire a ridurne la complessità, e le diversità. Per aiutarci a discuterne come tu hai fatto, con serenità. Mentre si soffre.
Vivere in una baita in quota sei non sei montanaro e per di più viverci in periodo di pandemia implica non poche problematiche psicologiche. Tra le righe dell’intervista e nemmeno tanto tra le righe (‘l’innamoramento è durato quattro anni’ ecc.) la sua ripulsa emerge con chiarezza.
Cognetti è un personaggio pubblico, per lui essere intervistato è un evento comune e non un’anomalia. L’aver spaziato durante l’intervista su temi non strettamente connessi alla sua malattia -che sia stata una mossa voluta o inconsapevole- è comunque stato un modo per sfatare la corrente visione del “matto”, che purtroppo tra la gente comune resiste ancora.
Ricordo infine che la prevalenza dei disturbi affettivi tra gli scrittori sembra essere prevalente rispetto alla popolazione generale; e forse Cognetti non sarebbe Cognetti senza quei tratti psichici che purtroppo ne segnano anche momenti infelici dell’esistenza.
Fa bene a parlarne, perché chi soffre di questo genere di problemi si sente spesso isolato.
Le malattie mentali vengono spesso sminuite perché sono invisibili, e tante persone si sentono “sbagliate” e nemmeno sanno perché.
esporsi al pubblico non vuol dire raccontare solo la propria storia, ma incoraggiare le persone a chiedere aiuto se ne hanno bisogno.
Sempre da quello che ho purtroppo visto di persona, certe “uscite” plateali sono sostanzialmente delle disperate richieste di aiuto. Disgraziatamente, se si cerca appunto di fornire aiuto la persona reagisce pressoche’ sempre molto male, spesso in modo violento. Non ne hanno colpa (anche se magari e’ difficile tenerlo preaente), la malattia e’ cosi’.
Non so se chi fa dietrologie su quanto ha detto questo scrittore ha mai intravisto il baratro ; io preferisco passare per boccalone e credere a quello che ha detto , perche’ purtroppo sono situazioni che definire pesanti o tragiche , per chi ne e’ colpito e per i suoi contatti , e’ solo un lieve eufemisno.
Anch’io ho trovato inizialmente eccessivo dare in pasto al pubblico la propria interiorità, ma poi ho pensato al Paolo Cognetti degli anni scorsi, così schivo e riservato, e mi dico che forse vuole tendere la mano e desidera essere visto.
Anarchico. Strano tipo di anarchico quello che si fa intervistare da Repubblica. Mai conosciuto uno!
Ma anche strano tipo di TSO quello dove sotto sedativi e dormendo tutto il giorno si riesce a incominciare a scrivere un nuovo libro.
Nepal, Mustang, Marocco: bel programma per uno che ha subito un TSO recente, penso quasi impossibile per i normali umani, però il Cognetti forse può.
E meno male che lui non sopporta quelli che raccontano un sacco di balle, perchè raccontarne più di lui che le racconta da una vita diventa “mission impossible”. Erano più credibili i Rom che negli autogrill vendevano la scatola con dentro il mattone al posto della radio.
Cognetti: come dicono da noi ” Van per i praa che te la scurtet!”
Credo, spero che nessuno di voi abbia dovuto fare l’esperienza di casi del genere nella sua stretta cerchia di parenti diretti e amici intimi e anzi fraterni, come purtroppo è invece capitato a me e non una sola volta. Il TSO si decide solo in casi davveri gravi e in presenza di immediato pericolo per chi ne è colpito o per altri, e già questo chiarisce di cosa stiamo parlando. Per quel che vale, e mi piacerebbe enormemente che non valesse una cicca, la mia amara esperienza indica che ahimé non se ne esce. O si manca di imporre il TSO quando invece sarebbe indispensabile – per errata diagnosi o per umana simpatia, non conta – e la cosa finisce in tragedia. Oppure la persona ritorna ad una vita apparentemente normale, ma – come del resto si intuisce da certe cose che Cognetti dice – in realtà è del tutto “spenta” dai psicofarmaci, e si chiude sempre più in sé stessa. Sono situazioni molto, molto brutte.
TSO il 4 dicembre, dimesso il 17 dicembre, nemmeno il tempo di arrivare a casa dopo 13 gg. di sedativi e il 19 dicembre già c’era l’articolo su Repubblica. Cos’era tutta sta fretta, poteva aspettare anche dopo le feste e rimettersi un po.
??????
Molto enigmatico!
Georg Cantor padre della teoria degli insiemi infiniti
Impressionante.
Spero di non trovarmi mai nella sua situazione
In alcuni scambi di opinione con Cognetti già di qualche mese fa, avevo avuto l’impressione che qualcosa non fosse perfettamente in regola, ma mi sono ben guardato dall’approfondire.: è una sfera troppo personale. Ora scopro che anche lui, come tanti, attraversa una fase complicata. (tra l’altro leggevo qualche settimana fa che mai come in questa fase storica si consumano così tanti farmici antidepressivi o, all’opposto, ansiolitici per riuscire a dormire). Credo anche io che la cosa migliore sia lasciarlo in pace, ovviamente ben seguito da professionisti del settore e assistito dagli affetti a lui cari. Non c’è terapia migliore.
Io credo che Cognetti non abbia diffuso le notizie sul TSO per calcolo o protagonismo , ma solo perche’ sta attraversando un momento di fragilita’.
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Bene gli aiuti farmacologici , bene gli amici , e della sua figura pubblica , ne riparliamo quando riaffiora.
La depressione…parola spesso usata con superficialità, bestia oscura e sconosciuta fin che non si presenta. Dentro! Conficcata dentro e ben nascosta esce improvvisa come una grandine ad agosto senza tettoie né ombrelli per sfuggirvi, gela e avizzisce i germogli che la vita ha piantato in noi…forza Paolo!
Asciugati e riscaldati al nuovo sole !siamo con te!
Io sono per la non esternazione di certi eventi della propria vita. Come la malattia. Non esternazione sui social, al grande pubblico intendo. Come dice lui stesso, un aiuto potrebbe arrivare da pochi e intimi amici. Si legge che lui ha deciso di parlare e di fare un’intervista. Aggiungendo che è’ anche un modo per non tacere a proposito di malattie “spinose”. Credo che oggi corriamo il rischio opposto e cioè’ che in generale si parli troppo, anche di cose della sfera personale che dovrebbero rimanere tali. Gli auguro di migliorare ovviamente. Ma ho i miei dubbi che fare un’intervista aiuti ( nella quale tra l’altro si porta il discorso, guarda caso, su valutazioni anche di attualità’ politica). Molto spesso sarebbe meglio restare in silenzio. E far due parole, due non di più, con l’amico che hai da 40 anni.
Che lo lascino in pace invece di continuare a fargli giocare un ruolo di wonder boy che probabilmente non gli si confà. Ha bisogno di tempo e di curarsi adeguatamente. Nelle 8 montagne gli indizi della bipolarità c’erano tutti. Ricordiamoci che finisce con il suicidio del lato “montano”, empatico ma depresso. Sopravvive il lato “cittadino” che a fatica si integra ma con qualche prezzo. Anche all’autore forse hanno salvato la vita ma a caro prezzo. Gli effetti secondari dei farmaci si vedono tutti nell’intervista video. Se gli volessero un po’ di bene o almeno avessero un po’ di pietas lo lascerebbero tranquillo. La montagna non cura se i problemi sono seri. Non è il primo caso purtroppo. Forza Paolo, lasciali perdere, almeno per un po’, finché non starai di nuovo bene, come tutti ci auguriamo di cuore.
La mia solidarietà a Paolo Cognetti.