Alla fine del dondolìo
(scritto nel 1998)
Lettura: spessore-weight****, impegno-effort**, disimpegno-entertainment***
Quel primo pomeriggio del 17 giugno 1969 che mi vide arrivare in vetta alla Punta Gnifetti dopo dodici ore di scalata solitaria sulla via dei Francesi della parete nord-est era quasi il culmine della mia curva alpinistica, ma non lo sapevo. E non lo seppi neppure per molti anni dopo, come sempre accade per i momenti di massima felicità.
Una sensazione però faceva diversa quell’ultima vittoria, quel polo così a lungo desiderato e forse meritato. Una sensazione destinata ad acuirsi in breve, non appena informato, proprio un mese dopo, che l’uomo aveva conquistato la Luna. Il paragone era troppo scontato e tentatore: quella era la mia luna, stessa fatica, stessa determinazione, stesso coraggio.
Così, se non sapevo di aver raggiunto il punto massimo, avevo però la non poi tanto segreta convinzione di aver toccato quel punto che nessuno, con i mezzi del tempo e con quella storia alpinistica alle spalle, aveva mai raggiunto. Ero finalmente andato oltre, anche solo di un piccolo gradino, ma più lontano. Cosa non riuscivo a vedere? Semplicemente che di lì a poco la parabola avrebbe cominciato il suo tracciato discendente: credevo in buona fede che avrei potuto stare a quel livello per anni e anni e magari superarlo ancora.
Parete nord-est della Punta Gnifetti. In rosso, la via dei Francesi
Altrettanto in buona fede pensavo però, e qui a ragione, che altri sarebbero ben presto andati oltre. E non solo per questioni di attrezzatura più sofisticata: erano i tabù che dovevano cadere. Caduti loro, si sarebbe ancora progrediti. Mi rivedo arrancare sulla grande parete, e prima ancora a notte fonda partire dal rifugio. Scarponi doppi ai piedi, giacca e sovrapantaloni imbottiti. Niente radio, niente previsioni del tempo, niente allenamento specifico sulla scalata su ghiaccio, niente piolet traction di là a venire, convinto che i 60° di pendenza fosse il massimo che un corpo umano potesse superare. Per le salite su roccia, come il mio successivo Naso di Zmutt, niente spit, allora inesistenti, e niente chiodi a pressione, lasciati a casa in onore all’etica vigente. Neppure l’uovo di colombo di attrezzare sistematicamente le soste per garantire una discesa sicura era di moda in quegli anni: si saliva fino a quel punto in cui ci si rendeva conto che la ritirata sarebbe stata da quel momento impossibile, poi si continuava con un interiore «il dado è tratto» che non ammetteva più ripensamenti. In quelle condizioni, e dopo quasi trent’anni di sviluppo etico, tecnico e sportivo, è facile dire che l’avvenire era ben chiaro davanti a noi e che solo degli ottusi superbi potevano non sbirciare almeno qualcosa dal quaderno del futuro che oggi ci sembra fosse così aperto.
Non mi vergogno del mio spontaneo paragone con la conquista della Luna: in effetti non ho mai pensato seriamente che le due cose potessero essere confrontate per il loro valore storico. Ciò che accomunava le due imprese, l’una sportiva, l’altra tecnologica, era il coraggio di pensarle e di farle: in definitiva entrambe contribuivano al progresso dello spirito umano.
Le conquiste sportive o scientifiche (soprattutto quelle interplanetarie) sono uno dei pochi valori che l’Occidente possa seriamente vantare. Purtroppo entrambe hanno avuto e avranno delle ripercussioni psicologiche la cui portata è difficilmente valutabile. Nella cultura tradizionale dell’Oriente non esistevano né lo sport né l’approccio empirico allo studio della materia che hanno invece portato l’Occidente ai vertici dei record sportivi e ai livelli di benessere attuale. Il Duemila è arrivato e c’è sempre meno fantascienza davanti a noi: tutto ci sembra possibile. I samurai non agivano con regole che misuravano le prestazioni. Il rigido codice etico cui obbedivano era quello dell’onore, quello del rispetto infinito dell’avversario. Solo così si poteva essere sicuri che mai le leggende e neppure i miti sarebbero morti: l’uomo avrebbe continuato ad abbeverarsi alle fonti sicure lasciando i deserti ai pazzi alla ricerca della propria anima perduta. Le conquiste misurabili, come quella della Luna, in effetti procurano squarci devastanti nella sfera protettrice in cui riposa la fondamentale certezza che l’uomo è nulla e che non deve aspirare ad essere di più. Le grandi, ma anche le piccole conquiste di ogni giorno, creano lentamente nuovi stati d’angoscia tra milioni di esseri umani più sensibili che poi alla lunga si riversano sugli altri miliardi.
Alessandro Gogna all’inizio delle difficoltà della via dei Francesi. 17 giugno 1969.
Prima delle imprese che portano alle vittorie non si ha mai il sospetto che il nostro agire è gravido di conseguenze. Dopo, a qualcuno passa per la mente il sospetto, e costui è perso per quel genere di cose. All’epoca della conquista dell’Everest, uno scrittore indù scrisse: «Non è semplicemente una montagna, e anche la più alta della Terra, che si chiama Everest; è la dimora dei nostri dei, il santuario dei nostri santi, il punto nevralgico della nostra ricerca dell’Infinito».
La tragedia di molti miei compagni scomparsi in questa ricerca è un’emozione sbiadita pronta a ricolorarsi di porpora se lascio riaffiorare il ricordo. Personalmente ho avuto finora un destino diverso: non mi sento reo di aver lasciato andare avanti altri che come Gervasutti dicevano «Osa, osa sempre, e sarai simile ad un dio», o magari colpevole di non essere troppo innamorato delle leggende («Muor giovane chi è caro agli dei»).
Patrice de La Tour du Pin diceva «Tutti i paesi che non hanno più leggende sono condannati a morire nel gelo». L‘assassinio dell’impossibile è nella stessa natura della vittoria, anche se Messner denunciò a suo tempo soltanto gli sleali metodi di lotta di alcuni. Nel mio piccolo so bene di aver contribuito anch’io all’uccisione del drago, quindi delle leggende e quindi dell’impossibile. La mia vita dopo la via dei Francesi è stata un continuo dondolìo, tra le due posizioni di stallo dell’altalena e la posizione centrale di massima velocità. In alto e avanti c’è il dimenticare puro e semplice, quindi la ricerca che continua, le gioie per i miei piccoli successi di alpinista a un certo livello oppure l’interesse e l’entusiasmo per i successi altrui, quando sentivo che questi erano carichi di grande energia positiva. In alto e indietro c’è l’immensa confusione mentale di chi dà tutto per certo e prima o poi possibile, con tutte le necessarie conseguenze sul piano personale ma anche poi collettivo, quindi intellettuale, religioso, sociale e politico. Al centro e in basso, proprio nel punto in cui il dondolio non ti permette di fermarti, c’è una nuova speranza: la fede che «La conquista dell’Everest, come quella del cielo con l’aviazione o dello spazio con i missili, non distruggono i vecchi miti nel cuore dell’uomo. Esse lo costringono semplicemente a ripensarli a un livello superiore di coscienza (Samivel)». In quel punto di arresto del dondolìo c’è lo spostamento di piano che ci permetterà di ricominciare tutto da capo.
1969, Parete Nord Est del Monte Rosa, via dei Francesi, prima salita solitaria di Alessandro Gogna
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Ben detto; si può scrivere di montagna senza raccontare una salita, tiro per tiro. E si può avere il coraggio di aprire la propria mente in modo che gli altri possano scrutarne i pensieri.
Condivido, la sola permanenza è l’oscillazione, tra il nulla che dici:
“Le conquiste misurabili, come quella della Luna, in effetti procurano squarci devastanti nella sfera protettrice in cui riposa la fondamentale certezza che l’uomo è nulla e che non deve aspirare ad essere di più. Le grandi, ma anche le piccole conquiste di ogni giorno, creano lentamente nuovi stati d’angoscia tra milioni di esseri umani più sensibili che poi alla lunga si riversano sugli altri miliardi.”
E il divino che è in noi.
L’uno si esprime quando ci prendiamo troppo sul serio. Allora il mondo si riduce a noi stessi.
L’altro, quando ce ne accorgiamo. Allora il mondo si apre a tutto.