Werner Munter, svizzero di Arolla, è nivologo di caratura internazionale, guida alpina dal 1971 e inventore del famoso metodo 3×3 (vedi allegato, un pregevole lavoro del CAI e di Beppe Stauder) e del Nivocheck, obbligatori nella formazione delle guide alpine svizzere e utili nel ridurre i casi di incidente da valanga attraverso una procedura di valutazione del rischio. La sua lezione è da anni ampiamente accettata e messa in pratica dalle scuole di scialpinismo e diffusa con tutti i mezzi. Al convegno di Trento Tutti matti per la neve (2 dicembre 2014) la sua relazione era molto attesa, e di certo non ha deluso.
Werner Munter
Il numero di febbraio 2015 di Montagne360 ha ripreso il contenuto della relazione di Munter, facendo un lavoro lodevole. Purtroppo all’illuminato senso profondo di ciò che Munter comunica, nella stessa rivista seguono non uno, bensì due, articoli i cui titoli vanno in direzione opposta. Non mi stancherò mai di ripetere che l’iniziativa “Montagna Sicura” è valida e necessaria solo a patto che cambi il nome! La montagna non è MAI sicura, perciò al massimo possiamo dire “Montagna più sicura”. E invece no, i titoli dei due articoli seguenti sono La montagna è “amica e sicura” anche d’inverno e Sicuri con la neve. E’ pur vero che leggendo gli articoli è più volte ricordato che la sicurezza al 100% non esiste, lo dice anche con molta chiarezza il presidente Umberto Martini. Ma cosa costerebbe modificare il logo? Nulla, e in più molti si chiederebbero perché è stato modificato, costretti quindi a riflettere sul significato.
Werner Munter: Il rischio non si elimina, ma si può gestire
a cura di Luca Calzolari (da Montagne360, febbraio 2015)
«In generale, quando parlo di un livello di rischio accettabile, di un giusto livello di rischio, molti prendono la mia affermazione per una provocazione. Ma attenzione: non esiste nessuna attività umana esente da rischi: persino il momento della nascita porta con sé un altissimo livello di rischio, e tutta la nostra vita è costantemente costellata di rischi. Di per sé, la vita stessa è pericolosa per la vita. Anche i lavori domestici sono molto pericolosi – e forse è proprio per questo che gli uomini cercano di evitarli…».
Ma qual è la differenza tra rischio e pericolo?
«Sono considerati spesso sinonimi» ha spiegato Munter nel corso della sua chiacchierata, «ma sono in realtà cose ben distinte. Quando ci esponiamo a un pericolo della natura, si corre un rischio, e gli alpinisti affrontano il rischio volontariamente. Con i nostri comportamenti, infatti, noi possiamo influenzare il livello di rischio. La mia personale formula di rischio è natura diviso uomo, o pericolo diviso comportamento, oppure potenziale di pericolo diviso per il prodotto di molti fattori di riduzione del rischio. Provo a spiegarmi: il potenziale di rischio varia in maniera esponenziale e raddoppia di grado di pericolo in grado di pericolo. Un pericolo debole, segnalato dai bollettini delle valanghe con il grado 1, ha un potenziale di rischio pari a 2; un pericolo moderato, di grado 2, ha un potenziale di rischio pari a 4; e un pericolo marcato, di grado 3, possiede un potenziale di rischio pari a 8. Ed ecco che così ho costruito la nostra bilancia del rischio. A questo punto faccio osservare che un pericolo marcato ha un doppio potenziale di rischio rispetto a un pericolo di grado moderato. I fattori di riduzione, però, sono in grado di dimezzare costantemente il rischio. Perciò, se su uno dei piatti della bilancia metto 3 gradi di pericolo, sull’altro devo controbilanciare con tre gradi di riduzione conseguenti al mio comportamento. La bilancia dev’essere sempre in equilibrio. La mia regola aurea dice che, tenendola in equilibrio con l’introduzione dei fattori di riduzione, possiamo affrontare lo stesso livello di rischio indipendentemente dal grado di pericolo. Il pericolo marcato, di grado 3, che ha un potenziale di rischio pari a 8, deve perciò essere controbilanciato da 3 fattori di riduzione; il grado 2, con potenziale 4, ha bisogno di 2 fattori di riduzione. Quello moderato, di grado 1, necessita invece di un solo grado di riduzione».
Ma quali sono i fattori di riduzione che dobbiamo fare entrare nel gioco?
«Vanno studiati e ricordati a memoria: bastano 5 minuti per impararli. Si suddividono in tre classi diverse. La prima classe riguarda la rinuncia ai pendii più ripidi, e qui si ha riduzione del rischio solo se si opera una rinuncia. Se rimaniamo al di sotto dei 40° di inclinazione del pendio, godremo di un fattore di riduzione pari a 2. Se rimaniamo al di sotto dei 35°, il fattore di riduzione sarà pari a 4. Teniamo conto che, oltre i 30°, sono necessarie le inversioni e non è più possibile salire direttamente con le pelli di foca lungo la massima pendenza, e purtroppo questa è la pendenza giusta per il distacco delle valanghe a lastroni. I fattori di riduzione di seconda classe riguardano la rinuncia a determinate esposizioni dei pendii, e non valgono in caso di neve bagnata. Occorre rinunciare ai pendii esposti in tutta la fascia che va da nord ovest a nord, fino a nord-est, e in questo caso il fattore di riduzione è pari a 2. La rinuncia a pendii privi di tracce è ugualmente pari a 2. Nell’emisfero sud ovviamente l’esposizione da evitare va invertita. La terza classe di riduzione riguarda invece le dimensioni del gruppo e le distanze di sicurezza da adottare. Per gruppi minuscoli, di 2-4 persone, il fattore di riduzione può essere considerato pari a 2, e lo stesso può valere per gruppi più ampi, purché venga mantenuta la distanza di sicurezza. Ecco, questa è la paginetta da studiare e memoria. Una precisazione importante, che è bene ripetere: con pericolo marcato, di grado 3, vanno assolutamente evitati i pendii sopra i 40°. Per chi non è in grado di tenere a mente ciò che abbiamo appena detto, ho sviluppato un metodo semplificato che ho chiamato del sottobicchiere, perché la tabella sta comodamente sul sottobicchiere della birra e, una volta sul posto, il check richiede un minuto per prendere una decisione. I criteri? Sono gli stessi già visti ma, anziché parlare di fattori di riduzione, qui parliamo di bonus.
Se sto sotto i 40° di inclinazione (40° nel punto più ripido, beninteso, non dove esattamente ci si trova), ottengo un bonus; sotto i 35° guadagno 2 bonus. Se mi tengo lontano dai pendii esposti a settentrione (da nord-ovest a nord-est), ho un altro bonus (che non vale però in presenza di neve bagnata). Un altro bonus lo ottengo se affronto un pendio con tracce visibili, e un altro ancora se in salita tengo una distanza di almeno 10 metri dal compagno (e di più ancora durante la discesa). Con pericolo marcato di grado 3, devo almeno poter contare tre bonus, tra i quali è obbligatorio che compaia uno dei fattori di riduzione di prima classe (es., stare sotto i 40°). I punti non sono cumulabili. Con grado di pericolo 2, dovrò totalizzare almeno due bonus, raccolti in tutte le tre categorie: e questo vuoi dire che, se mi tengo sotto i 35° potrò avere buone possibilità anche sui versanti nord. Aggiungo ancora che, con pericolo molto forte, di grado 4, non siamo più in grado di valutare correttamente il rischio ed è giocoforza la rinuncia totale.
Di fronte a me c’è una fotografia con uno sciatore che scende su un pendio ripido, intorno ai 40°, non ci sono tracce sul pendio, la neve è asciutta, l’esposizione è a nord-est. Proviamo ad analizzare la situazione. Rispetto all’inclinazione del pendio, non abbiamo bonus. Non ci sono tracce, e quindi neanche in questo caso abbiamo bonus: rimane solo la possibilità di mantenere le distanze. In questo caso, il rischio qui diventa accettabile solo con grado di pericolo 1 dei bollettini della neve. Siamo di fronte a una delle combinazioni possibili più estreme. Ma sappiamo anche che, per fare determinate scialpinistiche, dobbiamo aspettare le condizioni ideali. I giovani oggi non sanno più aspettare: tutto e subito, adesso. Di recente in tivù ho sentito una madre che asseriva di non aver mai detto no al proprio figlio. Penso che quel ragazzo si sia trovato di fronte a una preparazione alla vita di basso livello. Ho pensato anche a un altro strumento, che tenesse conto delle combinazioni più pericolose. E alle tre combinazioni che sto per enunciare, bisognerebbe rinunciare in ogni caso, anche se si è degli esperti o dei locali. Le elenco: con pericolo di grado 2, si deve rinunciare ai pendii sopra i 40° nel settore nord e non tracciati; con pericolo di grado 3, bisogna evitare i pendii sopra i 40° su tutte le esposizioni; mentre con pericolo di grado 4, la rinuncia deve riguardare tutti i pendii sopra i 30°. Nei casi citati, siamo chiaramente in una zona rossa, di rischio, in cui la bilancia pende tutta da una parte. Ovviamente ognuno è libero di fare ciò che vuole, ma con gli strumenti elencati si sa che ci si trova in una zona a rischio.
Molti dicono che il mio metodo concede troppa libertà; una piccola parte ritiene invece che sia troppo selettivo: ma questo mi rallegra, perché vuol dire che ho trovato un buon equilibrio. Tenendo la bilancia in equilibrio, possiamo permetterci di fare 100.000 scialpinistiche e incappare una volta sola in un incidente mortale. Il numero, definito come case fatality rate, di 1 su 100.000 rappresenta la norma di sicurezza degli ingegneri tedeschi: dunque siamo di fronte a un rischio socialmente accettabile. Mi dicono che sono cinico: no, sono semplicemente realista. Il rischio zero non esiste.
Negli anni Ottanta avevamo una media di 16,7 morti per valanga ogni 170.000 utenti (1 morto ogni 10.000 utenti). Con l’introduzione del metodo di riduzione del rischio, abbiamo avuto 9,4 morti su 20.000 scialpinisti (1 ogni 200.000 utenti), e il case fatality rate si è dimezzato. Se ogni anno il nostro scialpinista tipo effettua cinque uscite, e se gli utenti sono 200.000, significa che abbiamo 1.000.000 di giornate di rischio e che la percentuale di 1 morto su 100.000 è socialmente accettabile».
Oggi il rischio è sottovalutato o, al contrario, sopravvalutato?
«Se si ritiene accettabile il rapporto 1:100.000, in Svizzera direi che il rischio è valutato in maniera corretta. Essendo 240.000 gli scialpinisti svizzeri che praticano regolarmente l’attività, dobbiamo aspettarci circa 12 morti per valanga ogni anno. E io accetto questa cifra, perché sono cinico. Non conosco con precisione i dati degli incidenti in Italia. Quello di cui ha bisogno lo scialpinista sono regole semplici; regole che ho proposto già vent’anni fa. Ricordo ancora una volta la mia regola aurea: grado di pericolo 3, tre fattori di riduzione del rischio; grado di pericolo 2, due fattori di riduzione del rischio; grado di pericolo 1, un fattore di riduzione. Basta saper contare fino a tre. Chi non è capace di contare fino a tre, di sicuro ha una scarsa capacità di sopravvivenza in montagna d’inverno. Ma sapete che vi dico? Che per anni abbiamo scavato buchi nella neve, analizzando e studiando gli strati che si erano depositati sul suolo, e poi a un certo momento mi è venuto in mente che il segreto della sicurezza non stava nella neve, ma nella testa delle persone. Dovevo scavare nella mia testa».
IL METODO DI RIDUZIONE DI WERNER MUNTER
Sia pure riprendendo alcuni concetti della sua ottima regola del 3X3, che impone la valutazione di tutti i fattori determinanti il rischio, l’autore si limita a considerarne solo alcuni dando poi ad essi un valore e, con una semplice formuletta, calcola il rischio residuo. Le variabili prese in considerazione sono il Rischio potenziale (Rp), ottenuto dando pesi ai gradi di pericolo indicati nei bollettini nivometeo o valanghe, nonché i Fattori di riduzione (Fr); questi ultimi riguardano 3 categorie:
1) inclinazione del pendio sul posto o nel punto dove è più ripido,
2) esposizione del pendio,
3) il gruppo e il comportamento; anche a questi fattori vengono assegnati dei pesi.
Il rapporto tra il Rischio potenziale e i Fattori di riduzione ci dà il Rischio residuo (Rr) che, se risulta inferiore o uguale a 1, può essere accettato. I valori da assegnare al Rischio potenziale ed ai Fattori di riduzione sono riportati nella tabella di Fig.1
Divengono inevitabili alcune considerazioni critiche.
Per quanto riguarda il Rischio potenziale bisogna dire che l’esame dei fattori determinanti l’evoluzione e il conseguente grado di consolidamento del manto nevoso viene demandato ai Bollettini valanghe escludendo con ciò ogni valutazione zonale e locale. Bisogna poi tenere conto che anche i migliori previsori valanghe possono commettere errori, in particolare quando per la previsione del pericolo di valanghe entrano in campo le previsioni meteorologiche.
Anche senza tenere conto dei possibili “errori” di previsione nei bollettini valanghe, bisogna correttamente considerare le caratteristiche strutturali dei contenuti dei bollettini stessi che sono sostanzialmente finalizzati a riportare, in un determinato periodo e in un determinato territorio (ovviamente molto più grande dell’area interessata da un tracciato scialpinistico) i concetti della Scala unificata del pericolo di valanghe come, per altro, si accennava all’inizio.
Da quanto sopra si desume che:
1) la diffusione (e, quindi, la probabilità di incontrare siti pericolosi) descritta nei bollettini non indica, con la necessaria precisione, i reali punti pericolosi da attraversare durante uno specifico itinerario (anche in situazioni di pericolo marcato sono possibili itinerari non pericolosi; di contro, in condizioni di pericolo moderato non si possono escludere realtà molto pericolose, sia pure molto localizzate);
2) l’utente deve quindi in ogni caso stabilire, di volta in volta, le reali condizioni di pericolo di fronte a cui si trova per pesare correttamente il Rischio potenziale; per fare ciò però deve per forza procedere ad un attento esame di tutti i fattori (magari applicando proprio la regola del 3X3!) e, a questo punto, la formula di riduzione diviene inutile.
Per quanto riguarda i Fattori di riduzione bisogna dire che ci troviamo di fronte ad alcune eccessive semplificazioni e schematizzazioni che portano a conclusioni spesso fuorvianti.
Si consideri l’inclinazione dei pendii:
1) anche disponendo di carte di dettaglio non è possibile stabilire se ci troviamo entro i 34° o siamo già ai 35°; si può stabilire solo con adatti strumenti di precisione e solo sul posto, ma allora potrebbe essere già tardi;
2) un pendio con inclinazione di 37°- 40°, caratterizzato da crosta da fusione e rigelo portante, è decisamente meno pericoloso di un pendio di 27°- 30° con lastrone soffice debolmente consolidato;
3) bisognerebbe anche considerare il tipo di percorso introducendo un fattore di riduzione per la sua posizione (dorsali e creste piuttosto che canaloni) e per la percentuale di siti potenzialmente pericolosi (canaloni, tratti esposti, pendii aperti sotto creste, ecc.) che in questi casi potrebbero anche aumentare il pericolo (per esempio: 0,2 – 0,5, nei casi di maggior probabilità di pericolo).
Si consideri l’esposizione dei pendii:
1) sia pure tenendo conto delle statistiche che indicano che il 60% degli incidenti avvengono sui versanti nord non si deve dimenticare che il 40% (e non è poco!) avvengono su versanti con le altre esposizioni e, quindi, non si deve mai escludere una corretta valutazione locale che non può dare luogo, a priori, ad un peso inferiore per esempio per i versanti sud; per esempio: con neve trasportabile, venti da nord e basse temperature, si possono avere situazioni di forte pericolo, anche prolungato nel tempo, anche a sud;
2) bisogna rilevare che molti tracciati hanno più esposizioni; in questo caso di quale esposizione si tiene conto?
Di quella in cui si valuta ci sia più pericolo (ma in questo caso si torna al problema del riconoscimento del pericolo stesso: dove si trova e di che tipo è?), oppure di quella predominante per lunghezza o dislivello (con il rischio di escludere proprio l’esposizione più pericolosa)?
Si consideri il fattore umano (gruppo e comportamento):
1) come si riconosce un pendio regolarmente percorso (in particolare dopo una nevicata)? Per la sua fama (ma questo non ci dice se sia stato frequentato di recente!)? Perché presenta tracce (quante? recenti?)?
2) la capacità di mantenere la distanza di sicurezza (ivi compresa quella che consente il contatto visivo e/o acustico) non può entrare nel computo della gestione del fattore umano: deve essere sempre presente, pertanto diviene inutile, oltre che contraddittorio, introdurre la distinzione tra “piccolo gruppo” e “piccolo gruppo che mantiene le distanze di sicurezza”; ancor più contraddittoria è la categoria del grande gruppo con distanze di sicurezza: se può esistere un piccolo gruppo senza distanze di sicurezza tanto più potrà esserci un grande gruppo senza comportamento di sicurezza;
3) sarebbe invece accettabile la sola distinzione tra grande e piccolo gruppo: anche in presenza di una buona capacità di mantenere la distanza di sicurezza è più difficile gestire un grande gruppo che un piccolo gruppo: maggiori probabilità di errori di comportamento e minori possibilità di controllo e recupero rapido degli stessi;
4) dovrebbero di contro essere considerate le condizioni fisiche, le capacità tecniche e le basi conoscitive dell’ambiente montano, elementi che invece non sono usati nella valutazione del gruppo e del comportamento.
Nato in Svizzera nel 1941, Werner Munter è Guida e istruttore dal 1971, vive attualmente nel Vallese vicino a Sion, nel cuore delle Alpi. Ha fatto parte della Commissione per la sicurezza dell’UIAA (che raggruppa le più importanti associazioni alpinistiche), e da tempo è collaboratore e consulente dell’Istituto Federale svizzero per lo studio della neve e delle valanghe (SLF di Davos), conosciuto ormai in tutto il mondo per le sue numerose conferenze e per i corsi di formazione sulla prevenzione del pericolo valanghe negli sport invernali. Autore pure di una guida delle Alpi Bernesi, sono particolarmente famose le edizioni dei suoi manuali sul rischio valanghe (Il rischio valanghe. Nuova guida pratica, 1992, e 3×3 Avalanches. La gestion du risque dans les sports d’hiver, 2003, pubblicati dal Club Alpino Svizzero).
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Ho apprezzato molto l’articolo per 2 motivi.
Primo: si può sapere tutto sui cristalli di neve e sulla formazione delle placche da vento e faro lo stesso degli errori di valutazione perchè se si prendono in considerazione troppi criteri, difficili e magari ambigui si finisce per scegliere in modo irrazionale sulla base della paura o del desiderio di andare avanti. L’unico modo per risolverlo è avere una regola semplificata, oggettiva, facile da ricordare e da applicare che mi avverte quando sto lasciando un terreno di relativa sicurezza e sto andando nella zona a rischio.
Secondo: finalmente si ragiona sulla statistica, con dei numeri e delle probabilità e si definisce una probabilità di rischio accettabile. Concetto ben diverso da “La sicurezza prima di tutto”. Ragionando sui numeri, ad esempio cercando “Micromort” su wikipedia, si possono scoprire molte cose: una maratona e una gita di scialpinismo hanno una probabilità di morte simile; uno scialpinista che fa 10 gite all’anno corre un rischio simile a chi fa 40 000 km all’anno in macchina e 10 o 20 volte inferiore a chi si ammala di morbillo in un paese sviluppato.
“Ma sapete che vi dico? Che per anni abbiamo scavato buchi nella neve, analizzando e studiando gli strati che si erano depositati sul suolo, e poi a un certo momento mi è venuto in mente che il segreto della sicurezza non stava nella neve, ma nella testa delle persone. Dovevo scavare nella mia testa».”
GRANDE!!! Condivido al 100%!!!
non esiste per definizione un “rischio “azzerabile quello che si può fare e diminuirlo con delle indicazioni precise e tecniche applicabili e condivise. ma tu puoi avere diciamo così le migliori linee guida ma la loro applicazione in questo caso dipende dalla valutazione del singolo e qui casca l’asino.Non desidero che sia ingabbiata la libertà di andare in montagna ma la mia impressione è che purtroppo non è per tutti e che la parola rinuncia sia di difficile comprensione,