Maledetta Solleder

Maledetta Solleder
di Pietro Crivellaro
(pubblicato su Rivista della Montagna n. 71, novembre 1985)

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)

La grama lavandera a treuva mai la bon-a péra
Non si vedono più scintillare le luci di Alleghe e il riflesso verde del patinoire ai piedi della montagna, laggiù nel delizioso presepio come su un altro pianeta. Spente anche le luci incanalate dal fondovalle su verso Caprile. Le stelle sono state cancellate tutte dal cielo torbido che ormai ci avvolge completamente. Lo abbiamo capito che il brutto che si è accumulato a occidente ci è addosso. Stavolta non andrà a scaricarsi lontano come il temporale di oggi, contro il paretone della Marmolada, la fortezza del Sella e chissà quali altre Dolomiti.

Il giorno fu pieno di lampi, / ma ora verranno le stelle… / nel giorno che lampi, che scoppi / che pace la sera. Pace un corno, povero poeta delle maestre elementari.

Spettacolare tramonto invernale sulla parete nord-ovest della Civetta. Foto: Mario Verin

Il primo giorno
Maledetta Solleder. Maledetta schifosa che non sei altro. Noi credevamo alla pura meraviglia dell’epopea dei pionieri, l’impresa gloriosa che ha voltato pagina nella storia dell’alpinismo, il primo, grande, inconfondibile itinerario di sesto grado. E la nostra idea di Dolomiti, l’arrampicata pulita e leggera, aerea e solare come passatempi estivi.

Che fessi a nutrire sogni di letteratura di seconda mano. Qualcuno ha sparso la voce mezzo secolo fa, e gli altri tutti dietro fino ad oggi: come uno slogan fortunato che si è trasformato in proverbio, in leggenda. Difatti basta dare un’occhiata alla parete del Civetta. Milleduecento metri di via che l’attraversano in tutta la sua altezza, dal punto più basso al punto più alto, dal lontano 1925, con le scarpette di feltro, le corde da scuderia, i chiodi dell’età della pietra: per forza che è un capolavoro. Un’idea unanime e precisa, talmente scontata che a momenti partiamo senza relazione, noi che vogliamo riassaporare un po’ l’emozione della riscoperta, esercitare il fiuto degli occidentali in vacanza, finalmente alleggeriti della bardatura pesante da gran misto. Ma adesso che ci penso non mi spiego una cosa: ho ascoltato la Solleder nel desiderio di tutti, la prossima volta che vanno in Dolomiti, ma non mi ricordo di averla sentita nell’attività di nessuno, neanche di qualche vecchio accademico carico di esperienza. Maledetta la nostra ingenuità, maledetta la nostra presunzione. Altro che linea di salita evidente. Magari lo sarà sul formato cartolina. Invece siamo venuti su come nella caccia al tesoro, consultando la guida ad ogni sosta e leggendoci a voce alta la relazione come un oracolo. «All’inizio delle grandi difficoltà prendere una fessura che parte orizzontale e poi si raddrizza». Altre volte abbiamo abusato della definizione spregiativa di puddinga verso la roccia colpevole di qualche imperfezione, di qualche appiglio poco saldo. Avevamo torto: la puddinga è un lusso a confronto di questo pilastrino di terra e ghiaia rossastra che si sgretola solo a carezzarne la superficie.

Anche più sopra deve essere poco sana la roccia di questa montagna immensa e terribile, a giudicare dalle scariche che provengono dall’alto. Prima abbiamo creduto di sentire l’eco degli autotreni in fondovalle, o un elicottero mattiniero, mentre era il rombo di un pietrone che, avvicinandosi dalle altezze siderali, sembrava cambiar marcia per la fatica di bucare l’aria: si è schiantato con fragore sullo zoccolo a breve distanza da noi, mentre ci rimbalzava intorno una gragnuola di calibri minori e si spandeva nell’aria l’odore della pietra frantumata, come di zolfo. La relazione raccomanda di prestare attenzione alle scariche di pietre, ma in un tratto molto più su: vuol dire che quando saremo là useremo anche la prudenza di sperare nel miracolo.

Prendere la cosiddetta fessura orizzontale è una parola; prima bisogna superare il pilastrino di terra: per chi non ci crede, vada a vedere, consulti più autorevoli testimonianze. Tocca a me? Sarà un giochetto. Ad Andrea difatti sembra un giochetto perché dice che faccio come nei cartoni animati, mi afferro con un dito e mezzo della mano destra in un buco e mi alzo su in bloccaggio, sbriciolando con l’altra mano e i piedi liberi tutte le minime asperità che assaggio. Non è affatto un giochetto. Se il buco di terra rossa cede, con lo strappo di qualche metro e la sosta allegra che c’è, potremmo trovarci in fondo al ghiaione come ridere. Oppure, se mi va bene e ricasco sulla forcelletta da cui mi espongo, potrei centrare la merda che giace presso i miei piedi e cosi salvarmi la vita: lieve danno e smisurato vantaggio.

Renzo Videsott sul primo tiro della via Solleder alla Civetta

Come hanno fatto gli innumerevoli ripetitori di questa superclassica a salire grattando il pilastrino di argilla, che a forza di essere grattato come un tronco rosicchiato dai castori, è diventato strapiombante? L’unica è provare con la tecnica arcaica della piramide umana. Andrea scettico e circospetto per via del marcio e della merda contigua, si sottopone a malincuore — la sosta platonica abbandonata a se stessa — e mi consente di salire un po’ di più e di afferrare la fessura proprio dove cambia nome la nicchia che sta dietro al pilastrino. Posso cosi cominciare con le mani l’inventario un po’ febbrile degli appigli alla ricerca di quello più saldo, in attesa di mettere qualcosa di migliore dei cunei marci e dei loro rispettivi cordini non meno marci. Speriamo che sia così solo all’inizio. Anzi, non c’è dubbio che questo è l’unico tratto friabile, altrimenti chi se la sentirebbe di proseguire? La nostra fede nel mito è ancora cieca: possiamo concederla una pecca a un capolavoro, come un neo, un dente appena storto non toglie nulla al fascino di una bella donna. A onor del vero occorre ammettere che in seguito la roccia è abbastanza salda. Ma è peggio che se fosse friabile: è sporca. Sporca di colature come un paese alluvionato dopo la piena. Ogni presa, ogni appoggio, ogni superficie è velata di polvere, ricoperta di sabbietta, ingombra di detriti minuti. Si arrampica con le mani infarinate di una polvere che possiede virtù esattamente opposte a quelle della magnesite, e i pregi della mescola delle varappes sono del pari ingannati da uno strato della medesima farina. In questo stato non sembra che una tale superclassica sia tanto frequentata. Oppure sta a vedere che siamo finiti fuori via, su una variante schifosa e sconsigliabile. No, non è possibile che abbiamo preso un granchio così grosso. Ci sono troppi indizi che ci confermano che siamo sulla pista buona. La cacca, i cunei marci, la fessura orizzontale che corrisponde alla nitida prosa della relazione. Incontriamo perfino qualche chiodo, tutti indistintamente di aspetto allarmante. Ma noi ne metteremo subito altri più sicuri, basta azzeccare il modello giusto. Dopo qualche tentativo si capisce che conviene abbandonare la pretesa e fidarsi dell’esperienza di oltre mezzo secolo di ripetizioni, vale a dire dei chiodi che troviamo, basta non tirarli troppo, e naturalmente non volarci sopra. Ben che vada ogni tanto si imbrocca qualche blocchetto. Anche Andrea rinuncia a malincuore all’aurea norma delle soste a prova di bomba, come usiamo insegnare giudiziosamente agli allievi della gloriosa scuola Gervasutti. Ancoraggi basta che sia, magari un chiodo solo, e correre. Altrimenti di questo passo si fa notte. Mi fa ridere la sicurezza in questo posto: alla prima pietra che decide di centrarci, tanti saluti e buonanotte. Non mi piacerebbe una fine del genere, è cosi scandalosamente stupida che mi fa incazzare l’idea di venire colpito a tradimento, senza poter reagire. Non serve neanche aver paura. Non c’è rimedio, come non c’è riparo dentro al lungo camino che incanala le scariche come un imbuto, o fuori sulle placche rotonde per le pietre cadute fin dal giorno della creazione. Lo sapevo io che un giorno o l’altro sarei cascato in una situazione del genere, dopo tutte le mie discussioni sulle ragioni dell’alpinismo. Mi sta bene, se sono venuto su di qui addirittura senza casco, solo con il cappello di feltro alla tirolese come i pionieri, così per fare del cine, per fare il furbo. Il mio cappello che si chiama Vinatzer da quando l’ho inaugurato giusto un anno fa sulla Sud della Marmolada, che la danno un grado pii difficile di questa, ma non c’è da crederci, perché su quel calcare magnifico non ci si gioca la pelle come qui. È inutile aver paura, com’è inutile ripararsi. Al massimo quando sento il frrrr della pietra che arriva, posso fermarmi e incassare la testa dentro le spalle, aspettando che cessi il fuoco dei proiettili che seguono. Per adesso ho beccato solo un sasso su una spalla e dei sassolini giù per la schiena. Ho paura che non sia neanche una situazione drammatica: semmai è una situazione un po’ ridicola, come le bastonate nelle farse di Plauto e le corna nelle commedie di Feydeau non suscitano di certo pietà e commozione per gli sventurati che se le prendono.

«Occorre essere ben allenati» ha sentenziato ieri il gestore del Coldai quando sono tornato indietro con le pive nel sacco dalla Messner per averla trovata schiodata, mentre lui due ore prima ci aveva garantito — fesso io che l’ho bevuta — che i chiodi c’erano tutti. Pazienza per me, ma Andrea Giorda lo sanno tutti che non è una schiappa: solo qualche giorno fa ha tracciato la più difficile via che esista sul Becco di Valsoera quando fior di specialisti l’avevano data per impossibile. Non ci capisco più nulla.

Friedl Mutschlechner sulla via Solleder alla Civetta.

La notte   
Siamo degli scoppiati, non siamo all’altezza: questa è la verità. Altrimenti non saremmo qui a bivaccare, a mala pena a metà via, quando lo sanno tutti che è ormai normale uscire in giornata. Pensare che abbiamo rinunciato all’idea del Philipp-Flamm, del quale nutrivamo maggior rispetto, apposta per essere sicuri di evitare il bivacco. Per questa ragione niente sacchi piuma, niente fornellino, una borraccia in due e poche altre robette per salire più veloci. Invece abbiamo sbagliato i conti, ed eccoci qua appesi ai chiodi, rifugiati sotto uno strapiombino, a prenderci il castigo di Dio.

Le prime gocce cadono ordinate e regolari. Anche quando il temporale rinforza speculo sulla nostra incolumità, con fiducia di ordine magico: se ogni goccia dei miliardi di gocce che vengono giù cade perfettamente verticale, potremmo scamparla. Ma non calcolo gli schizzi che si ribellano alla buona norma della caduta dei gravi, e non controllo lo stravento che se ne infischia del tutto. I miei calcoli sono proprio inutili, non mi resta che prendermi quello che viene e cercare di resistere. Neanche parlo ad Andrea che sta rannicchiato a un metro sotto di me. Solo qualche battuta: ognuno preferisce badare a se stesso. Per resistere meglio tengo gli occhi chiusi, figurandomi di mettere la testa sotto le coperte per trattenere il calore. Voglio calarmi nell’oscurità più fonda del buio balenante che sta fuori, dentro le braccia che mi circondano la testa, inoltrarmi nel tunnel che sta dietro le mie palpebre e seguirlo piano piano verso l’interno, fino a perdermi nell’incoscienza del sonno.

Andrea Giorda in uno dei momenti più terrosi della via

In luogo del sonno mi visita la pena di ricordi immaginari. O forse è vero che sono stato una volta inerme come adesso, deposto dentro una carriola al riparo del portico, da solo contro lo schianto dei tuoni e la minaccia gelida della grandine, mentre mia madre stava nei campi ad aiutare mio padre? Mia mamma, povera donna, che quando il cielo diventava scuro per il temporale ci ritirava in cucina — questo lo ricordo con sicurezza — e bruciava l’ulivo benedetto, segnando me e le mie sorelle, inginocchiati sulle sedie impagliate intorno alla tavola, mentre ascoltavamo incantati e sgomenti lo scatenarsi della grandinata che ci portava via il raccolto e la voglia di giocare. A cosa serviva quella magia — diceva — l’avremmo capito da grandi. Eppure in seguito, crescendo, e neanche adesso che sono grande con diversi capelli bianchi, non ho mai capito abbastanza. L’odore dell’ulivo bruciato e poi l’odore della tempesta come di erbe pestate. Riconosco quell’odore, mentre la pioggia è diventata una grandinata di pallini impazziti, così fitta che riesce a depositare il manto di una nevicata fulminea.

Ormai è tutto inzuppato lo zainetto che ho calzato sopra le varappes e sono inzuppate le medesime varappes e le calze di spugna fino alle ginocchia. Le mie difese sono inutili: mentre mi rintanavo sotto lo strapiombino per sfuggire al diluvio che precipitava intorno a me, mi è scivolata dietro le spalle e lungo la schiena, come un’insidia inattesa, l’acqua che cola. Quando sento la schiena bagnata è troppo tardi: anche la giacca a vento, la maglia e la camicia, fino alle mutande, sono inzuppate.

Una volta bagnato e intirizzito, condannato a vegliare in attesa del giorno, mi ostino a tenere gli occhi chiusi. Tremo tutto di freddo, mi consola che tremare è provvidenziale per combattere l’assideramento e lascio ronfare il temporale. Mi trovo nelle condizioni ideali per riflettere nel modo più intenso, per cercare di interpretare questa prova cruciale che potrebbe consentirmi di forzare il mistero dell’alpinismo. Invece sono preda dell’acqua e del freddo, la mente è occupata soltanto da sensazioni elementari e concetti deludenti. Dove sta la gloria dell’eroismo? Il mio fatalismo genera soltanto ottusità.

Ha ragione don Michele a non fidarsi delle pretese del mio alpinismo. La mia fatica vana non mi porterà barlumi di conoscenza nuova, illuminazione dello spirito, come ci siamo detti tante volte in rettoria assaggiando grappa aromatica con i suoi bicchierini. Ha ragione lui che è il vero uomo della montagna, a riconoscere il teatro del nostro narcisismo di fronte al mistero dell’esistenza.

La parete nord-ovest della Civetta

Ormai di che cosa aver paura? Di non resistere? Dei fulmini? Della morte? Mi sembra una paura sproporzionata, perché prima di arrivare la morte sembra ancora lontanissima, e poi una volta arrivata non sembra nemmeno lei, disadorna e senza le scenografie della tragedia. Persone vive, amici o sconosciuti, diventati non si sa come dei corpi inerti, una piccola ombra, una macchiolina sul grigio delle pietraie. Ho già visto che si può morire così in un baleno, come colpiti a casaccio nel mucchio dell’umanità, senza una sentenza, delle persone care, una testimonianza. Dovesse capitarmi, potrete lasciarmi lì dove sto senza disturbare il soccorso alpino: per salvare la decenza va bene sotto un mucchio di pietre, basterà un segno di pietà e la recita di una preghiera. Vanità delle vanità, dice Qohélet, tutto è vuoto niente e fame di vento, perché c’è un tempo per nascere e un tempo per morire.

E adesso, nella notte del giudizio, la bestia assopita dentro questa montagna da un’eternità, immenso dinosauro corazzato di pietra, si ridesterà lentamente e il solo movimento del suo respiro smisurato ci scrollerà dalla sua groppa e ci farà precipitare insieme con tutte le pietre instabili che si sono depositate su di lui in letargo, fin giù nell’abisso del ghiaione dove stava accovacciato.

Non c’è bisogno di nessun cataclisma, basta quello che sta succedendo intorno a me perché mi colpiscano le maledizioni del Deuteronomio per qualche colpa di sacrilegio, come sta scritto: «Il Signore ti colpirà di delirio, di cecità e di pazzia, non riuscirai nelle tue imprese, sarai ogni giorno oppresso e spogliato e nessuno ti aiuterà». E nemmeno per miracolo scenderà dal cielo l’angelo della consolazione a portarmi da mangiare e da bere per il lungo cammino come al profeta Elia. Io devo solo resistere, avere pazienza, tener duro per battere la sfida del tempo: ogni minuto che passa è un minuto in meno che dureranno il temporale e l’oscurità.

Sarà capitato ad altri un calvario del genere su questa via, qualcuno deve averci lasciato la pelle di sicuro, voglio sapere che cosa è successo. Quando tornerò mi voglio informare, anzi prima di tutto andremo subito via da questa montagna maledetta. Ho voglia di partire subito per il cammino dei pellegrini, chissà che caldo adesso sulla mesèta della Castiglia e del Leòn bruciata dal sole di agosto. Questa è la volta buona che andrò a r¡percorrere in penitenza la strada che facevano gli uomini di fede già mille anni fa, fino alla meta leggendaria di Santiago di Compostela. E laggiù, ai confini del mondo, dal faro di Finisterre, getterò via che si disperdano nelle acque dell’oceano Atlantico queste varappes che porto ai piedi.

E non tornerò indietro per una strada diversa come avevo desiderato, per non passare dai Picos de Europa che non mi interessano più. E quando mi verrà voglia di riaccostarmi alla montagna, lo farò con più rispetto e umiltà, riabituandomi intanto all’uso degli scarponi.

La parete nord-ovest della Civetta dai Piani di Pezzei

Il giorno dopo
Quando si fa chiaro continua il movimento delle nuvole da ovest, ma la pioggia è cessata, non saprei da quanto. Allora si vede che un po’ ho anche dormito. Bisogna ripartire subito, con tutto bagnato, le corde, il materiale, i vestiti. Soltanto prima voglio strizzare le calze. Ce la faremo: non siamo morti e nemmeno siamo paralizzati.

Il primo tiro è proprio quello della famigerata cascata dentro un camino strapiombante. Con cieca ostinazione mi caccio sotto (bagnato più, bagnato meno), riconosco dei chiodi, se sono sulla via giusta dovrò per forza passare di qua. Ma le corde pesano un quintale, dopo due rinvii non vogliono più scorrere, l’acqua che zampilla da tutte le parti, malgrado il mio cappello Vinatzer, mi acceca. Devo ridiscendere precipitosamente perché in queste condizioni non ce la farò ad uscire dallo strapiombo. Mi prende rabbia e disperazione a vedermi tutto inzuppato, con l’acqua che ruscella fuori dagli sbuffi della tuta sulle caviglie.

Sbatto i guanti di lana come si fa con l’insalata dentro uno straccio da cucina, per infilarli di nuovo e ritrovare un po’ di sensibilità alle dita. Andrea, non preoccuparti, mi scaldo solo un attimo le mani, di qui non si passa, vuol dire che passerò dalla variante, non fa niente se la danno più difficile. Dal camino si può uscire sulla placca a sinistra, mi pare di vedere un chiodo lassù, tieni bene ehi, non so come va a finire con le mani bagnate, la parete che cola, le scarpe oltre che zuppe sporche di ghiaietta. Ormai con l’allenamento che ci siamo fatti ieri, siamo talmente assuefatti ad arrampicare nella porcheria che non possiamo volare. Siamo o non siamo degli occidentali?

Infatti non volo, e non vola neanche Andrea quando tocca a lui. Saliamo a tiri corti, a mezzi tiri, per via delle corde bagnate e pesanti, inventando soste con santa pazienza e recuperando ogni volta decine di metri di corda molle che sprizza acqua scorrendo sul mezzo barcaiolo. Ogni volta gridiamo al compagno in cerca di qualche miracolosa novità: «Cosa vedi lì?». Non so quanto tempo è passato. Mentre sto in sosta con i piedi tra ghiaia e neve, e Andrea, girato l’angolo, è alle prese con un risalto levigato, riprende a picchiettare la grandine. Non ci sentiamo più a pochi metri, non capisco se procede o se fa sosta, o se devo recuperare. Tenta di piantare dei chiodi, uno rimbalza via tintinnando, cattivo segno. La grandine rinforza insieme ai tentativi di chiodare, ho paura che rimaniamo bloccati chissà per quanto. Chissà che ore sono, quanto tempo abbiamo ancora davanti: nessuno di noi due porta l’orologio. Altra cazzata. Quando Andrea mi recupera alla precaria sosta su chiodi che ha attrezzato, mi indica, gridando nella grandine e nel vento che imperversa, il pulpito obliquo, levigato e strapiombante che bisogna sormontare. Un chiodo si raggiunge — chi lo sa cosa tiene? — ma andar via di lì, con i piedi nel vuoto e le dita che contendono al ghiaino e ai granellini di nevischio le minime prese che ci sono, come si fa? Chi ha scritto che le grandi difficoltà, i passaggi più duri sono concentrati nei primi due terzi della via? Ma chi è già passato su questa via schifosa in questa stagione? Dove sarà l’uscita da questa parete immensa che non finisce mai?

Non ci conviene tornare indietro a cercare un riparo dalla grandine, perché non ci sono veri ripari dopo la grande cengia del Cristallo. Non ci conviene aspettare così esposti, bagnati come siamo, che smetta il nevischio. Tanto vale provare, in qualche modo si passerà. Tieni bene, mi raccomando.

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Maledetta Solleder ultima modifica: 2018-06-18T05:17:38+02:00 da GognaBlog

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15 pensieri su “Maledetta Solleder”

  1. a Monserrat Spagna è Puddinga. Se non sbaglio anche le Meteore in Grecia.

  2. Puddinga non e’ inventato e’ un termine della geologia anche se forse in disuso. Indica sostanzialmente i conglomerati. Ce ne sono peraltro di solidissimi.

  3. Altre volte abbiamo abusato della definizione spregiativa di puddinga verso la roccia colpevole di qualche imperfezione, di qualche appiglio poco saldo. Avevamo torto: la puddinga è un lusso a confronto di questo pilastrino di terra e ghiaia rossastra che si sgretola solo a carezzarne la superficie.

    Termine originale puddinga! Di solito uso “roccia tascabile”, la prossima volta dirò anch’io Puddinga, e quando mi chiederanno dove l’ho imparato dirò: da un occidentalista 😉

    gran bel racconto!

  4. caro Fabio non dici nulla di nuovo. Lo so benissimo che non li ha scritti .

    Quello sulle Pale di San Lucano l’ha scritto Ettore dei Biasio esploratore dei luoghi e autore di tante vie.

    Mentre quello sulla Schiara, Tamer , Spiz di Mezzodì l’hano scritto Sani GianPaolo e Franco Bristot.

    Ma non credo che abbia scelto di pubblicarli solo per un fatto economico. Sicuramente e sopratutto perchè li condivide.

    Poi basta il libro su Massarotto:

    “Lorenzo Massarotto io l’ho incontrato soltanto sei volte. E tutte nell’ultimo anno della sua vita. Gli proposi questo libro, su tutte le sue vie (ne ho accertate sinora 120) e su tutte le sue prime ripetizioni (una cinquantina). Mi disse: “Proviamo”. 
    Venne anche a trovarmi a Cimolais e si disse d’accordo, ribadendo: “Proviamoci”. 
    Poi è morto, colpito da un fulmine mentre si stava cambiando le scarpette sulla cima di quello che per lui, nelle Dolomiti Vicentine, poteva essere uno scoglio al confronto delle grandiose pareti che aveva per tutta la vita affrontato. 
    Con uno smarrimento che dura ancora, la sua famiglia e i suoi amici mi hanno spronato ad insistere per realizzare quel libro che lui aveva iniziato. Mi hanno fornito i suoi materiali e i suoi appunti – talvolta delle relazioni di vie approntate sulle ricevute fiscali dei rifugi o dei bar a fondovalle – e ogni tanto la sorella di Lorenzo, Fabiola, mi avvisa che ha ritrovato altro materiale scritto dentro a delle scatole con vecchi chiodi… sicché la costruzione di questo libro è un continuo divenire. 
    I suoi vari compagni di cordata mi hanno assicurato la loro collaborazione, ma non è facile per loro scrivere e farmi avere il loro contributo. Un po’ alla volta, comunque, sta arrivando e arriverà. Sono fiducioso. 
    Ma ci vorrà, appunto, del tempo. 
    Lorenzo Massarotto è un personaggio anomalo, nel mondo dell’alpinismo. Definirlo l’ultimo cavaliere della montagna non è retorico. Faceva tantissimo, by fair means, e non pubblicizzava. Lo faceva per il suo piacere e per quello degli amici. E gli bastava. Senza fotografi e giornalisti e sponsor al seguito. 
    Qui a Cimolais, sorridendo, mi disse semplicemente che avrebbe “provato” a fare questo libro. Non che lo avrebbe fatto senz’altro. E noialtri adesso, io come raccoglitore e i suoi compagni come protagonisti, oltre al materiale originale dello stesso Lorenzo che andrà completato, lentamente ci “proviamo”…”

  5. Luca Visentini non ha mai scritto guide delle Pale di San Lucano o della Schiara. Li ha soltanto pubblicati. Gli autori sono altri.

  6. “di Luca Visentini, una volta brillante compilatore di guide”

    Le opere di Luca Visentini, non sono delle semplici guide. Sono dei veri libri di Montagna, sulla Montagna.

    I Libri sulle Pale di San Lucano, sulla Schiara e quello su Lorenzo Massarotto, sono dei capolavori. Come già altri hanno detto: “una lezione di stile” !

  7. Guarda che sei tu che annoi con i tuoi scontatissimi e retorici commenti da primo della classe delle elementari.

    Più interessante capire quel tuo “Prima o poi bisognerà occuparsi…”. Quanti siete? Un intero sodalizio?

  8. Questa battuta infantile l’hai già detta una volta. Ti stai ripetendo. Non te ne ricordi piú.

    Il troppo vino prima o poi presenta sempre il conto.

    Ora ti saluto. Passo e chiudo, per sempre. Non voglio perdere altro tempo a battibeccare con te e non voglio che gli altri si annoino a leggerti.

    Spero solo di averne sempre la pazienza.

  9. Prima o poi bisognerà occuparsi delle frequenti provocazioni livorose, del tutto gratuite, di Luca Visentini, una volta brillante compilatore di guide escursionistiche.

    Per non parlare delle offese vere e proprie, per fortuna subito censurate.

    Come fanno i bimbi all’asilo.

  10. Minchia! (tanto poi Gogna mi censura, ma te lo meriti per le tue banali ovvietà)

  11. Il brano finisce con quelle parole. Ma noi sappiamo che il buon Crivellaro  sopravvisse alla grande avventura. E come lo sappiamo? Lo sappiamo perché lui scrive tuttora, anche se non piú racconti belli come quello della Solleder. E io preferisco sempre il Crivellaro dei bei tempi antichi, quando ancora sentiva il leone ruggire dentro di sé, là sugli strapiombi minacciosi del Monte Civetta.

    Sic transit gloria mundi.

  12. capolavoro.

    ebbi la fortuna di scoprirlo ed apprezzarlo solo dopo,

    altrimenti non so…

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