Anatomia di una “prima”

Anatomia di una “prima” (GPM 007)
di Gian Piero Motti
(pubblicato su Scandere 1968)

Lettura: spessore-weight**, impegno-effort**, disimpegno-entertainment**

È interessante scoprire il processo psicologico e il lavorìo mentale che ci inducono a compiere alcune delle nostre azioni. Soprattutto nell’alpinismo non ho mai considerato l’azione come fine a se stessa, ma ritengo che essa sorga da un’intensa contemplazione e da una esaltazione spirituale che ci incitano e ci inducono a concretizzare e a rendere tangibili i sogni della nostra fantasia.

In questa platonica ricerca delle idee assolute, la natura gioca, per me, uno dei ruoli fondamentali. La natura, in tutti i suoi aspetti, ora sereni e ridenti, ora tetri e selvaggi, è ciò che maggiormente è più profondamente sa toccare il fondo del mio animo, riesce a esaltarmi e commuovermi, a pervadermi di melanconia e di nostalgia, a rendermi spensierato e limpido, quasi fanciullo.

Questa estrema sensibilità agli aspetti della natura, è forse ciò che mi ha sospinto a conoscere così a fondo la montagna; infatti, la montagna, il suo paesaggio, il suo mondo e la sua gente ci offrono un quadro così ricco e così vasto come ben difficilmente ci è dato di trovare intorno a noi. Così, più la si conosce, più la si vorrebbe conoscere, più la si ama e più la si vorrebbe amare.

Parete est della Cresta di Mezzenile (Valli di Lanzo)

A volte la montagna la vedo solo di lontano, dalla collina, sfumata nei suoi contorni all’orizzonte, nella pallida luce della sera. Eppure proprio in questi istanti, in queste fughe dal rumore e dal caotico mondo della città, il richiamo è particolarmente forte.

E’ bello, nelle sere d’autunno, passeggiare nei viali di Torino. Nella fumosa nebbiolina della sera imminente, tutto assume una dimensione diversa e suggestiva. I palazzi, austeri nelle loro linee geometriche, svaniscono assorbiti e ovattati da quel soffuso grigiore; gli alberi sembrano altissimi, immersi e sperduti nel nulla e già mostrano qualche ramo scheletrito. È bello tenere nelle mani il caldo e simpatico cartoccio delle caldarroste e camminare lentamente, calpestando l’umido tappeto delle foglie ingiallite.

Non è tristezza quella che pervade l’animo, ma melanconia dolcissima e profonda. Desiderio di silenzio e di quiete, quasi immedesimazione nella natura che prima di cedere al lungo sonno invernale, forse per un attimo si ferma, ripensa all’estate appena trascorsa, alle radiose giornate di sole e alla vita stessa che pian piano si spegne. Riascolta per un attimo il canto dei mille uccelli del bosco, lo scroscio dei torrenti, rivede il verde smeraldino dei prati.

Si ferma un po’, osserva alto nel cielo il volo degli uccelli migratori, il ghiaccio sottile che di notte imprigiona la voce del torrente, il manto dorato che si stende sulle pendici dei monti…

Parete est della Cresta di Mezzenile (Valli di Lanzo)

È facile allora prendere la strada della collina e fuggire dalla vita di ogni giorno per andare in cerca di un angolo di mondo tutto per noi. Laggiù, brillano le luci della bella. Torino: i suoi viali, i suoi palazzi, le sue auto. Ma tutto è soffuso e celato dal fumo e dalla nebbia, tutto è molto lontano.

All’orizzonte, in fondo alla vasta pianura, il cielo è ancora vivo e limpide si stagliano in esso le azzurre montagne. Mai come allora le sentiamo nostre, tutte da scoprire e da amare.

Attorno, qualche coppietta ancora sensibile al fascino della natura, si stringe forte forte, e sogna le mille fantasie degli innamorati. Nell’animo si accende il desiderio di lotta, di conquista e di immensità…

Lentamente risaliamo il vasto pianoro, dominato al fondo da un’alta e imponente costiera di montagne. La sera è vicina, ma non abbiamo fretta; vogliamo goderci in tutte le sue sfumature questo tramonto d’autunno. Un cane abbaia una, due, tre volte. Risponde lontano lo scampanio di una mandria al pascolo. Ci fermiamo, seduti su un grande masso, mentre la strana luce del crepuscolo rende più vivi e più netti i contorni delle cose.

Il pilastro è lassù: bello, elegante e logico nelle sue forme, svelto e leggero nel suo stacco verso il cielo. Per ora le sue rocce non conoscono ancora la mano dell’uomo, forse domani ogni sua struttura sarà esaminata, salita e graduata. Ma adesso conserva tutto il suo fascino misterioso e sembra quasi sfidarci inarcando i suoi strapiombi minacciosi; ma noi non lo temiamo, l’abbiamo desiderato, l’abbiamo studiato e ora siamo qui, per vivere sui suoi fianchi l’avventura di un giorno di sole che, con il suo ricordo, possa cancellare tanti giorni nebbiosi.

Siamo giunti tra i grandi blocchi della morena sottostante il ghiacciaio; ci fermiamo e ce ne stiamo un po’ così, senza dir nulla. Non fa freddo, soffia una leggera brezza, mentre il cielo a oriente diventa sempre più chiaro e più vivo. È forse l’ora più suggestiva, l’ora delle leggende antiche e dei miti ingenui e puri. Per un po’ mi tuffo con la fantasia nell’antica Grecia, nel favoloso mondo orientale e nella buia notte del Medio Evo. Poi la dantesca «concubina di Titone antico» dà vita a questo freddo mondo di pietra e di ghiaccio. L’azione ha inizio.

Ilio, Ugo, Ezio: compagni con cui è facile raggiungere un’intesa perfetta. Ci conosciamo bene, abbiamo diviso assieme tante ore di roccia ed è bello ritrovarci ancora una volta uniti.

L’autunno ha lasciato il ghiaccio scoperto; calziamo i ramponi e velocemente giungiamo all’attacco. Di qui il pilastro si rivela in tutti i suoi particolari. Siamo alla base della parete formata dalla cresta Mezzenile, nell’alta val Grande di Lanzo. Sopra di noi, un magnifico pilastro, con un superbo slancio di cinquecento metri d’altezza, costituisce forse le dernier grand problème della zona. La via ci appare assai logica ed evidente, ma comprendiamo subito che dovrà trattarsi di un osso duro, poiché alcune fasce di gialli strapiombi sembrano, almeno dal basso, piuttosto ostiche.

Come sempre ci coglie l’impazienza del cimento; troppo forte è il richiamo di quel terreno sconosciuto.

Se c’è una cosa che soprattutto mi preme nel tracciare una via nuova, è l’eleganza estetica del tracciato. Giustamente Comici detestava le soluzioni facili e banali, mentre esaltava la soluzione diretta, il tracciato logico ed esteticamente perfetto. Non si tratta di sbattere la testa contro strapiombi e soffitti o di forzare con lavoro artificioso tratti aggirabili in arrampicata naturale, e nemmeno di fare una pura ricerca della difficoltà, ma si tratta di scegliere tra il dedalo delle eventuali possibilità, quella che più soddisfa ai canoni fondamentali dell’estetica e dell’eleganza.

Ecco il punto di attacco più logico e naturale: un diedro inclinato, regolare nei suoi piani e inciso in una roccia scura, franca e sicura. È vero, forse a sinistra l’arrampicata sarebbe più facile, ma quel canale-camino di terriccio marcio e rovinoso mi disgusta.

Due o tre colpetti con la punta dello scarpone, una rimboccata alle maniche, uno sguardo e un’aggiustata al materiale appeso alla cintura, il fatidico «Occhio!» al compagno che assicura, e l’avventura ha inizio. Alla seconda lunghezza di corda mi trovo già fortemente impegnato. Con un paio di chiodi piuttosto aleatori sono riuscito a raddrizzarmi sulla punta di una lama staccata; sopra, uno strapiombo sembra assai avaro di appigli. Non esiste possibilità di chiodare.

Il passaggio è evidente e intuibile, ma assai impegnativo. Un paio di tentativi a vuoto, poi prendo fiato e parto per il colpo decisivo: poco per i piedi, lo stretto necessario per la punta delle dita. Un passaggio entusiasmante.

Ancora fessure, pareti e placche, mentre l’arrampicata si mantiene sempre dura e sostenuta. Sotto i tetti, i pareri sono discordi: Ugo vorrebbe salire subito a sinistra, ma a me sembra che con una deviazione a destra e poi salendo diagonalmente a sinistra, si eviterebbe di andare a sbattere con la testa contro un grande tetto insuperabile, e si raggiungerebbe più facilmente la seconda fascia di tetti.

Il terreno mi dà ragione. Con un’aerea traversata in artificiale lungo una sottile fessura che incide una liscia placca, giungo sotto uno strapiombo tra rocce gialle dall’aspetto instabile. Ezio mi raggiunge. Impegnandomi seriamente riesco a superare lo strapiombo nel suo settore sinistro, poi continuo ancora ad attraversare, salgo un tratto e sono sotto i tetti. Vedo cinque o sei metri di strapiombo e poi null’altro che il cielo. Ma il terreno lascia intuire che al di sopra la pendenza dovrebbe attenuarsi sensibilmente.

Collego un paio di chiodi con un laccio di cordino, per rendere l’assicurazione più efficiente, poi carico una staffa e… esamino la situazione: a sinistra il passaggio è breve, ma sembra molto rischioso, infatti dovrei affidarmi a un blocco tavolare enorme, incastrato molto instabilmente nello strapiombo. Preferisco non sfiorarlo neppure e, allungandomi al massimo a sinistra oltre il blocco, scopro un’esile fessura.

Non sono mancino, e chiodare così lontano a la main gauche significa un colpo sul chiodo e tre sulla roccia. Non mi va di caricare questo chiodo cosi sporgente dalla fessura, ma è proprio l’unica soluzione possibile.

Ora il bordo del tetto è all’altezza della mia testa e posso scorgere come si presenta l’uscita: una placca quasi orizzontale, ma friabile e priva di fessure. Ritorno in luoghi più invitanti, ossia appollaiato sulla staffa, ed esamino meglio e più attentamente il fondo del tetto. Infilo in una sottilissima fessura un chiodino americano a lama di rasoio, lo batto e sembra che debba tenere. I compagni in basso trattengono il fiato: se infatti i chiodi dovessero cedere finirei nel vuoto sotto gli strapiombi e certo non sarebbe piacevole.

Con il pensiero e con la ferma convinzione di essere una piuma, carico la piccola lama di acciaio. Per uscire non c’è quasi niente e quel poco che c’è è molto friabile. Sono solo due metri, ma l’impegno è massimo e il rischio notevole.

Di qua in su, però, le cose sembrano andare molto meglio. Dopo un paio di lunghezze su terreno più agevole, ci attende una superba placca rossa e verticale, subito a destra del camino ghiacciato che fiancheggia lo sperone a sinistra. All’inizio una lama staccata forma un tetto, poi una fessura prosegue diritta e sottile fendendo la placca.

Un cuneo piantato in posizione strategica mi permette di afferrare la lama sopra il tetto e di proseguire lungo la fessura con un’entusiasmante arrampicata in opposizione. La fessura si chiude e mi lascia in parete aperta e avara di appigli. Su appoggi minimi, una traversata a destra in grande delicatezza ed esposizione, mi conduce su terreno più facile. In breve siamo alla base del pilastro terminale, alto circa centocinquanta metri, veramente bello e attraente nel suo aspetto compatto e monolitico, granitico per la sua roccia salda e rossastra.

Saliamo per tre lunghezze con arrampicata diretta ed esaltante, su difficoltà medie, dove ascendere è un piacere e un divertimento. L’ultimo ostacolo ci obbliga ancora all’uso di una staffa, per superare un liscio muretto rosso. Da un piccolo intaglio rapidamente raggiunto, ci raddrizziamo sull’aereo monolito sommitale. Siamo persino un poco commossi, certo soddisfatti, entusiasti e felici.

La discesa sarà eterna, complicata anche dal tracciato tortuoso e dalla presenza di molta neve fresca caduta nella settimana precedente. Il buio ci sorprenderà sul ghiacciaio e non mancherà neppure qualche ruzzolone, finito per fortuna senza serie conseguenze.

Qualche giorno dopo, in un magnifico e limpido pomeriggio di ottobre, me ne sto sulla piazzetta di Forno a guardare con il naso in su. Ho le mani fasciate e il polso slogato: conseguenze dell’involontario scivolone notturno. Eppure, guardando lassù, mi sento il più ricco degli uomini.

Segue la relazione tecnica

1
Anatomia di una “prima” ultima modifica: 2017-12-07T05:24:14+01:00 da GognaBlog

Scopri di più da GognaBlog

Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.

2 pensieri su “Anatomia di una “prima””

  1. Non fa freddo, soffia una leggera brezza, mentre il cielo a oriente diventa sempre più chiaro e più vivo. È forse l’ora più suggestiva, l’ora delle leggende antiche e dei miti ingenui e puri. Per un po’ mi tuffo con la fantasia nell’antica Grecia, nel favoloso mondo orientale e nella buia notte del Medio Evo. Poi la dantesca «concubina di Titone antico» dà vita a questo freddo mondo di pietra e di ghiaccio. L’azione ha inizio.”

    Il mito è sempre ricorrente.

  2. All’orizzonte, in fondo alla vasta pianura, il cielo è ancora vivo e limpide si stagliano in esso le azzurre montagne. Mai come allora le sentiamo nostre, tutte da scoprire e da amare.

    Attorno, qualche coppietta ancora sensibile al fascino della natura, si stringe forte forte, e sogna le mille fantasie degli innamorati. Nell’animo si accende il desiderio di lotta, di conquista e di immensità…

    Leggerti è un piacere.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.