Mi l’hai guardà le nivule ch’a curiu ‘n tel ciel
(ho osservato le nuvole correre nel cielo)
(presentazione al libro di Paolo Castellino C’è un tempo per sognare – la storia di Gianni Comino, IdeaMontagna, 2017)
Quando gli uomini sono di poche parole (e Gianni Comino lo era assai), nel momento in cui parlano è d’obbligo starli a sentire. Quelle parole infatti o infondono la serenità di chi a lungo ha meditato, a volte in condizioni difficili e non propriamente sotto l’albero del Buddha nella quiete campestre, oppure sono fucilate che vanno diritte al cuore e uccidono non l’ascoltatore bensì molte delle pretese verità che questi crede di possedere.
Leggendo il libro di Paolo Castellino sulla figura storica di Gianni, prendo due di queste frasi e le colloco nelle due categorie suddette.
Gianni Comino. Foto: Luisa Degioanni, 1978
La prima, come giustamente osserva l’autore, ha un tono quasi zen. Gianni rispondeva in questo modo abbastanza spesso, specie quando gli si chiedeva cosa avesse fatto quel giorno: “Mi l’hai guardà le nivule ch’a curiu ‘n tel ciel” (ho osservato le nuvole correre nel cielo). In un uomo di azione, così dev’essere il pensiero, poetico, diretto, essenziale. Perché toglie dall’imbarazzo di dover raccontare la propria giornata a chi magari non è pronto, soprattutto a chi è schiavo della propria curiosità superficiale. E’ solo una battuta? Forse, ma per i non curiosi è una manna dal cielo.
La seconda, ugualmente famosa, Gianni la pronunciò in una delle ultime serate che egli tenne davanti al pubblico, a Torino, come racconta Enrico Camanni nel necrologio comparso sulla Rivista della Montagna del giugno 1980. Egli esordì innanzi ai presenti più o meno con queste parole: “Un muro di incomprensione divide me da voi in questa sala: nessuno si illuda di poterlo infrangere con un incontro di questo genere“.
Chi lo conosceva poteva comprendere benissimo che Gianni non stava accennando ai diversi livelli tecnici nel salire le montagne, e neppure si riferiva alla fortuita circostanza per la quale lui era da una parte del microfono e gli altri dall’altra. Il messaggio era: le mie parole, le immagini e anche la musica non ce la faranno mai a svelare o spiegare quello che sono i miei sogni e quello che ho vissuto.
Paolo Castellino ci racconta un Gianni Comino senza la pretesa di fare la meticolosa cronaca delle sue imprese, ben riassunte peraltro alla fine del volume. Imprese che parlano da sole e pongono Gianni in vetta a quell’alpinismo di fine anni Settanta, a livello assolutamente mondiale.
Leggiamo la chiave della sua scrittura quando afferma: “Ho scoperto sulla mia stessa pelle che ogni passo fatto in montagna – tanto in orizzontale quanto in verticale – è stato prima di tutto un passo in me stesso”.
Il suo racconto è decisamente in chiave umana, nel senso di quello che è il nostro fine. A questo proposito, quando Castellino racconta che Gianni era anche un grande appassionato di mare e di vela, cita il grande Charles Gos quando questi ebbe a scrivere: “L’uomo del mare e della montagna sono fratelli, tanto nella loro comune esistenza, quanto nei loro atti e nella morte stessa. Tutti e due, malgrado la differenza, danno l’impressione dell’eternità“.
Nel testo di Castellino sono parecchie le digressioni da quello che ci si aspetterebbe essere il filo del racconto della vita di Gianni. L’andamento è ondivago, si passa dalla situazione geografica a un contesto ambientale e storico, da un momento di azione alla riflessione che ne scaturisce, con continui richiami al tempo di allora, alle possibili scorciatoie che a quel tempo si usavano in assenza di cellulari e whatsapp. E alla fine le digressioni costituiscono il nuovo filo della narrazione, sul quale il lettore si trova a danzare lieve.
Lieve, sì. Perché questa storia avrebbe potuto essere assai cupa. Tanti sono i fattori che avrebbero potuto condizionarla e dirigerla al pessimismo, alla strisciante depressione. La generale cultura piemontese, quasi sempre in odore di pessimismo realista, tanto riflessiva quanto riservata, quella che però ha prodotto la cucina più varia e sofisticata del mondo; l’ambientazione storica della vita di Gianni, al limite tra provincia, boom economico, sabaudo senso del dovere e attrazione all’eroismo; le sue frequentazioni, due per tutte quelle di Renato Casarotto e di Gian Carlo Grassi, altre vite terminate tragicamente.
Tutti fattori che Castellino sublima in modo lieve, pur sapendo benissimo che, come ho sentito in un film, “ogni morte lascia un vuoto che occorre colmare”.
Un racconto fluido, che non sfugge mai al destino finale ma che riesce a farcelo dimenticare per pagine e pagine.
Per Castellino, non si riesce a classificare Gianni né tra le fila degli alpinisti vecchio stampo né tra i pionieri del nuovo movimento del Nuovo Mattino (o forse contemporaneamente in entrambe): “Egli sembrerebbe l’elemento di congiunzione, una figura “cerniera”; segue una strada tutta sua anche in questo frangente, toccando sfaccettature dell’una e dell’altra corrente. La sua originalità si mostra sotto molteplici sfumature. Non emula idoli o eroi; segue semplicemente l’evolversi dei propri sentimenti e delle proprie idee, in una sorta di cammino tutto suo che traccia passo a passo, sotto la spinta del suo spirito di ricerca interiore ed esteriore. Non manca certo di ambizione, connotato ben celato dietro un impenetrabile velo di modestia e il suo essere taciturno. Gli spiccati toni di intelligenza e sensibilità traspaiono più dai suoi lunghi silenzi che non dalle sue parole”.
Personalmente, se mi è concesso, vedo la figura di Gianni (che mi rammarico di non aver mai conosciuto se non di sfuggita) nello stesso filone dell’alpinismo alla Casarotto, e questo quando Renato non aveva ancora incominciato il suo travolgente cammino nel regno dell’intentato.
Gianni Comino sulla cascata di Balma Fiorant
Infatti il ventiduenne e taciturno Comino, tra il 15 e il 20 marzo 1974, traversa le cime dell’Argentera a partire dalla Madre di Dio fino a raggiungere la sommità del Corno Stella scalandone lo Spigolo Superiore. Poi si cala, senza proseguire oltre, lasciando quindi fuori la traversata della Catena delle Guide. Non è dunque l’integrale, ma è un’impresa di grande respiro e rispetto, un viaggio tra terra e cielo, alla Casarotto, appunto. All’inseguimento della propria visione, fino ad accettare che solo la conseguenza più estrema avrebbe potuto restituirgli i più potenti riflessi dell’anima.
La prima traversata integrale (includendo quindi anche la Catena delle Guide), invernale e solitaria, sarà realizzata nel febbraio 1980 dall’intramontabile Patrick Berhault; egli attaccherà il 25 e coronerà la salita il 28, proprio nello stesso giorno in cui Gianni, sul versante Brenva del Monte Bianco, cade dal temutissimo seracco della Mayor. “Come se un testimone fosse passato da un uomo a un altro, entrambi sognatori e amanti della vita, desiderosi di goderne le più sottili e preziose sfumature”, scrive Castellino.
Foto: Archivio Famiglia Comino
Riferisce Marco Bernardi: “Gianni aveva un carisma particolare; il suo modo di intendere l’alpinismo era “intellettualmente” onesto: non cercava riconoscimenti ma solo il vero significato delle cose. Viveva l’alpinismo come accettazione del rischio, era una persona razionale e sapeva esattamente la percentuale di probabilità di morire che doveva assumersi facendo determinate salite. La accettava, cercando il significato della vita in questa sua azione. Dal breve rapporto di amicizia avuto con lui tra il ’79 e l’80 ho capito che morire nel tentativo di aprire nuove strade è moralmente giusto. Non è importante stabilire se l’azione di per sé sia etica, cioè se morire scalando una montagna sia giusto o no, ma è l’esistenza di uomini e donne che sanno morire per una “idea” o un ideale che ha permesso all’umanità di evolversi e di migliorarsi. Gianni trasmetteva questa visione: solo quando si ha qualcosa per cui vale la pena di morire allora si percepisce il significato profondo della vita“.
Gian Carlo Grassi, suo amico e compagno di tante avventure, gli dedicò il suo rivoluzionario libro 100 scalate su cascate di ghiaccio (Görlich, 1983):
“L’ultima salita. La cima… la parete, una storia di seracchi, una scalata in apparenza un po’ pazza e posta ai confini di un mondo proibito. Ambiente irreale e inafferrabile nella sua irrazionalità. Scontro di sensazioni opposte. Spirale di follia, senza per questo valicare il confine della separazione totale.
Una storia di due uomini che, in fondo, cercavano soltanto di raggiungere la vetta del proprio “io”, con la consapevolezza di ciò che stavano realizzando in se stessi, alla ricerca di quella nostalgia di felicità che è in tutti noi“.
Grassi si riferisce qui alla salita più pazza, quella compiuta assieme a Gianni sul seracco della Poire: sono righe tra le righe, nitide, intense.
Enrico Camanni, nel suo bel libro Mal di Montagna, scrive di Gianni Comino che “le prime cose che colpivano in lui erano l’intelligenza e l’autocontrollo. Gianni parlava in modo tranquillo, garbato, velatamente intellettuale ma senza presunzione. Sapeva ascoltare e sapeva tacere, soprattutto sapeva tacere, e questo suo understatement naturale accentuava l’interesse e il mistero. La riservatezza è una virtù a doppio taglio: può attrarre o allontanare“.
Gian Piero Motti ebbe a scrivere che in Gianni colpiva la “felice simbiosi tra lo slancio emotivo e spirituale e la lucida freddezza, quasi da automa, nella realizzazione pratica“.
Gian Carlo Grassi, Renato Casarotto e Gianni Comino al rifugio Monzino
L’accademico Costantino Piazzo ebbe modo di effettuare una delle rarissime interviste a Gianni (che tra l’altro fu pubblicata su Scandere postuma). Anche Piazzo era rimasto colpito dalle due anime di Gianni apparentemente in contrasto: “Ecco l’uomo è qua: di professione idealista-razionalista, se è consentito il bisticcio dei termini. Attento analista di sé e dei propri mezzi, in possesso di una sicura tecnica e più ancora di una solida preparazione psicologica, si è portato con autorità ai vertici dell’alpinismo moderno. Conduce un serio professionismo; di certo nutre un sincero amore per la montagna e per il prossimo che la frequenta, al punto da saperne rispettare segreti e personalità. Con il suo comportamento non riuscirà a impedire il trionfo del cattivo gusto, né a restituire alla montagna quell’equilibrio tra avventura e mistero che la competizione e la sponsorizzazione hanno spezzato. Piccolo uomo tra tanti mostri piace a noi sinceri tifosi dell’uomo pensante e cosciente: Clark Kent senza la divisa da Superman nel sacco da montagna”.
Dopo l’epica salita del seracco della Poire con Gian Carlo Grassi, un nuovo sogno germoglia nel cuore di Gianni. Come sempre, non possiamo avere alcun dubbio sull’approfondita analisi che fece Gianni di questo nuovo progetto, un itinerario incastonato nei seracchi a sinistra della Mayor e a destra della Poire, dove i rischi oggettivi sono molto elevati.
Molte volte Gianni aveva accompagnato la guida genovese e sciatore estremo Stefano De Benedetti, percorrendo da solo e in discesa gli itinerari incredibili che questi nello stesso tempo scendeva con gli sci.
Gianni voleva la compagnia “morale” di Stefano, gli bastava che questi stesse a osservarlo dal rifugio Ghiglione. Un piacere che Stefano non poteva negare all’amico.
Foto archivio: Famiglia Comino
I due soggiornano un poco nella baita che Gianni aveva in val Ferret, di solito aperta a tutti gli alpinisti. Ed è allora che Stefano nota nell’amico una paura profonda, quasi un’angoscia, molto tangibile. È lui stesso a raccontare a Castellino di quelle ore e delle successive. “Ricordo quanto avesse paura e, al contempo, quanto fosse consapevole del rischio che avrebbe corso… Era qualcosa che doveva fare, e non c’era nulla, nemmeno lui stesso che potesse distoglierlo dal farlo“. Stefano capiva che il rinunciare a quel sogno per Gianni sarebbe stato un patimento ancora maggiore, sapeva che Gianni “doveva” andare e anche lo stesso Gianni sapeva che “doveva” andare.
Castellino racconta: “Trascorre così la lunga notte della vigilia poi, nelle prime luci del mattino, prendono la funivia che li deposita presso il rifugio Torino, a oltre tremilatrecento metri di quota, calzano gli sci con le “pelli di foca” e raggiungono il bivacco Ghiglione, posto a 3685 metri. Da quel nido d’aquile erano partiti in precedenza per altre meravigliose salite. Ma stavolta c’è una sottile sensazione che qualcosa possa essere diverso, o forse, semplicemente c’era stata anche altre volte ma la successiva buona riuscita ne aveva cancellato il ricordo. Un ultimo abbraccio, un ultimo sguardo, poi Gianni si allontana sugli sci, solo verso il suo destino, per addentrarsi nel circolo della Brenva, sulla scia di quel richiamo cui non avrebbe potuto sfuggire. Ancora un altro giorno e finalmente è possibile scorgere Gianni alle prese con la visionaria linea che aveva inventato. Stefano, dalla terrazza del Ghiglione, a intervalli più o meno regolari osserva l’amico dietro le lenti del binocolo. L’ascesa è lenta, metodica e costante”. Poi la tragedia, proprio nel momento in cui Stefano sospende per poco l’osservazione.
A me interessa questa novità testimoniata, che appare precisa: la paura. Le grandi imprese sono tanto più grandi se non c’è sensazione di paura nei protagonisti, solo il timore e il rispetto per la grande montagna o la grande incognita. Perché sono in stato di grazia. Mi piace pensare che tutte le grandi esperienze di Gianni siano state precedute da una serena attesa, meno in questa. Ma non ho le prove di quanto vado affermando.
Immagino un normale autista che in un normale giorno feriale s’immette in un’affollata e trafficata superstrada. Non confondiamoci con i casi in cui lo stesso autista debba avere timore del suo stesso comportamento: stanchezza, ubriachezza, disperazione, stato alterato di coscienza. Pensiamo soltanto ai pericoli che l’autista corre dal momento che s’immette in una superstrada trafficata, quindi si pone in relazione con altri attori di cui egli non sa nulla. Quello che ti sta correndo incontro, a più o meno alta velocità, non lo conosci, non sai in che stato sia, non ne hai idea. Non hai idea neppure di quello dopo. Ma ti metti in strada lo stesso, fiducioso che TU arriverai a casa anche in questa fine giornata. Il pensiero che tu ti possa sbagliare ti sfiora appena e lo releghi in quelle striminzite possibilità statistiche d’incidente, magari neppure mortale. Non hai paura. Sei in stato di serenità, senza paura: solo avvertito di improbabili statistiche.
Ma se hai paura? Solo tu puoi accorgertene, solo tu puoi correggere la rotta. Gianni avrebbe potuto scegliere di non salire. Non lo ha fatto. Qualunque sterile computo di calcolo delle probabilità dismette la sua efficacia di fronte al riconoscimento della propria paura, ma forse Gianni non era sufficientemente allenato in questa disciplina. Forse aveva solo deciso di giocare fino in fondo, anche quando qualcosa si era rotto dentro di lui. Lasciando a noi il pallino.
7
Grande personaggio e bella pubblicazione, spero di leggerla!
18 luglio 1977 Gianni Comino é passato a prendermi con la sua 600 , forse é ancora con le portiere aperte avanti … facciamo il viaggio assieme fino alla sua Baita Cipolla in val Ferret . Mi racconta la sua vita nel viaggio da Torino a Courmayeur ed io la mia . Ieri ho dato l’orale della maturità e non ho mai visto il Bianco … Gianni é una di quelle persone che ti infonde sicurezza , non parla spesso ma quando lo fa é per dire cose importanti che vale la pena ricordare come dei punti fermi della vita . Egli sembra attingere da una forza interiore che a volte lo rende taciturno , ma sai che non sono tempi morti ma anzi forse più produttivi che discorsi.
Ci attendono in valle il mio amico Gian Carlo Grassi e Franco Piana .
Saliamo nel tardo pomeriggio al Torino , loro conoscono tutti , salutano Giorgio Bertone che domani porta il Presidente dell’UIAA Jean Juge a fare la Tour Ronde , fanno battute a Gianni perchè la cameriera lo corteggia , e tutti giù a ridere . Il mio cappuccino caldo é uno dei più gustosi della mia vita , ma é normale , sono con dei fuoriclasse , sono nel Bianco per la prima volta e domani : via nuova sul gruppo del Tacul . Prima di coricarci facciamo gli zaini , mettiamo anche il sacco a pelo . Gian Carlo tira fuori anche un sacchetto con copperhead ,cliff, e altra roba strana , ma si decide di non arrivare a quei livelli ; caspita siamo nel 1977 già i cliff & C …
Al mattino un forte vento e nebbia ci fa temporeggiare al colle dei Flambeaux , ma tutto si dirada e vediamo tutto il massiccio terso . Per un fenomeno strano di condensa sui couloir Gervasutti e Diable rimangono 2 nuvole che segnano tutta la via di salita e diventano rosse all’alba , peccato non averle fotografate .
Pilier Sans Nom si chiama , dietro al tre Punte , bella via , ma anche lunga per me che sono poco alpinista e molto sassista . Sono in cordata con Grassi e siamo noi davanti a tirare il pilastro . Gianni mi fa i complimenti per come ho attrezzato la sosta a metà del lunghissimo diedro del pilastro . “Questa si che é una sosta ben fatta ” ma voleva anche dire che i chiodi che avevo messo prima … finisce il pilastro e Gian Carlo entra nel Supercouloir per poi proseguire verso l’uscita del Pilier Gervasutti . Gianni e Franco passeranno poi in testa per la cima del Tacul , tanto e vero che sul pilastrino finale sull’ultimo passaggio Gianni mi aspetta , ha capito che sono cotto , mi tende la mano sorridente, io l’afferro e siamo poco dopo tutti in cima . Indelebile l’immagine della Tour Ronde minuscola laggiù . Scendiamo il lungo pendio del Tacul e quando passiamo sotto il Gervasutti già 3 cordate sono a metà . strano sentiamo persino uno scroscio di acqua sotto il ghiacciaio . Arriviamo al Torino a mezzanotte , per fortuna la sala delle colazioni é aperta e riusciamo a dividere una bottiglia di minerale in quattro , tutti a nanna .
Lo vidi ancora alla sua proiezione “Il ponte di cristallo ” assieme a Grassi per rendere partecipi i piemontesi della nuova disciplina delle cascate ; loro erano reduci dalla esperienza significativa in Scozia …
Poi ancora ad una proiezione di diapositive molto importante perché disse in sala “Questa é l’ultima proiezione che faccio da appassionato di alpinismo , d’ora in avanti farò proiezioni come Guida Alpina professionista” …
Non vidi più sue proiezioni , ma fui presente a quella del suo amico De Benedetti che proiettò alla fine le diapositive che riprendono Gianni mentre esegue il suo capolavoro ( come lo definì Gian Carlo Grassi ) sulla Brenva .
Ognuno fa le proprie scelte. In fondo per andare oltre bisogna mettersi in gioco. Per quanto ne so, tra i vari motivi, Comino ha deciso di andarci da solo sul seracco della Major anche per non mettere in pericolo la vita del suo compagno abituale che era G.C. Grassi.
Era sicuramente coscente dei grandi pericoli. Ha fatto una scelta, sicuramente molto ponderata, non credo fine a se stessa.
L’articolo contiene si un’analisi lucida e razionale. Non approvo per nulla la scelta di fondo di Comino di ricercare, ed indulgere troppo, nel rischio fine a se stesso.
oggi di nuvole ce ne sono tante. Non sono bianche perchè cariche di pioggia. Ma sono altrettanto belle e fonte d’ispirazione.
Non vedo anchio l’ora di leggere questo libro per approfondire la conoscenza di Comino.
Complimenti per l’analisi.
Stupenda analisi. Non ho nulla da aggiungere. Meglio tacere e guardare le nuvole che corrono nel cielo. Non vedo l’ora di leggere il libro.