Alzare l’asticella
(il non senso del limite)
di Alberto Benassi
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
Possedere senso del limite è buona cosa, diciamo pure che è salutare, soprattutto in alpinismo. Qualcuno dice che l’alpinista più forte non è quello che fa le cose più difficili ma colui che si diverte di più. Qualcun altro, ironicamente più dotato, aggiunge che è colui che campa di più! Tutto questo è senza dubbio sensato, da buon padre di famiglia. Ma cosa c’è di sensato in alpinismo? A mio avviso poco, per non dire nulla! Alpinismo è sinonimo di incertezza, continua ricerca di qualcosa di nuovo, di sempre più difficile, magari anche di pericoloso. Un impegno continuo a cercare di “alzare l’asticella”, a spostare il limite con ambiziosi progetti, vittorie e naturalmente anche sconfitte.
Sì, perché le “sconfitte” fanno parte del gioco. In una sola parola alpinismo è: avventura! Tutto questo fa parte dell’essere alpinista, ma in fondo dell’uomo in genere: cercare di fare sempre di più, come una corsa continua verso qualcosa di inarrivabile, di inafferrabile, come la sabbia che ti scivola tra le dita delle mani. Sali una vetta, poi ce n’è subito un’altra e un’altra ancora. Poi vie e ancora vie, una salita dietro l’altra, senza sentirsi mai sazi. Come quando mangi le ciliegie: una tira l’altra. Fai appena in tempo a fare una via, che già ti trovi a pensarne un’altra. Assuefatti da un’eterna insoddisfazione o da ingordigia di successi?
“Il problema è risolto, ma il gusto della vittoria è amaro. Rivedo i tentativi, le ritirate… Qualcosa di sconosciuto, di affascinante che se ne va. Forse lo stato di perenne insoddisfazione della natura umana non può renderci paghi delle nostre conquiste. Esaurito un problema, subito si va in cerca di un altro anello di una catena interminabile (da GognaBlog – La storia di un diedro di Gian Piero Motti)”.
Ci hanno insegnato che non dobbiamo superare i nostri limiti. Ne va della propria sicurezza. Fare esperienza, imparare facendo un passo alla volta senza bruciare le tappe, scegliendo il momento giusto per fare il passo successivo. Ascoltare quella vocina che viene da dentro e a volte ti dice che non è il caso di continuare, che non è la giornata giusta. Tutti consigli sacrosanti che anche io ho cercato (sempre ?… mmh) di rispettare nella mia attività e ho trasmesso (questo sì!) agli altri.
Ma è altresì vero che se l’uomo non avesse cercato il superamento dei propri limiti e non avesse avuto il coraggio o l’incoscienza di andare a vedere cosa c’è oltre le Colonne d’Ercole, forse ancora oggi sarebbe all’epoca delle caverne. Così come l’esploratore che va verso l’ignoto, anche l’alpinista ha continuamente cercato nel suo cammino di superarsi. Prima le cime per le vie normali per l’itinerario più facile, poi le creste. In seguito le pareti più difficili, da prima per l’itinerario più semplice, poi per la via più diretta possibile. Quindi le prime invernali, le solitarie, magari in free-solo. Infine nell’alpinismo è arrivato lo sport con i concatenamenti e con la corsa a salire le vie nel minor tempo possibile, alla conquista dei record di velocità.
Certo che, senza vincere le proprie paure, Balmat e Paccard spaventati dalle fauci del ghiacciaio non avrebbero conquistato il monte Bianco. Edward Whymper non avrebbe vinto la corsa sul Cervino in lotta con Jean-Antoine Carrel. Walter Bonatti non avrebbe trascorso cinque epiche e solitarie giornate sul pilastro sud-ovest del Dru anticipando di parecchi anni la storia dell’alpinismo.
Renato Casarotto non avrebbe superato la lunghissima, difficile e pericolosa Ridge of no return al Denali e non solo. E ancora il fuoriclasse Ueli Steck, soprannominato Suisse Machine non avrebbe salito da solo e in velocità (28 ore andata e ritorno!) l’enorme ed estremamente difficile parete sud dell’Annapurna. E via così per molti altri, dai più famosi, che hanno fatto la storia, agli sconosciuti. Ognuno di noi ha cercato di alzare la propria asticella. Molti ci sono riusciti, le imprese più strabilianti sono lì a dimostralo. Per altri invece, questa continua corsa verso l’alto si è conclusa con un non ritorno. Spesso sono stati i migliori a non ritornare.
E’ successo al mio amico Giorgio Giannaccini in una freddissima giornata di dicembre sul pilastro dei Carrarini alla Pania della Croce in Apuane. Giorgio e il suo compagno non sono tornati. E’ successo al carismatico Gianni Comino, che nel visionario tentativo di alzare la sua asticella, aveva scelto i temutissimi seracchi tra la Poire e la Mayor sulla grande parete della Brenva del monte Bianco. Forse, anche perché sapeva quanto il gioco fosse pericoloso, Comino ha deciso di andarci da solo, per non mettere a repentaglio la vita del suo compagno di sempre Gian Carlo Grassi. A proposito di Comino così riferisce Marco Bernardi: “Gianni aveva un carisma particolare; il suo modo di intendere l’alpinismo era “intellettualmente” onesto: non cercava riconoscimenti ma solo il vero significato delle cose. Viveva l’alpinismo come accettazione del rischio, era una persona razionale e sapeva esattamente la percentuale di probabilità di morire che doveva assumersi facendo determinate salite. La accettava, cercando il significato della vita in questa sua azione. Dal breve rapporto di amicizia avuto con lui tra il ’79 e l’80 ho capito che morire nel tentativo di aprire nuove strade è moralmente giusto. Non è importante stabilire se l’azione di per sé sia etica, cioè se morire scalando una montagna sia giusto o no, ma è l’esistenza di uomini e donne che sanno morire per una “idea” o un ideale che ha permesso all’umanità di evolversi e di migliorarsi. Gianni trasmetteva questa visione: solo quando si ha qualcosa per cui vale la pena di morire allora si percepisce il significato profondo della vita (da Gogna Blog, presentazione al libro di Paolo Castellino C’è un tempo per sognare – la storia di Gianni Comino, Idea Montagna, 2017)”.
E’ purtroppo di un anno e mezzo fa la triste notizia della morte, durante una salita di allenamento sul Nupse, del grande Ueli Steck che sopra ho citato. Ueli si stava preparando a un’altra delle sue incredibili imprese ancora mai tentata: la traversata Everest-Lhotse. Il fato, il destino, la follia, la sfortuna… non hanno permesso, a queste persone, di alzare ancora una volta la loro asticella. Nel caso di Ueli forse, dico forse, anche il peso degli sponsor…?
Pizzo d’Uccello, sulla via Etica Resistente (Alpi Apuane)
Anche io, modesto ma appassionato alpinista, c’ho messo del mio per cercare di alzare l’asticella e continuare ad alimentare la “conquista dell’inutile”. Certamente nulla di confrontabile con i mostri sacri, ognuno fa quello che può. Dapprima con le ripetizioni, dalle più facili alle più difficili (almeno per me). Poi con l’apertura di vie nuove di roccia, di ghiaccio e di misto. Perché è con l’apertura di nuovi itinerari che possiamo maggiormente esprimere la nostra concezione dell’alpinismo, dell’arrampicata. Tracciando il proprio solco come l’artista fa con la propria opera d’arte. Poi con molto timore e dubbi, sia verso me stesso, che nei confronti delle persone care e delle responsabilità della vita (perché, come direbbe Armando Aste, la vita è un dono e non va giocata ai dadi – anche lui però mica ha scherzato con l’alpinismo), sono passato anche alle solitarie: estive ed invernali. Cercando, anche per ambizione, di fare in solitaria itinerari che ancora non l’avevano.
Già, perché l’ambizione, diciamolo pure, in alpinismo mica conta poco, non possiamo fare finta che non ci sia. La “corsa” di Reinhold Messner ad arrivare primo nella gara non dichiarata ma evidente per la conquista dei 14 ottomila ne è un esempio. Ma nella storia dell’alpinismo ce ne sono tanti altri. Saputo della mia solitaria alla via dei Fiorentini alla parete sud-ovest del monte Nona, Carlo Barbolini, dopo i rituali complimenti, mi disse: “Alberto, sei mica in crisi con la Sabrina?” No, nessuna crisi amorosa, nessuna crisi personale. Non è questo che mi ha spinto. Sì, è vero ci sono state imprese alpinistiche stimolate da stati di crisi. Bonatti stava attraversando un momento difficile a causa della storia vissuta al K2. Doveva dimostrare a se stesso e forse agli altri quello che era ancora capace di fare. Per questo, dopo un primo fallito tentativo, escogitò un bel sistema di riscatto personale, cercando di alzare l’asticella, andando al pilastro sud-ovest del Dru da solo:
“Questa seconda sconfitta mi pose in uno stato di profonda depressione psichica, fu l’ultima goccia che fece traboccare il vaso colmo di delusione e amarezze già dai tempi del K2. Sarei tornato al Dru da solo per vincerlo e dimostrare così a me stesso di non essere finito (Walter Bonatti)”.
A differenza sua, le mie motivazioni sono molto meno nobili. Ho desiderato e fatto questa prima solitaria al monte Nona, per diversi motivi. Come ho già detto, un po’ per ambizione: essere il primo a farla e passare alla storia sui sacri testi. Va beh dai, questa è solo autoironia spicciola. Ma anche perché mi sembrava una cosa diversa, e nel momento storico in cui l’ho fatta, decisamente controcorrente per l’alpinismo apuano. Poi c’è l’aspetto più intimo, vero motore di queste avventure: un confronto diretto a tu per tu con la montagna, con te stesso, dove sei solo tu a decidere. Non appagato, in seguito mi sono ripetuto con la prima solitaria alla via Zappelli sulla Nord del Pizzo delle Saette. Questa volta però ho alzato ulteriormente l’asticella andandoci d’inverno. Spesso mi sono fermato a pensare: “Questa continua corsa ad alzare sempre l’asticella ha un senso o magari è solo una follia?”.
Non sono riuscito a darmi una definitiva risposta, se non nel cercare di accontentare questo continuo e impellente bisogno di andare oltre. In effetti quando non riesco a “muovere la classifica” sento che mi manca qualcosa. Tutto questo può essere una droga cui non so rinunciare, che mi condiziona la vita? Anch’io farò parte di quei “Falliti” che descrive Gian Piero Motti nel suo celebre e illuminante quanto triste scritto: riusciti in alpinismo ma falliti nella vita? O ancora come canta Bruce Springsteen in una sua famosa canzone “siamo nati per correre” (Born to Run)?
Durante l’apertura della via Ghad il Polveroso al Colle della Lettera (Alpi Apuane)
Ultimamente lo dice anche Matteo Renzi che bisogna correre! Per andare chissà dove poi? Semplicemente non lo so. Non ho una risposta, oppure non la vedo. Dico solo che la montagna, l’arrampicata, l’alpinismo fanno parte della mia vita. Sono quello che sono anche perché vado in montagna e faccio alpinismo. Anche se diversi amici che hanno condiviso questa passione non ci sono più. Anche se mio padre continua a chiedermi se non mi sono ancora stufato di salire su questi “soliti sassi” dopo tutti questi anni. Nonostante tutto questo, arrampicare mi dà ancora forti emozioni e quasi quasi mi riesce meglio oggi, nonostante gli acciacchi, di quando ero giovane e… forte. No, un momento… forte non lo sono mai stato… meglio dire appassionato. Certamente non c’è più quel senso di scoperta, di spensieratezza e di novità che caratterizzava la gioventù alpinistica, quando le scalate più semplici erano vissute come grandi avventure. E, leggendo le romantiche gesta bonattiane de I Giorni Grandi, sognavamo immedesimandoci nell’eroe Bonatti. Forse anche per questo che bisogna cercare di alzare l’asticella muovendo continuamente la classifica?
Dai forza Albè, non fare il romantico nostalgico, datti una mossa! La solitaria alla via Dolfi-Lumini non l’hai ancora fatta. Sono anni che ne parli, che aspetti? Il tempo passa e l’asticella, nonostante l’entusiasmo, è sempre più dura alzarla. Ho detto l’asticella… che avete capito…? 25 aprile 2017, falesia della Pietrina, riesco a salire Nonno Tibia proteggendomi solamente con i friend. Come si dice oggi? Ah sì, arrampicata trad. La Sabri che mi fa sicura non so se è preoccupata che mi possa fare del male, cosa non del tutto esclusa. Oppure scocciata per queste mie ragazzate, visto che ragazzo non sono più da tempo. Ci avevo già provato un paio di settimane prima ma ero stato costretto a riposarmi. Del resto… “il piede sta dove la mano tiene”… e fermarmi a mettere nut e friend mi aveva cotto le braccia. Questa volta, oltre che facilitato dal precedente tentativo, ci metto anche più determinazione e riesco a farla in continuità. Oggi questi piccoli, ma intensi venti metri, sono stati per me, pura AVVENTURA. Lo so, direte voi: “avventura su venti metri ? Ti accontenti di poco!”. Può darsi. Ma a volte basta veramente poco, non bisogna per forza andare in Patagonia o in Himalaya per… alzare l’asticella. L’avventura spesso è dietro l’angolo. Basta avere curiosità, entusiasmo e voglia di mettersi in gioco. Ma soprattutto continuare a sognare.
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Ringrazio Alberto per questo scritto, sicuramente scritto col Cuore, che mi ha riportato con la mente ai “Giorni Grandi” della mia minuscula esperienza alpinistica, quando alzare l’asticella per me significava, divertirsi, mettersi alla prova, nonostante la forma precaria, nonostante il poco tempo a disposizione, e diciamocelo pure tanto parlo di me, anche una paura viscerale che in alcuni momenti ti chiudeva lo stomaco, e verso la quale provavi vergogna.
Riscattarti in questa situazione diventava quasi un’obbigo morale con te stesso.
E allora partendo dalle tue piccole imprese, tentavi di alzare l’asticella, consideravi l’idea, la fattibilità, e progettavi la prossima avventura.
e quando dopo tante incertezze, riuscivi dopo il lavoro a dormire due ore e ti cimentavi in partenze antilucane, quasi sempre solitarie per raggiungere i Compagni,
ti ritrovavi in alto, sopra le inversioni termiche, mentre albeggiava e respiravi a pieni polmoni la fatica e l’aria pungente che ti avevano portato fin li.
Allora e solo allora eri orgoglioso della tua nuova avventura che avevi voluto cosi intensamente,
Tra tutti i bei momenti ricordo: sulla “Moretti diVestea” mentre tu e Sabrina guadagnavate l’attacco io vi seguivo, contando in quel momento solo su me stesso, in quel frangente la cengia che spanciava verso la vetricia cento metri piu sotto completamente ghiacciata, mi mise a dura prova, ma mi permise di alzare l’asticella, e trovai il coraggio proprio perche ci fu un confronto esclusivo con me stesso.
Questo nelle mie avventure alpinistiche sara avvenuto mille volte, ma niente di paragonabile alla sensazione di essere veramente in cima al mondo, quando dopo quella che per me fu una fantastica salita, a comando alternato con Sabrina sbucammo in alto presso il colle della lettera al sole felici, come non mai, a tirarci palle di neve.
Tutto questo per dire che qualunque sensazione o attività, ci permetta di sognare ad occhi aperti merita di essere vissuta, nonostante il rischio.
Non rimpiango neanche un minuto passato in montagna.
Grazie Alberto
Paolo per me questa “Follia” non è inutile da momento che mi fa stare meglio. Per gli altri, che non la comprendono, non solo è inutile è anche incomprensibile.
Mi madre ad esempio mi ha sempre detto che se mi fosse accaduto un incidente oltre alla sofferrenza di perdere un figlio ci sarebbe stato anche il peso di dover sopportare i giudizi della gente: se l’è voluta, che c’è andato a fare? , e via così. O mamma ma che te ne frega del giudizio della gente?!
Fabio certo che ce l’ho! mi dispiace ma per le nerbate dovrai rimandare o trovare qualcun’altro.
Come ho “Ghiaccio neve roccia” sempre di Gaston e…. “Passione di Roccia – incontro al rischio con corda piccozza e cinepresa” di Martin Schliebler.
«[…] Henri soprattutto, per molti non sei nulla, per me sei il “fratello maggiore della montagna” .
Mi auguro che tutti gli alpinisti abbiano un “fratello maggiore” a cui si guarda con amore e rispetto, che sorveglia il modo in cui ci si lega e che, pur iniziandoci a una vita dura, ha per noi premure quasi materne.
È lui che vi fa partecipi della sua sovranità di qualche istante a 4000 metri e che vi presenta alle cime che vi circondano come fa un giardiniere con i suoi fiori.
È lui che si guarda con invidia, poiché il rifugio è la sua casa e la montagna il suo regno. L’amicizia di un essere cosí ricco non si compera».
(Gaston Rébuffat, L’apprenti montagnard)
Alberto, per caso ti fischiano le orecchie? Questo scritto è parte di un brano che si trova nell’ultima pagina di «Il massiccio del Monte Bianco. Le 100 più belle ascensioni », ed. Zanichelli, 1974.
Alberto, naturalmente tu ce l’hai, vero? Se ti mancasse, allora per punizione dovrei condannarti a venti nerbate sulla schiena, inflitte da un nerboruto settimogradista.
Ragazzi, questa è poesia. Altro che spit!
Io iniziai a salire sui monti anche grazie alla magia del “vecchio” Gastone. Se avessi dovuto farlo leggendo la classifica finale di una gara di arrampicata sportiva, allora non avrei neppure incominciato. Grazie, Gaston!
«Non ho citato invece il più importante. Luciano Sigali […]. A lui devo veramente tanto».
Alberto, ti dico ancora bravo! La riconoscenza è una virtú rara.
Condivido, complimenti e… Verso l’Alto. “Sottrarsi alla passione o abbandonarvisi ciecamente. Quale di questi atteggiamenti è il meno distruttivo? Non lo so! (P. Coelho) PS: condivido anche questo.
ringrazio tutti per gli interventi.
Marcello non credo di essere acido come Bonatti. L’ho citato come alpinista, ma come ho citato tanti altri a cui, come alpinista sento di dovere qualcosa.
Non ho citato invece il più importante. Luciano Sigali, che non ti/vi dirà nulla.A lui devo veramente tanto, da quando tanti anni fa seduto sul muretto esterno del rifugio Forte dei Marmi al Procinto, mi disse: “bimbo che ci fai seduto li da solo, vuoi vernire a scalare ?”
Si la Sabrina è mia moglie . Ma è stata anche compagna di cordata in tante avventure dalle Apuane alle Dolomiti alle Alpi. Anche a lei devo tanto. Ad esempio dopo la morte del mio amico Girgio Giannaccini che ho citato nell’articolo. Ora per un problema al ginocchio non scala quasi più . Va in bicicletta ha fatto dei gran giri: Patagonia cilena e argentina, Bolivia, ect. ect.
Quello che ho scritto è il mio modo di concepire l’andare i montagna: prudenza si, ma anche voglia di andare oltre, entusiasmo, gusto più per l’avventura che per la tecnologia. Ho cercato di trasmetterlo agli altri. Se ci sono riuscito non lo so, ma l’importante è averci provato.
L’evoluzione dell’alpinismo necessità (come in qualsiasi altro risvolto dell’esistenza) del meccanismo attraverso il quale si alza l’asticella.
In montagna, però, alzare l’asticella comporta anche un aumento del rischio cui si va incontro. È inevitabile e lo considero un fattore decisivo.
Nulla di male, anzi. Basta però che sia chiaro a tutti. Chi vuole il rischio zero si dedichi ad altro e lasci stare le montagne.
Ogni tanto mi dico che sono stato capace di “generare” tanti figli alpinisti, ma penso anche che il mio amore per la montagna sia stato troppo spesso “sterile”.
Non sarò mai in pace con me stesso finché vivrò in mezzo agli uomini.
Si, bello scritto. Complimenti Alberto.
Però occorre guardare avanti non nel senso del futuro dell’Alpinismo ( chissà quale sarà) ma nel futuro della propria vita arrampicatoria perché non mi ci vedo senza una corda e una paio di scarpette in macchina. Eppure accadrà e guardo con timore quel momento.
Credo che molta della grandezza dell’Alpinista, stia proprio nel gestire questa parte del tramonto. Sotto gli occhi ho ed ho avuto due grandi esempi. Carlesso che trovavo in falesia anche solo per fare due passi negli ultimi anni, sempre sereno ed entusiasta, e Claudio che ogni tanto incontro nei sentieri nelle mie corse d’allenamento che è sempre pieno di entusiasmo ed incoraggiamento. Dopo aver fatto quello che hanno fatto loro in Dolomiti e Giulie credo non sia facile.
Io mi limito, per ora, a sognare “tempi moderni” e chissà che …….
«Continuare a sognare»: bravo Alberto!
Tutto pienamente condivisibile e umano. Così lo trovo.
Ma Bonatti? Tanto e sempre preso a puro e luminoso esempio di Uomo? A parte l’ultima fase della sua vita in cui era massicciamente presente la sua compagna Rossana Podestà, ha avuto altre donne? E’ possibile, volendo spaccare il capello in 4 ma neanche troppo, che nella sua vita di alpinista, e quindi di artista, non ne abbia citata nessun’altra? Eppure di cose ne raccontava, eccome. Ma di donne manco l’ombra.
Alberto, me l’hanno fatto tornare in mente alcune tue parole (la Sabrina -immagino tua moglie- che ti assicura…e altre) ma nella vecchiaia di Bonatti ho sempre notato il vuoto lasciato dalla non presenza di un figlio. Quella sua mania di sottolineare sempre che “ai suoi tempi” l’alpinismo era migliore di oggi e che “ai suoi tempi” le cose si facevano con altre motivazioni, ecc. Ecco, la mancanza di un figlio, che ti mostra da dentro casa tua, che i tempi cambiano e che da giovani si guarda al mondo in maniera DA giovani, in chi non ha figli ma possiede uno smisurato senso di egocentrismo, assume un significato negativamente condizionante. Infatti il Bonatti “anziano” l’ho sempre trovato di una pesantezza notevole, tanto da offuscare, almeno ai miei occhi, le sue gesta giovanili. Ma ricordate l’intervista da Fazio con Lui e Messner? Una commedia triste adatta a casalinghe frustrate. Suvvìa.
Volendo anteporvi un suo noto contemporaneo, ho sempre preferito Maestri: padre, nonno felice e grande raccontapalle, ma umano anche negli errori. Uno che, secondo me (che sulla vicenda del Torre sai come la penso) rappresenta la razza umana molto meglio del Bonatti eroe senza macchia, perché le macchie ce le abbiamo tutti. Non per niente l’espressione “smacchiare i giaguari, è sinonimo di azione inutile.
Bello scritto Alberto!
Ieri durante una lunga telefonata con Palmetta per caso eravamo “in fase” con te e ci siamo anche detti che il difetto più grande di quasi tutti gli alpinisti è quello di non essere capaci di sorridere del loro vivere, anzi di credere seriamente in ciò che fanno.
Parlavamo come esempio di uno strettissimo camino di Stenghel di pura sofferenza, con lividi e abrasioni dappertutto e poi la felicità della cima (fine, chiuso, è andato) e (come dici bene tu) la voglia di scalare ancora.
E ridevamo, ridevamo, ridevamo di noi stessi e della nostra passione, ormai antica, ma chissà perché ancora viva e sempre in evoluzione.
E’ per noi evidente: la nostra passione è una inutile follia, più o meno controllata, talvolta compresa e sempre accettata fra di noi (molto meno dalla gente).
Voglio dirlo seriamente: per me l’alpinismo è una forma di espressione umana talmente totalizzante che non ha limiti, solo la morte la può fermare…
e bisogna assolutamente ridere sopra questa “roba” che è una pura follia…
e ridere molto anche dell’esistenza di una folle storia spesso di follie che viene tramandata dagli alpinisti con follia… e ne discutono anche ferocemente!
I folli in alcune culture erano considerati come dei. 🙂
Articolo interessante che sviscera le vere motivazioni che spingono a dare sempre il meglio di se. Attenzione pero’ a non paragonare l’Alpinismo alla droga! L’Alpinismo e’ vita! La droga morte!