Alpinismo da scrivere
(da Un Alpinismo di Ricerca, 2a edizione, 1983)
Lettura: spessore-weight(3), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
Le principal est de dire ce que l’on a à dire, et pour cela d’avoir quelque chose à dire (Bernard Amy, in una lettera all’autore).
Dialogo di aspiranti autori e scopo di un libro
Nel 1973 avevo ormai letto con attenzione la maggior parte di libri ad argomento alpinistico in circolazione ed ero giunto alla conclusione che ben poche opere mi avevano comunicato qualcosa in più di quanto avessi già vissuto di mio proprio. Ciò poteva rafforzare l’ipotesi che l’esperienza alpinistica è oggettiva e che non si esperisce mai nulla di soggettivo. Ma qualcosa mi diceva che non era vero e questa mia segreta convinzione si esprimeva nell’aspirazione a scrivere prima o poi qualcosa di veramente nuovo.
Kathmandu: nella calda e mal ventilata cameretta d’albergo in cui riposavamo, sdraiati su letti paralleli e dopo una faticosa giornata di bighellonaggio per la città, Leo Cerruti, Miller Rava ed io avevamo del buon tempo. Nei rari momenti di serietà discutevamo su un futuro libro a documento della nostra spedizione all’Annapurna.
A Birethanti, in marcia per l’Annapurna, agosto 1973: da sinistra, Guido Machetto, Leo Cerruti, Miller Rava (con gli occhiali scuri), Carlo Zonta, Carmelo Di Pietro, Angelo Nerli
Miller: – Ci vogliono flash di cronaca intercalati da discussioni, come in Paropàmiso di Fosco Maraini, non fini a loro stesse, ma che accostate dicano qualcosa su un certo modo di vedere l’alpinismo.
Leo: – È molto difficile. Prima di spiegare il nostro pensiero, bisogna averlo ben chiaro.
Miller: – L’idea di Maraini, per parlare di ciò che interessa a lui, e cioè di filosofie orientali, è quella di farsi interrogare dai suoi compagni, però il suo in pratica è un monologo, perché gli altri timidamente chiedono e lui sviluppa ampiamente tutto quello che sa.
Alessandro: – Un po’ come nei Dialoghi di Platone.
Miller: – Siccome questa spedizione è l’espressione di un certo modo di vedere l’alpinismo, è giusto ch’essa, tramite il libro, riveli il suo contenuto più intimo, la mentalità del nostro gruppo.
Leo: – Ma non deve essere un trattato, se no chi te lo compra? Il libro ha successo se sei salito in cima, se ci metti belle foto…
Alessandro: – Secondo me l’abilità sta nel fondere abilmente le due cose. E fondere non vuol dire intercalare…
Miller: – Il libro di Chris Bonington Annapurna è pura cronaca. Piace sia all’escursionista che al… teoreta perché lo prendono come cronaca e lo accettano così com’è. E quindi si vende.
Alessandro: – Un po’ arretrato come «taglio»…
Miller: – Comunque si vende. Se noi vogliamo che il libro vada in mano all’intellettuale della montagna, che ti può apprezzare o contestare, ma soprattutto vada in mano all’alpinista della domenica o al neofita, è chiaro che non deve essere scritto alla Rudatis (anche se nessuno di noi è capace di scrivere come Domenico Rudatis).
Leo: – Ma il difficile è scrivere qualcosa che abbia una vera e propria sostanza.
Alessandro: – Ci vuole un’azione che non sia pervasa da discorsi…
Miller: – Si può dare più spazio alla cronaca e meno alla teoria.
Agosto 1973, tra Kathmandu e Pokhara, Miller Rava, Alessandro Gogna; di spalle, Rino Prina e Lorenzo Pomodoro
Leo: – Ma sì, mettiamoci la colonna sonora così oltre che alpinisti, cinematografari e autori saremo anche compositori…
Alessandro: – Ciò che si è detto di più importante finora è che non si deve raccontare solo l’azione ma anche il mentale e lo spirituale, di gente che arriva in aereo e la pensa in un modo e quando arriva al campo base la pensa in un altro, per esempio. Naturalmente ci vuole molto potere di sintesi…
Leo: – Ma non è detto che ci sia metamorfosi di pensieri. Sicuro è che l’Annapurna è il fulcro sul quale convergono i pensieri di tutti.
Alessandro: – Uno può cambiare una piccola parte del proprio pensiero, cioè ciò che basta per adeguarsi agli altri o alla maggioranza. Per questo ci vuole un potere di sintesi, il quale sarà tanto più facile quando queste osservazioni dirette, sia scritte che registrate, saranno più frequenti.
Miller: – Il potere di sintesi è indispensabile per comunicare al lettore quelle che sono le cose che noi vogliamo comunicargli, cioè le più importanti. Non è il caso di dilungarci sul pensiero personale di ognuno.
Leo: – Una storia fatta di dialoghi che goda del trasferimento su di sé del modo di essere di tutti. È facile farlo se lo si fa separatamente. Tu puoi raccontare undici storie differenti perché siamo in undici, mischiando è più difficile.
Alessandro: – Il romanzo si serve di alcuni artifici tecnici per cui anche una frase banale diventa bella e piacevole nel contesto della storia. È la successione di parole che ti crea un continuo interesse, una suspense, indipendentemente dal significato. È mestiere.
Leo: – Io insisto sul fatto che tutti i pensieri degli undici devono essere delimitati all’Annapurna, altrimenti non hanno alcuna importanza.
Alessandro: – Per esempio, leggiamo da un diario: «Al mattino esco dalla tenda, m’allontano per andare al cesso e incontro un barattolo. Dopo avergli dato calci stizzito, mi viene in mente che anche noi butteremo via molti barattoli». Questo non è importantissimo, ma può essere ripreso.
Miller: – Ma questo discorso oggi è inflazionato.
Alessandro: – È solo un esempio, soltanto per dire qualcosa che mal s’adegua all’Annapurna. Come faccio a collegarlo con il resto? Se il giorno prima si è discusso su chi andrà in cima e poi il giorno dopo sono lì a dare calci al barattolo? È un passaggio difficile, in cui rischi di far cadere il libro.
Leo: – Ma tu puoi tagliare, snellire… Per esempio puoi buttare il discorso del barattolo non sull’ecologia in generale, ma sull’inquinamento che pratichiamo a questa gente, discorso che io sento molto, perché io penso che li stiamo sfruttando.
Miller: – Ma non bisogna neppure aver la pretesa di dare, noi, giudizi definitivi sulla condizione della gente nel Nepal…
Leo: – Ma noi turbiamo determinati equilibri e questo bisogna dire!
Miller: – Casomai l’unica presunzione che possiamo avere è quella di dire qualcosa sulle difficoltà alpinistiche e basta.
Alessandro: – Io troverei meno difficoltà nel momento in cui dovessi fare una sintesi di varie situazioni mentali di una persona ed elaborarle con discrezione che non nel mischiare azione e riflessione.
Leo: – L’azione è cronaca, perché non riportarla così come è?
Alessandro: – Ma tu non puoi prendere un uomo che è ragionante prima e poi, sul passaggio, per raccontare il passaggio, non è più ragionante. E che lo ridiventi al posto di bivacco. E’ brutto! È ciò che rende brutti tutti i libri di montagna.
Courmayeur, luglio 1973. Leo Cerruti con in grembo il figlio Michele, nato a giugno
Miller: – Nei dieci giorni di cattivo tempo al campo base si fa della filosofia e poi basta. Al massimo si può inframmezzare all’azione qualche pensiero.
Leo: – Ma così diventa un mattone! Anche perché i nostri pensieri non è che siano così stravolgenti o nobili o così notevoli! O tu hai delle cose selvaggiamente interessanti da dire e allora va bene per qualcuno, oppure ti dedichi a un pubblico più vasto. Anche se aride, quelle cose che servono a far capire come si è andati sull’Annapurna sono lette, ma le elucubrazioni sono saltate a piedi pari.
Alessandro: – L’unica soluzione è la velocità e l’eleganza. Se in due righe riesci a condensare, con le frasi giuste, con lo scherzo, è fatta… Senza trattati e senza elucubrazioni.
Leo: – Con il materiale di registrazione e con i diari, a tavolino si prendono sei, otto storie, si fanno intersecare, collimare fino ad arrivare a un punto solo.
Alessandro: – Si può fare addirittura come nella tabella degli elementi chimici di Mendelejeff e trovare ciò che riempie un’eventuale casella vuota. Dire, con matematica sicurezza, che in quei giorni quello pensava così, anche se non l’ha scritto o non l’ha registrato.
Leo: – Ma non dev’essere una cosa così matematica, penso che il dialogo possa alleggerire molto…
Alessandro: – Il dialogo comincia con una discussione su a, b, c. Poi io mi slogo una caviglia camminando, sono lì a soffrire e tu arrivi e mi dici che non è vero che a, b, c, ecc.; ma a me non me ne frega più niente ormai. Ma quando arrampichi e sei solo, come fai?
Leo: – Quando sei solo racconti come sono i fatti, in questo abbiamo mestiere da vendere.
Alessandro: – Io voglio evitare di raccontare quanto sono stato bravo per poi rinchiudermi nella tenda a pensare cose meste sull’alpinismo. Bonington fa così. Per esempio, altro metodo originale, Gian Piero Motti nell’articolo I falliti riporta i pensieri di quando è a casa, non di quando è in parete.
Leo: – Ma non va bene, perché sono convinto che molti non l’hanno letto quell’articolo, perché si sono rotti i coglioni prima di finirlo. Era pesante.
Alessandro: – Io non l’ho trovato pesante. Un po’ troppo personale.
Miller: – Dovremmo evitare di farlo in questo libro.
Alessandro: – Sta sicuro che sarà evitato, per difficoltà pratiche, ché nessuno farà confessioni. E se c’è qualche confessione la si può rivedere, velare…
Leo: – Omettere…
Alessandro: – Omettere, certo. Non siamo qui per confessarci e neppure per redimerci…
I conquistatori dell’inutile
Niente confessioni, dunque, ma solo ciò che «noi vogliamo comunicare al lettore». Avevo detto «non siamo qui per redimerci»! Ma nel maggio 1977 le mie opinioni erano già diverse. In un’introduzione al libro di Lionel Terray I conquistatori dell’inutile, osservavo con candore l’incomunicabilità propria di un alpinismo evoluto nei confronti di un alpinismo naturale. Avevo aperto quindi la porta alle confessioni!
“Oggi noi raccontiamo diversamente, quasi mai le nostre gioie e paure, quasi sempre le nostre angosce. È raro accostare in uno stesso capitolo i più diversi stati d’animo, come era naturale per Terray, che alternava facilmente alla gioia più intensa le disperazioni più cupe. Il clima di oggi vede delle burrasche meno violente ma anche vede azzurri meno intensi e nel complesso direi che siamo avvolti nelle brume di un’introversione totale che controbilanciamo, o tentiamo di fare, con le belle foto.
Terray era distante dalle avventure psichiche odierne, non era un «alpinista visionario» e non fu mai soprattutto un solitario. Nel libro ciò che si «sente» di più è quella dominante «passione» per la montagna e v’è una continua ed affannosa rincorsa di quell’amore inutile, che Terray credeva non a torto di avere conquistato e che noi sentiamo ancora lontano ed irraggiungibile. È spontaneo chiederci quante volte dovremo ancora provare prima di dar ragione a Terray, che infatti prevedeva più di un conquistatore. E non servirà distinguere se fosse più inutile oggi che allora”.
La produzione letteraria
Ancora nello stesso anno 1977 scrivevo sulla produzione letteraria:
“Come si vede manca, o quasi, il «romanzo» o il racconto inventato: non solo, manca anche uno sviluppo valido di opere che vadano al di là del mero interesse particolare sulla montagna e sull’alpinismo. Probabilmente non è ancora stato scritto un libro che possa entrare tranquillamente e con onore nella letteratura italiana perché l’autore abbia scelto per caso questo argomento pur potendo con facilità rivolgersi con le stesse doti poetiche o descrittive ad altre attività umane più tragiche o più divertenti. Al massimo possiamo annoverare qualche timido tentativo d’introspezione psicologica, condotto con un minimo di serietà. Nonostante questo desolante panorama, se confrontato con la letteratura «seria», sembra che gli appassionati non se l’abbiano troppo a male e reagiscano normalmente con buon entusiasmo ad ogni novità editoriale, anche se la stessa abbia poco valore. Sulle guide escursionistiche o alpinistiche talvolta vecchi errori continuano a essere trascinati nelle opere nuove perché il copiare e il non accertarsi sul terreno è spesso la regola comune; in vari scritti e pubblicazioni vengono ripresi alla nausea vecchi motti, frasi fatte, triti luoghi comuni, squallidi giudizi paternalisti, malcelata e infantile immodestia, necrologie insulse e inneggianti e via di vario genere”.
Passage
Qualche tempo dopo nel gennaio 1979 ero giunto a leggere ed apprezzare una nuova rivista francese che incoraggiava, con la sua oggettiva esistenza, la mia linea e le mie intenzioni. Finalmente qualcosa si muoveva, non più solo a livello di iniziativa del singolo, ma addirittura a livello editoriale:
“Una recensione dei due volumi di Passage, Cahiers de l’alpinisme, apparsi rispettivamente alla fine del 1977 e del 1978, impone una necessaria divisione dei lettori. Titolo, intenti, realizzazioni dei redattori sono del tutto individuabili. Ci sono lettori stanchi, o almeno non soddisfatti, della maggior parte delle riviste alpinistiche contemporanee? C’è una parte di alpinisti che si chiede qualche perché? C’è qualcuno al quale non basti il «come»? Tecniche, racconti, verità «oggettive» non bastano più o sono ancora largamente sufficienti per accontentare l’alpinista che legge? Quanti amatori leggendo realizzano i loro sogni, quanti leggono ma pensano su un itinerario loro e inseguono più personali ambizioni, e quanti infine sono permeabili e riescono a penetrare o a farsi penetrare da ciò che stanno leggendo? Sono domande che possono sperare una risposta nel momento in cui si possano trovare alternative più o meno valide alle riviste ufficiali spesso avvolte di bandiere patriottiche, al notiziario ghibellino e al bollettino guelfo. Gli autori di Passage sono tanti e diversi profondamente tra di loro. Ciascuno fa lavorare la mente e la fantasia in modo alquanto stimolante e raramente altrove riscontrato. Anche se purtroppo non afferro ogni sfumatura dell’elegante lingua francese, ho trascorso ore appassionanti nella lettura di fantastici racconti, contorte seppur razionali visioni, distorte realtà di menti sognanti, poesie pazze e stringenti la gola, come succede a volte in montagna, durante l’azione. La riproduzione di ciò che si può «sentire» in ambiente alpino e selvaggio è ad «alta fedeltà»: a destra la stereoverità, a sinistra la stereofantasia. Stile, inventiva, rigore dei diversi autori si coagulano per comporre un tutto di seguito che è una girandola. Dall’ironia più spietata alla realtà fantastica, da un Alpinisme et politique di Jean Bocognano a un lirico Le rire, incontro con un angelo sui prati di una montagna, di Bernard Amy; dalle ricerche filomitiche di Jean-Paul Bozonnet alle più tragiche poesie di Denali (Je me tuerai pour aimer ma mort). Non tutto può essere piacevole, anzi. Spesso la lettura è disagevole, piena d’inciampi. Gli autori si curano poco di piacere, loro cura maggiore è la verità, posto che sia possibile. Nel secondo volume abbiamo interventi ancora più autorevoli: accanto a Lito Tejada Flores, c’è Pablo Neruda, anche se per pochi versi, e c’è anche René Daumal, in Lettres de la montagne. Daumal, autore de Il Monte Analogo, era un convinto assertore dell’utilità dell’alpinismo come strumento esoterico di avvicinamento ai segreti dell’universo. E qui chiuderei il mio discorrere, ricordando ciò che ho detto all’inizio. Se alcuno è attratto dai segreti che l’alpinismo sembra nascondere, Passage è una lettura incisiva, perché stimolante. Un’altra categoria di lettori troverà la stessa lettura tediosa e insopportabile. Come sempre una posizione intermedia tra queste due estreme è forse la più equilibrata e auspicabile. Angolature e spigoli troppo aguzzi non possono essere accettati così, senza resistenza e senza digestione. Non sarebbe neppure giusto”.
L’esperienza extraeuropea
Ed in seguito, nell’introduzione al libro Pumori di Romolo Nottaris, scrivevo:
“Scrivere di una spedizione extraeuropea è diventato difficile non certo perché manchi il materiale da raccontare ma perché è diventato facile fare spedizioni. Chi tiene un diario del viaggio e della salita alla montagna corre il rischio di dire così già dette mille volte, anzi, credo proprio che non ci sia altra via d’uscita che ri-raccontare proprio le così già riferite da altri. Ma infatti è proprio questo che un’esperienza extraeuropea dovrebbe insegnare.
Se di esplorazione non si può parlare, se ci viene da sorridere al sentire che la spedizione è anche scientifica o si propone di «studiare l’etnologia, ecc.» e se tutto sommato un’ennesima relazione alpinistica può essere noiosa per chi conosce già l’Himalaya, figuriamoci per chi non c’è stato mai; ecco che appare evidente che occorre abbandonare la traccia del tipo «ora vi racconto le avventure più terribili» e seguire invece il sentiero dell’esperienza umana. Se il filo conduttore del racconto è personale e l’avventura è tessuta attorno ai drammi, ai ricordi, alle piccole e grandi così di ogni giorno, ai minuscoli momenti felici di ciascuno, è abbastanza facile suscitare l’attenzione di un lettore benevolo. Dobbiamo essere ben lontani dalla presunzione di aver vissuto qualcosa di memorabile, per meritare il favore di chi ci ascolta. E del resto le favole per i bambini, si sa, non comprendono mai le avventure personali del narratore”.
Conclusioni
Ma il problema dell’appetibilità di un libro di alpinismo riporta sempre al problema dell’appetibilità dell’alpinismo stesso. È l’alpinismo un’attività che per sua costituzione fisica interessa solo gli iniziati? Io credo che un catalogo filatelico interessi solo i collezionisti non perché i francobolli non dicano nulla al profano, ma perché un catalogo è arido e senza vita, così come è vero che non occorre essere zoologi per amare gli animali.
Ciò che state leggendo può entusiasmare e può deludere. Può provocare reazioni di ammirazione, emulazione, rabbia, odio. Può stancare chi si crede indifferente e la lettura così morirà di morte lenta, il libro dimenticato in qualche angolo della casa. Ci si può allontanare dal libro ma non ci si può liberare facilmente, sia che accarezzi sia che colpisca duro, perché è un libro sofferto e vivo, che non prevede una gioia programmatica.
Perché non sempre tutto ciò che dice è vero:
quando non va contro alle idee di sempre;
quando tace ciò che è penoso;
quando non scava nell’archeologia di noi stessi;
quando non difende il falso.
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Non facciamo confusione tra “calibro alpinistico” e intelletto, altrimenti sembra che chi pensa non caghi.
Mah, non so…
Secondo me non è adesso che ci sia tutto ‘sto degrado e che una volta era tutta un’altra cosa: erano loro che erano diversi (strani).
Voglio dire, trent’anni fa al campo base per lo più parlavamo delle caratteristiche delle nostre escrezioni. E qualcuno si limitava a grugnire.
Certo non siamo mai stati del medesimo calibro!
Tornando alla scrittura e al racconto di alpinismo, direi che oggi siamo distanti anni luce da certe problematiche. Questi parlavano di Platone e Mendeleijev (non so se l’ho scritto giusto) mentre andavano a scalare, mentre oggi in situazioni simili si discute di attrezzature e vestiti.
Per me non c’è nulla di più sterile e noioso del non porsi domande e del non esercitare il diritto di critica, anche verso se stessi. Ve li vedete i nostri attuali eroi nazionali degli ottomila, a parlare di filosofia e letteratura? Io non ce li vedo affatto.
Non voglio rimpiangere a tutti i costi i tempi che furono, ma era bello quando alpinismo significava anche disadattamento, perché è da quello che nasce il genio della visione “oltre” quello che la massa appecorata percorre senza farsi domande. È quanto più la prestazione sportiva è elevata, meno si è disposti a vederne i difetti, ovvero le mancanze.
Ma a una massa sensibile solo alle apparenze e ai numeri, altro non si può trasmettere che il cibo scontato di cui vuole nutrirsi. Essere alpinisti di punta oggi (ma cosa significherá poi esserlo?) non lascia il tempo per leggere. E per scrivere sembra che spingersi oltre la semplice cronaca sia estremamente più difficile che scalare le montagne.
Per fortuna ci sono letture senza tempo in cui ritrovarsi d’accordo oppure no, nell’esplorare gli umani interstizi verticali.
Caro Alberto, il problema che tu sollevi è tra quelli che piú tormentano molti esseri umani, specialmente durante la giovinezza, cioè ai tempi delle prime scelte esistenziali: che fare della vita? lanciarsi e rischiare oppure trascinarsi nel quieto vivere?
Come si diceva una volta, «è una domanda da un milione di dollari».
e quella che è rimasta QUAGGIU’ di gioventù?
magari per cose che non volevano fare. O accecati da questa società che vende specchi per le allodole.
leggendo e osservando le foto mi è parso di sentire le loro voci: Leo e Miller che chiacchierano sul pulmino… e ignorano che hanno solo poche settimane di vita..
Sono trascorsi 45 anni, e sono ancora lassù, a 7300metri… My God, quanta gioventù è “rimasta lassù”!
Renato B
Leonardo “Leo” Cerruti morí nel 1973 proprio durante la spedizione all’Annapurna di cui si parla nell’articolo. Fu travolto dal crollo di un enorme seracco mentre riposava in tenda con l’amico Miller Rava. I loro corpi non furono mai ritrovati.
Ora imparo che nel precedente mese di giugno gli era nato un figlioletto, rimasto quindi orfano a soli tre mesi di età.