Alpinismo solitario
(scritto tra il 1999 e il 2002)
Se per molti aspetti fu l’Illuminismo a dare un impulso decisivo alla nascita dell’alpinismo, fu certamente nel clima del Romanticismo che ebbe origine e si sviluppò l’alpinismo solitario. È pur vero che vi furono notevoli imprese di solitari del tutto estranei a questo condizionamento culturale, come quelle di Balthasar Hacquet sul Triglav, Matteo Ossi sull’Antelao, Simeone de Silvestri sul Civetta e poi John Tyndall, Michel Innerkofler ed altri, ma è con Georg Winkler che l’alpinismo solitario si affermò acquistando un ben preciso significato. Esso divenne una risposta alla profonda esigenza di vivere e realizzare pienamente quei valori, individualismo, eroismo e mito, che sono le componenti fondamentali di una concezione dell’uomo che la cultura romantica ha imposto due secoli fa, ma la cui influenza si è protratta con sviluppi ed involuzioni fino ai nostri giorni.
Winkler, studente ginnasiale pervaso dalla stessa inquietudine degli eroi dei poemi romantici, percorse solitario le Alpi, dalle Dolomiti al Vallese, compiendo imprese che sono tappe storiche dell’alpinismo: la scalata alla sua torre del Vajolet fu la prima di difficoltà di quarto grado effettuata nelle Dolomiti. Con la tragica conclusione della sua breve vita, avvenuta sulle pendici del Weisshorn, Winkler ha assunto, come i suoi eroi, una dimensione leggendaria.
Così è accaduto anche per Paul Preuss, il «Cavaliere della Montagna», che, sdegnando qualsiasi forma di impiego di mezzi artificiali, inseguì con uno spirito quasi ascetico un irraggiungibile ideale di perfezione. Giunse a compiere più di trecento solitarie, la più emblematica delle quali sulla parete est del Campanile Basso, impresa in cui si riassumono tutte le caratteristiche dell’alpinismo di Preuss, il cui criterio ispiratore fu il supremo concetto di eleganza, cui fu coerente fino al sacrificio supremo.
Con Eugen Guido Lammer l’alpinismo solitario assunse aspetti nuovi e sconcertanti. Temerarietà, «impeto demonico», sprezzo dei pericoli oggettivi, attrazione per il rischio, questi gli elementi che caratterizzarono le sue imprese, che furono concepite e condotte come una lucida e cosciente sfida alla morte, esperienza, per lui, fonte della «più alta voluttà» ed espressione di una suprema affermazione della propria individualità.
Ben diverso lo spirito che animava Tita Piaz, che così definì la sua impresa sulla parete nord est della Punta Emma, scalata che segnò, come già quella di Winkler, un deciso progresso nella storia dell’alpinismo dolomitico: «impresa di uno scavezzacollo irresponsabile, un esibizionismo puerile da palcoscenico, sotto il pungolo di una morbosa ambizione». Personalità originalissima, portò nel decadente clima dell’alpinismo di fine secolo una carica di vitalità sfrenata, libera da oscuri condizionamenti. Con Hans Dülfer l’alpinismo solitario trovò una delle sue massime espressioni. Egli comprese, a differenza di Preuss totalmente legato alla sua concezione idealistico-statica, le possibilità di evoluzione che si offrivano all’alpinismo sviluppando la tecnica di progressione in modo da non precludere l’uso dei mezzi artificiali. In questo senso, diede subito un brillante esempio superando la famosa fessura tra il Fleischbank ed il Christaturm, che costituì, fino alle imprese di Comici, la più difficile scalata solitaria, per la cui ripetizione occorse attendere Mathias Rebitsch ventitré anni dopo.
Nel periodo tra le due guerre l’evoluzione dell’alpinismo solitario subì una lunga pausa. L’attenzione e l’impegno dei protagonisti di quella generazione si rivolse soprattutto a quella che fu definita la «battaglia del sesto grado», che li vide convergere, nella soluzione dei maggiori problemi, in cordate spesso costituite da tre o anche quattro elementi. Passarono così ben dodici anni tra l’impresa di Solleder e Lettenbauer e la prima solitaria di una scalata di sesto grado. Fu infatti nel 1937 che Comici la effettuò, superando in meno di quattro ore la via da lui aperta sulla Nord della Grande di Lavaredo. La risonanza che ebbe questa impresa fu vasta e non solo negli ambienti alpinistici; la propaganda fascista vi vide espresso «l’acme delle qualità virili della razza latina rigenerate dal fascismo». Non fu casuale che Comici fosse stato il primo a concepire e realizzare una simile impresa: in lui infatti, più che in ogni altro alpinista del suo tempo, le grandi capacità tecniche si univano ad una concezione eroica e romantica dell’alpinismo. I primi a seguirne l’esempio furono gli alpinisti austriaci e tedeschi: Leo Seitlberger, Mathias Auckenthaler, Mathias Rebitsch e Franz Wintersteller sulle più difficili vie delle Alpi Calcaree Settentrionali. Dopo la lunga parentesi della guerra, l’alpinismo solitario estremo presentò uno sviluppo che divenne sempre più incalzante. È Hermann Buhl a mettersi in evidenza compiendo una serie di eccezionali imprese: Nord- est del Pizzo Badile, il canalone Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, la via Auckenthaler sulla Lalidererspitze e numerose altre compiute in tempi incredibili. Ma è con la solitaria conquista del Nanga Parbat che la sua figura, pur di natura estremamente modesta e di grande umanità, acquisterà una dimensione leggendaria. Sulle Dolomiti c’è Cesare Maestri che nell’arco di quindici anni compie più di cento solitarie; le più significative sono la Solleder sulla Civetta e la Soldà alla Marmolada. Ma la sua caratteristica più singolare è quella di scendere, in libera, vie di estrema difficoltà. È così il primo, dopo Preuss, a scendere per la parete est del Campanile Basso ed il primo in assoluto a scendere dalla Solleder al Sass Maor, dalla via delle Guide al Crozzon di Brenta e da molte altre. In tema di singolarità, c’è anche Claude Barbier che, oltre alle notevoli salite sulla Nord Ovest della Civetta, riesce a passare, di cima in cima, per le cinque pareti nord delle Lavaredo in sole quindici ore. Negli anni Cinquanta e Sessanta, Gabriele Franceschini, Armando Aste, Toni Egger compiono numerose imprese sulle Dolomiti e così Leo Schlömmer nelle Alpi Calcaree Settentrionali.
Con Walter Bonatti l’alpinismo solitario trova una nuova dimensione, che rispecchia una logica evoluzione della concezione «eroica» dell’alpinismo. Non più ripetizioni di percorsi aperti da altri, spesso svalutati dai continui passaggi di altre cordate, ma nuove vie dove il solitario possa realizzare pienamente la propria individualità, ponendosi idealmente a fianco di Winkler, Preuss e Dülfer. In quest’ottica vanno quindi inserite le sue imprese compiute nel 1955 sul pilastro sud ovest del Dru e nel 1965 sulla parete nord del Cervino, che segnano due tappe storiche dell’alpinismo.
Appuntamento fondamentale per i solitari è quello con i «tre ultimi problemi delle Alpi». Così vennero indicate negli anni Trenta le pareti nord del Cervino e dell’Eiger e lo sperone Walker delle Grandes Jorasses, la cui conquista segnò la chiusura di un ciclo importante nell’evoluzione dell’alpinismo. Sono tre alpinisti poco più che ventenni che colgono questo prestigioso successo: nel 1959 Diether Marchart sulla Nord del Cervino; quattro anni dopo Michel Darbellay sull’Eiger e nel 1968 sarà la volta dello sperone Walker con Alessandro Gogna. Con queste importanti affermazioni le grandi classiche d’anteguerra sono state quasi tutte percorse in solitaria. L’attenzione si rivolge quindi alle moderne vie estreme.
In questo clima di continua «escalation» emerge la figura di Reinhold Messner, che, con le imprese compiute nell’estate del 1969 (la parete nord di Les Droites, il diedro Philipp sulla Civetta, la direttissima alla Marmolada di Rocca e la Soldà sulla parete nord del Sassolungo), si pone ai vertici dell’attenzione. Teso alla continua ricerca di sempre nuovi limiti, l’arrampicata solitaria costituisce per Messner l’estrema, vera ed assoluta espressione dell’alpinismo. L’esempio di Messner fa proseliti tra molti giovani, per i quali l’alpinismo solitario è anche un aspetto della più generale tendenza alla rivalutazione dell’arrampicata libera. Enzo Cozzolino, figura divenuta quasi mitica, è stato l’interprete più rigoroso di questo nuovo spirito.
Nell’ambito della continua ricerca di forme e contenuti nuovi e validi, un contributo di grande interesse è fornito dalle originali esperienze dell’alpinismo californiano, che suscitarono, specie fra le nuove generazioni, un sempre maggiore interesse. L’esasperato individualismo che contraddistingueva i californiani, effetto ultimo di complesse motivazioni e di contraddizioni di una società in uno stadio di sviluppo più avanzato del nostro, si espresse anche in una diffusa pratica dell’arrampicata solitaria. Questa, caratterizzata da lunghe permanenze in parete talvolta perfino superiori alla decina di giorni, era concepita essenzialmente come mezzo di esplorazione del proprio inconscio e di ricerca di sensazioni ed esperienze che per molti aspetti ricordano quelle conseguibili con una sistematica applicazione alle discipline orientali. Royal Robbins può essere considerato il più valido esponente di questa «scuola», in cui motivazioni sportive e competitive vorrebbero essere ignorate e così pure quelle componenti narcisistiche e nevrotiche in genere che tanto frequentemente si ritrovano, in conseguenza della sua matrice romantico-idealistica, nell’alpinismo solitario italiano e tedesco. Nell’ambito di queste nuove esperienze si sono distinti anche alpinisti europei, specie inglesi e francesi, tra cui di notevole rilievo Patrick Cordier, autore di una solitaria della grandiosa via del Nose su El Capitan.
Sulle Alpi, in una continua ricerca di affermazioni sempre più inedite, le scalate solitarie raggiungono livelli stupefacenti. Sul Monte Bianco, dopo la classica solitaria di René Desmaison della Cresta Integrale di Peutérey al Monte Bianco, tutti gli itinerari, anche i più ardui, ormai sono stati oggetto di ripetuti assalti e a volte si assiste ad imprese paragonabili a quella di Barbier sulle Lavaredo.
In questi ultimi anni l’alpinismo solitario ha raggiunto quello che si può considerare lo stadio finale della sua evoluzione sulle Alpi e cioè l’alpinismo solitario invernale su itinerari estremi. Già Bonatti sulla Nord del Cervino ne era stato un precursore; dieci anni dopo ecco le imprese di Renato Casarotto, parete nord del Pelmo e via Andrich-Faè sulla parete nord ovest del Civetta e del francese Ivan Ghirardini che supera il Linceul della parete nord delle Grandes Jorasses vivendo, al limite dello sfinimento, un’allucinante odissea di dodici giorni.
Ma la logica che ha guidato, da Winkler ad oggi, questa evoluzione imporrà ben presto nuovi e maggiori obiettivi: già nel 1976 Charlie Porter aveva superato in solitaria i più di tremila metri di dislivello dello sperone Cassin del McKinley, in Alaska. È quindi logico che, in via di esaurimento i problemi sulle nostre montagne, non resti che rivolgersi ai colossi himalayani. L’impresa di Buhl sul Nanga Parbat, anche se per l’epoca in cui è stata compiuta e le modalità di esecuzione resta un fenomenale esempio di resistenza e di volontà di vittoria, è stata seguita da analoghe imprese sull’Everest, sul K2 e su altri Ottomila. C’è da chiedersi solamente cosa succederà nel momento in cui saranno state conquistate in solitaria anche le gigantesche pareti himalayane e quali nuove forme di alpinismo si svilupperanno per riempire l’inevitabile vuoto costituito dall’aver scalato ormai tutto.
È la stessa motivazione che ha spinto a suo tempo Walter Bonatti sul Pilastro del Dru che spinge oggi un Alex Huber slegato sulla roccia mediocre della Brander-Hasse alla Cima Grande di Lavaredo, dopo averla provata diverse volte ed essendosi allenato specificamente per quell’impresa? Io credo proprio di sì. È un ritorno all’alpinismo dolomitico di una volta o è piuttosto una strategia di marketing per un alpinismo che non ha più strade per evolversi? Tra qualche tempo arriverà qualcuno che farà la stessa cosa a vista. Huber gli ha aperto la strada. Del resto la parola on sight è necessaria allorché qualcuno ti ha preceduto. Ai tempi di Preuss non era necessaria, anche se già lui faceva una ben chiara distinzione tra libera e non, tra essere legati e non. Quanto a motivazioni, nel caso di Huber, non so quanto sia importante per lui vendersi. Dal tipo di alpinismo che fa non direi. Lo trovo un tipo piuttosto creativo, e la creatività non ha nulla a che fare con il marketing, che al contrario richiede ripetitività d’azione per avere una sicurezza di risultato. Limitandoci alle Tre Cime di Lavaredo, come esempio, Mauro Bubu Bole ha liberato la via Couzy alla Cima Ovest, poi Alex Huber ha salito Bellavista, una nuova via d’artificiale e l’ha trasformata in una libera estrema (8c), rivendicando «il primo 8c in montagna e su chiodi». M’interesserebbero i fallimenti di Huber per capire di più. Dove ha mai fallito, se è successo?
Solitaria = Spettacolo?
Che possibilità ci sono in questi anni per chi nelle Alpi vuole portare avanti un alpinismo «intelligente» piuttosto che sottomettersi ad un alpinismo «spettacolare»? Non mi sento di affermare che, per definizione, l’alpinismo spettacolare debba essere per forza non intelligente. O, se si vuole, che l’alpinismo per essere intelligente debba escludere la spettacolarità. Se si va a vedere indietro, nella storia c’è sempre stata la più grande mescolanza: abbiamo scritti e testimonianze a sufficienza. Credo occorra fare distinzione tra spettacolarità indotta e ricercata. La prima è il risultato di un interesse pubblico e genuino per un’impresa, la seconda è davvero un’operazione di marketing che prima o poi necessariamente mette la montagna in secondo piano. E quando la montagna va sullo sfondo si ha un doppio risultato negativo, perché ne risulta danneggiato l’alpinismo e perché cresce il rischio di inflazione nell’Io dell’alpinista, con le gravi conseguenze che questo comporta. Una salita solitaria estremamente difficile è quella che corre maggiormente il rischio di spettacolarità indotta. Invece, quanto alla ricerca dello spettacolo, credo che l’alpinista possa anche qui muoversi nella massima libertà: alla fine spetta a lui giudicare per che cosa si muove sulle pareti più difficili.
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Grazie per questo articolo, tra gli altri interessantissimi dati storici emerge anche questo: le donne sono pressoché assenti.
ho fatto solitarie autoassicurato e altre slegato, come dice MOSS la differenza è enorme. Cosa spinge un alpinista, un arrampicatore a fare una solitaria? Certamente c’è l’intenzione di fare un prestazione fuori dagli schemi comuni e magari anche l’orgoglio e il vanto di essere il primo a farla. Quindi è un atto anche molto egoistico. Scavando più nell’intimo, nel personale: sicuramente l’esigenza di vivere un’esperienza del tutto personale; con i propri tempi; con le proprie motivazioni, vivere e superare le proprie paure senza aiuti esterni, cercare una forma di riscatto personale in momenti difficili della vita. Ma ognuno di noi avrà le proprie ragioni e non si può certo generalizzare.
Come dice MOSS mi lasciano molto perplesso le solitarie con tanto di fotagrafi e cineoperatori posizionati lungo la parete. Nulla da obbiettare sul valore atletico e mentale, tanto di cappello e anche una certa invidia.
Ma questo spettacolo mediatico, dove ci potrebbe essere anche la morte in diretta, non lo condivido.
Esiste una gran differenza tra solitarie slegati e autoassicurati ,magari parzialmente e solo sui tratti con alta difficoltà, cmq imprese “mediatiche” tipo FREE SOLO rivolte al grande pubblico non mi trovano pienamente d’accordo pur riconoscendone una grande valenza atletica e mentale,la vita messa in gioco cosi non mi piace ,i pericoli oggettivi sono elementi imprescindibili,sia ben chiaro sono personaggi di altissimo spessore .Nel 2000 mi impressiono’ la salita solitaria al Civetta sulla Solleder in invernale del indimenticabile Butch Anghileri.RIP Butch.
Grazie.Moss
l’alpinista solitario troverà sempre un nuovo terreno dove esprimersi per soddisfare la sua voglia e il suo modo di salire
ho avuto la fortuna di conoscere molto bene e di provare a salire una grande parete qual’è la parete ovest del Makalù con un grande solitario
Slauko Svetic anche se il suo vero nome è Miroslav
fortissimo naturalmente ma la scelta di esprimersi ai massimi livelli affrontando difficoltà estreme poteva solo farla da solo
purtroppo ci ha lasciato tentando di salire la parete lucente del Gasherbrum 4 e tuttora è lassù a riposare
Ancora una volta, Benassi for Philosopher.
L’alpinismo solitario resta un grande incontro con se se stessi e con la montagna.
Punti di vista che non si possono generalizzare.
Articolo semplice e datato, sarebbe interessante invece riprendere il discorso a mente fredda dopo gli exploit solitario-mediatici degli ultimi anni.
Il solitario: fortissimo coi sassi, debolissimo con gli uomini.
Alpinismo solitario= libertà
Che bello questo articolo. Tante di queste imprese le conoscevo ma è la prima volta che ne vedo una sintesi storica.
Ci sono fior di alpinisti che hanno fatto grandi cose in solitaria, ma che non hanno mai divulgato le loro imprese se non a posteriori. Un esempio è il grande Franco Perlotto, non citato in questo articolo, che ha un curriculum lunghissimo di prime in solitaria. Ma a Franco non è mai interessato stare sotto i riflettori…
L’alpinismo solitario al confine tra il razionale e l’irrazionale esprime la vera passione per la montagna ed il desiderio di voler conoscere i propri limiti, sfidandola; questo rappressenta la personologia innata di questi personaggi.( si nasce così e non è possibile cambiare mentalità) ; rinunciare, consisterebbe vivere nell’insoddifazione e nella frustrazione. Però, a prescindere dall’innate predisposizioni di ciascuno, esiste sempre nel profondo il desiderio di gloria , pur autoconvincendosi del contrario.
se è “solitario”, poi bisognerebbe “non divulgare e tenersi tutto dentro”e non alimentare lo spettacolo.