Arrampicate d’altri tempi
di Leandro Benincasi
(pubblicato su alpinismofiorentino.caifirenze.it il 5 marzo 2016 e 1 gennaio 2018)
Vi propongo un viaggio, un viaggio a ritroso nel tempo. Con un po’ d’immaginazione potrete essere catapultati tra le scoscese pareti delle Alpi Apuane, così come si presentavano un bel po’ di anni fa. E rivivere così l’atmosfera, le aspettative, le impressioni, di quei pochi scalatori, un po’ marziani, che frequentavano quelle montagne.
Purtroppo non potrò soddisfare pienamente la curiosità di quanti sono interessati agli aspetti strettamente tecnici, per due fondamentali questioni. La prima risiede nel lungo tempo trascorso da quegli avvenimenti, circa mezzo secolo, e questo fatto non aiuta certo a un più puntuale ricordo. La seconda questione riguarda la valutazione delle difficoltà, che oggi richiederebbe una rivalutazione, a causa dell’ammodernamento dell’attrezzatura alpinistica. Riguardo a quest’ultimo aspetto, è giusto sottolineare che gli enormi progressi riscontrati sui materiali a disposizione hanno spesso profondamente cambiato la stessa valutazione delle difficoltà abbattendo, in molti casi, precedenti gradazioni. Da un lato l’evoluzione delle calzature da arrampicata (a quei tempi si arrampicava anche sulle vie di roccia con grossi scarponi rigidi, i Super Galibier), dall’altro l’evoluzione delle piccozze, al posto delle vecchie «asce da ghiaccio» che non consentivano la moderna progressione in piolet–traction, evoluzione che ha cambiato e talvolta stravolto non solo la valutazione delle difficoltà, ma anche la scelta del percorso ottimale di salita.
Attenzione dunque, perché il salto all’indietro è davvero notevole. Se siete pronti, vi ci accompagnerò io, che proprio in quei tempi muovevo i primi passi… alpinistici. E’ un viaggio in un’epoca nella quale l’alpinismo era un’altra cosa rispetto a quello che viviamo oggi. Non solo per i materiali a disposizione (pantaloni di velluto, camicie di flanella, moschettoni di ferro, ecc.), ma soprattutto per la mentalità e la visione d’assieme. Un’epoca nella quale, quando si parlava di difficoltà estreme, in realtà si stava parlando di sesto grado, che tradotto per i più giovani è semplicemente, banalmente, un 5c, roba da principianti. Un’epoca nella quale anche i più forti alpinisti facevano ampio uso delle staffe. Un’epoca nella quale, quando in parete si trovava un chiodo, non si facevano tanti complimenti e ci si tirava su come se fosse un normale appiglio, e soprattutto senza sentirsi gridare da dietro un “buuu!” di disapprovazione. Ma vi prego, non ridete di tutto ciò. E’ roba di mezzo secolo fa!
Quando ho iniziato ad arrampicare, appunto cinquanta anni fa, le Alpi Apuane erano abbastanza diverse da come oggi le conosciamo, erano un po’ più selvagge e potevano ancora essere considerate come vero terreno d’avventura. Quelli che come me hanno una certa età, ricorderanno certamente che anche l’accesso alle pareti era in generale assai più impegnativo di quanto lo sia oggi. Per fare degli esempi, si ricorderà che per raggiungere i torrioni del Corchia occorreva lasciare la macchina alla galleria del Cipollaio e percorrere un lungo sentiero che portava al Passo di Croce (dove oggi si arriva comodamente in auto) e da qui proseguire fino ai torrioni. Per non parlare della parete nord del Pizzo d’Uccello, il cui unico accesso era quello proveniente da Equi, non esistendo a quei tempi la ferrata di Foce Siggioli. Ma la cosa più complessa era costituita dal ritorno: arrivati in vetta, per tornare alla macchina bisognava fare un lungo percorso, di diverse ore, per tutta la Cresta di Capradossa, anche se questo era possibile solo se si arrivava in vetta abbastanza presto, altrimenti si doveva scendere e pernottare al rifugio Donegani e il giorno dopo farsi riprendere da una macchina o da un taxi per tornare a ritrovare l’auto lasciata sotto l’attacco. Anche il Procinto era montagna vera e propria e non una specie di grande palestra quale è oggi. Infine le pareti erano frequentate da quattro gatti (alpinisti, sto parlando) il cui numero non superava mai, nella giornata, le dita di una mano.
Tutto questo per dire che all’epoca molti itinerari alpinistici erano stati tracciati, ma quasi tutte le pareti presentavano ancora tante opportunità per nuovi percorsi. In particolare, le attenzioni dei più forti alpinisti dell’epoca erano concentrate sui due più importanti monti delle Apuane: il Monte Procinto e il Pizzo d’Uccello. Senza però trascurare altre vette, che attendevano solo di essere affrontate.
Tra i vari protagonisti dell’epoca, che vedeva impegnati alpinisti versiliesi, pisani, livornesi, lucchesi e genovesi, sicuramente un ruolo di primaria importanza lo giocarono gli alpinisti fiorentini, che in quegli anni formarono le più forti cordate in azione sulle Alpi Apuane. Le imprese realizzate in quel periodo, e soprattutto la loro difficoltà e qualità, parlano da sole. Nessun’altra cordata ideò e realizzò ascensioni paragonabili a quelle effettuate dagli alpinisti fiorentini. Fra questi ultimi si distinse in particolare Mario Verin, il più forte di tutti, ma con lui occorre ricordare anche altri protagonisti, come Giovanni Bertini, Paolo Ponticelli, Umberto Ghiandi e Guido Canciani. Colgo qui l’occasione per spendere due parole su Giovanni Bertini, così spesso trascurato nella strana “storiografia semiufficiale” che in questi anni si sta diffondendo e consolidando. Ebbene, Giovanni è l’autore, con Mario, delle nuove vie al Procinto di cui parlerò in seguito, e soprattutto è lo “scopritore” di nuovi luoghi d’arrampicata, inventando, primo fra tutti, nuovi tracciati sulle torri di Monzone, sul Sasso Rosso e sulla Pania di Corfino. Mi preme inoltre aggiungere che Giovanni non solo è stato un forte alpinista, ma fra tutti noi era quello che riusciva a esprimere, nella progressione, lo stile più bello a vedersi. Diversamente da Mario, che aveva un’arrampicata così asciutta e sobria da non far trasparire il proprio impegno, tanto che non era facile capire se stava procedendo sul IV grado o sul VI+, Giovanni poteva anche far vedere lo sforzo, ma sempre con stile elegante e piacevole. Oggi si direbbe che aveva curato il “gesto”.
Breve inciso a proposito di questa neo-storiografia cui ho accennato in precedenza: mi sembra opportuno mettere in guardia i lettori, e quanti s’interessano di questa materia, circa la veridicità di quanto spesso è raccontato, sentito o letto. Mi sembra talvolta di assistere a un inesorabile progredire di una sorta di “revisionismo storico” sulle vicende alpinistiche quegli anni. Magari la questione meriterebbe un serio approfondimento e una corretta rivisitazione, e soprattutto un ascolto della viva voce dei reali protagonisti dell’epoca, prima che si vada consolidando un “racconto” che niente ha a che fare con la realtà.
Sempre più spesso mi capita di leggere resoconti e ricostruzioni storiche che mi lasciano alquanto interdetto, oltretutto quando questi resoconti sono scritti da persone che non si sono scomodate di sentire i reali protagonisti delle epoche descritte. Considerato che il numero degli alpinisti in azione a quei tempi sulle vie estreme era ridottissimo, non c’è molto da cercare per conoscere la vera storia di quei tempi. Per esempio Giovanni e Umberto possono essere buoni testimoni del periodo e anche il sottoscritto può raccontare qualcosa, visto che in quegli anni ero, assieme a Giovanni, il più assiduo compagno di cordata di Mario Verin.
Riprendiamo però questo viaggio nel passato. Lo riprenderò attraverso il personale racconto di quegli anni, partendo dalle esperienze maturate sui principali monti delle Apuane, il Procinto e il Pizzo d’Uccello.
Monte Procinto
Quando, nel 1966, ho frequentato come allievo il corso di roccia della scuola Tita Piaz (piccolo inciso: in quello stesso corso c’era tra gli allievi anche Aldo Terreni) le vie più importanti allora tracciate sul Procinto erano la via Ceragioli sulla parete ovest, la Dolfi-Melucci sulla Nord e infine la già allora mitica Dolfi-Rulli sulla Est. Circa l’importanza di tali tracciati, riporto qui fedelmente il commento scritto di Mario Verin in un articolo pubblicato sul Bollettino della Sezione Fiorentina del CAI (n. 3 luglio-dicembre 1968): “Salite come la Dolfi-Melucci alla parete nord e la Dolfi-Rulli sulla parete est sono delle vere lezioni di alta scuola la prima, e alta tecnica alpinistica la seconda; vere e proprie basi di partenza per l’esecuzione di nuovi itinerari di alto valore. La prima, sulla parete nord, per la sua ardita concezione e per l’altra concentrazione di difficoltà, è un exploit umano più che tecnico. Questo tracciato… rimane una delle salite in arrampicata libera più difficili di tutte le Alpi Apuane (personalmente la ritengo la più difficile). La seconda, quella sulla parete est, riporta come difficoltà a tutte quelle salite che sono i più grandi itinerari alpinistici delle Alpi“.
Dopo queste notevoli ascensioni (la prima è del 1955 e la seconda è del 1961) fanno seguito anni di scarsa attività, d’infruttuosi tentativi o d’insoddisfacenti realizzazioni. E’ a partire dal 1967 che inizia l’epoca d’oro delle nuove realizzazioni al Procinto. Ad inaugurare il nuovo corso è Mario, in coppia con Giovanni. Il loro obiettivo è di aprire una nuova via sulla parete est, con un percorso più diretto rispetto alla Dolfi-Rulli. Infatti i due attaccano la parete al suo centro (per questo motivo la via sarà chiamata in un primo tempo “direttissima”, poi ribattezzata G.A.M.M., e ora Gamma) e riescono a salire per un lungo tratto, fino ad una grande cengia sotto lo strapiombo finale. La roccia sopra di loro è liscia e priva di fessure, e perciò temono di essere costretti ad un lungo lavoro di perforazione col trapanino a mano. Mario non è tipo che ami questo genere di lavori (“Figuriamoci se mi metto a imbullettare una parete”, confidava spesso a noi) e quindi per il momento abbandona ogni interesse per la salita.
L’iniziativa riprende qualche tempo dopo, questa volta insieme ad Agostino Bresciani e Mario Piotti. A loro spetta il lavoro pesante, la perforazione di quei 10 metri di parete liscia e compatta che porta al tetto finale. L’impresa ovviamente riesce, seguono due tiri più semplici e le cordate raggiungono la vetta. Hanno realizzato una via difficilissima, la più difficile delle Apuane.
A settembre l’attività riprende, perché è stata individuata un’altra possibilità, sempre sulla parete est, però decentrata alla sua estremità sinistra con partenza da un caratteristico triangolo roccioso. Anch’io partecipo per la prima volta all’iniziativa. Con Mario facciamo un primo sopralluogo, saliamo fin sulla cuspide dell’avancorpo triangolare ma con disappunto notiamo che i primi metri sono lisci e privi di fessure: anche qui sarà necessario bucare, anche qui Mario delega questo lavoro a dei semplici “manovali”, in questo caso il sottoscritto e Paolo Ponticelli. La settimana successiva infatti i due “operai” si portano in parete e iniziano l’antipatico lavoro. Al termine della giornata Paolo ed io, alternandoci nelle operazioni, riusciamo non solo a superare il primo tratto liscio, ma anche a salire sulla parte superiore più articolata e a giungere ad un punto di sosta. Effettuato questo primo intervento grezzo, ora può intervenire l’artista, cioè Mario. La domenica successiva siamo noi tre all’attacco della parete per finire l’opera. Stiamo per attaccare che ecco vediamo arrivare trafelato un alpinista. Chi potrà essere? Noi non abbiamo avvertito nessuno per la nostra salita. E’ Agostino Bresciani, che ci raggiunge e ci guarda senza dire nulla, ma con scritto in fronte: “Perché non mi invitate a salire con voi?” Mario lo legge perfettamente e siccome è un buono, lo invita. E così anche lui, pur non invitato, farà parte del gruppo. In quella stessa giornata, ed è il 26 novembre, completiamo la salita e giungiamo in vetta largamente in anticipo sull’arrivo delle tenebre. La via verrà chiamata Gabriela (con una elle sola, mi raccomando).
L’anno successivo, il 1968, riprende l’attività al Procinto. Di nuovo è Mario, questa volta assieme a Giovanni, che inaugura la stagione alpinistica aprendo un nuovo itinerario sulla parete nord. La via prenderà il nome di 25 Aprile, e anche in questo caso la salita risulterà di grande difficoltà. Quanto difficile rispetto alle altre? A questo punto si apriva il dibattito: dopo ampie discussioni e ascoltando il parere di tutti, si stabilì che la via presentava i passaggi obbligatori in libera più difficili di tutto il Procinto (e quindi delle Apuane).
A settembre si riparte per una nuova iniziativa, da realizzare sulla parete est, dove abbiamo intravisto una concreta possibilità, un itinerario ancora più diretto rispetto ai precedenti. Il primo assalto vede impegnati il sottoscritto, Mario e Valdo Verin. E’ opera di quest’ultimo, e gran merito, il superamento del bellissimo diedro del secondo tiro, a destra della Dolfi-Rulli. Avanziamo ancora un po’, poi scendiamo e torniamo a casa. La domenica successiva, l’8 settembre, Valdo non c’è, ma a noi si aggiunge, anche questa volta, l’Agostino. Dopo aver risalito il tratto già percorso, ora davanti a noi si apre la parte centrale della parete, quella che dal basso appare la più liscia e ostica, una lavagna scura apparentemente priva di fessure e articolazioni. Temiamo di dover ricorrere di nuovo all’antipatica operazione di perforazione. E invece, con grande sorpresa, la progressione riesce senza dover far uso dei chiodi a pressione. Arriviamo presto sulla cengia e questa volta prevediamo di superare il grande tetto sovrastante sulla sua estremità sinistra. Ora tocca a me progredire, e dopo una breve traversata a sinistra affronto la parete che inizia subito in leggero strapiombo. L’impegno è massimo, perché quel primo tratto si rivela particolarmente complicato, ma più in alto la via si lascia risalire con minori difficoltà. Quando arriviamo in vetta, ci rendiamo conto di aver aperto la più difficile e complessa via del Procinto, cui assegneremo il nome di Stefania. Tra l’altro questa via mi era così piaciuta che sono andato a ripeterla qualche mese dopo in prima invernale (come può esserlo al Procinto) e l’anno successivo in prima solitaria.
Anche il 1969 si apre con un nuovo tentativo. Questa volta l’iniziativa parte da me, e con Emilio Dei compio un primo tentativo. La via è individuata sulla parete nord, all’estremità destra, ben oltre l’attacco della via dei Ladri (già ripetuta l’anno precedente). In una mattinata quasi invernale salgo un tiro di corda, incontrando notevoli difficoltà, poi si mette a piovere e dobbiamo battere in ritirata. Torno la settimana seguente, il 23 marzo, questa volta con Valdo Verin e Giovanni. Il secondo tiro spetta al Bertini, che vede a sinistra uno strapiombo e ci si butta a capofitto. Lo supera e torna sulla verticale. Si ferma e ci fa venire su. Poi tocca a me che termino l’arrampicata con un altro tiro di corda. Infine usciamo sul bosco sommitale. In poche ore abbiamo superato un centinaio di metri di forti difficoltà. La via si chiamerà Orsini.
Nota: recentemente la via è stata richiodata a spit, con qualche variante e ha preso il nome di Una via per Andrea. Non ho niente da recriminare per tale iniziativa, purché si ricordi che si tratta di una ritracciatura di una via già aperta.
Pizzo d’Uccello
La parete del Pizzo deve avere esercitato un fascino particolare su Mario, tanto è vero che in pochi anni vi effettuerà una serie di prestigiose salite. Ancora giovanissimo, salirà con il fratello Valdo la classica via Oppio, poi la ripeterà in solitaria (inciso: la prima solitaria della via è opera del nostro Giancarlo Dolfi), quindi compirà la prima ripetizione della Biagi-Nerli in cordata con Antonio Pieri, poi di seguito la prima solitaria e la prima invernale. Era il suo campo, quello dell’arrampicata libera. Ovviamente non volle limitarsi alle ripetizioni, pur prestigiose, delle vie altrui, ma volle lasciare il proprio segno anche su questa parete.
Tutto cominciò nel 1967. Mi raccontava che durante la prima ripetizione della Biagi-Nerli, era rimasto spiacevolmente colpito da un tratto molto sfasciato e pericoloso nei primi tiri, prima di entrare nel grande colatoio centrale. Voleva trovare un’altra possibilità, più sicura e piacevole. In un’uggiosa giornata di primavera saliamo ai piedi della parete. Siamo in tre: Mario, Giovanni e il sottoscritto.
Superiamo i primi due tiri della Biagi, poi Mario cerca e trova una possibilità nuova, con un lungo traverso, più basso rispetto al tracciato originario, che aggira la fascia di roccia marcia e strapiombante, fino a raggiungere il sovrastante colatoio. Il traverso, costituito da due, tre tiri, è difficile ma su roccia buona. Sarà la via seguita nelle successive ripetizioni. Fra queste, la ripetizione che io e Mario effettuiamo nel luglio dello stesso anno, percorrendo la via nel tempo record, per una cordata, di quattro ore e¼ (record di quei tempi, beninteso).
Ma questo era solo un piccolo assaggio. Nel 1968 decidiamo di salire la parete nord per un itinerario nuovo. E’ con noi anche Giancarlo Dolfi. L’avventura comincia già nelle fasi iniziali: per non passare dal basso e poi dover tornare a riprendere la macchina con un lungo giro (ricordo che allora la ferrata non esisteva ancora), saliamo fino a Foce Siggioli e da qui iniziamo a scendere i ripidi pendii erbosi che precipitano fino alla base della parete. Già questo primo aperitivo non era male. Poi iniziamo a salire la parete proprio sotto la verticale calata dalla vetta, una linea diritta che punta al colatoio centrale. Il primo tiro supera una bellissima placca inclinata praticamente improteggibile (un solo chiodino…morale), poi la via prosegue per diedri e paretine verticali che conducono al colatoio centrale. Questo attacco costituirà, da allora, la seconda variante basale per salire la Biagi-Nerli. Ma l’obiettivo di giornata è un altro, perché lasciamo la direttiva di quest’ultima via e prendiamo a salire un’evidentissima rampa camino che ci porta in breve su di un ampio pendio erboso. Più in alto riprendiamo a salire verticalmente fin sotto ad un tratto verticale che si preannuncia difficile. Mario avanza sicuro, ma ad un tratto si mette ad imprecare: ha trovato un chiodo, qualcuno ci ha preceduto. E’ così incavolato che vorrebbe quasi tornare giù! Noi lo dissuadiamo e lo invitiamo a proseguire. Poi ognuno fa la sua parte ed arriviamo in cima.
L’anno successivo, ed è il 1969, siamo nuovamente alle prese con la parete nord, con la volontà di tracciare una via nuova: la direttissima, un percorso tutto nuovo tra la Oppio e la Biagi, che risalga il grande ed evidente camino posto a destra del pilastro terminale. Siamo in tre, io, Mario e Giovanni. Ognuno deciso questa volta a non farsi fregare, come successo l’anno precedente.
La partenza è quella classica della Oppio, ma già dopo il primo tiro Mario abbandona la facile fessura che porta all’inizio del traverso e sale su una liscia placconata. E’ già un inizio pesante, ma il meglio viene dopo, quando, giunti sulla cengia del traverso, Mario tira dritto per un diedro strapiombante molto difficile. Poi la salita prosegue con un lungo tratto facile che saliamo quasi di conserva. In tutto questo tratto ci alterniamo al comando. Più in alto arriviamo all’altezza della fessura diedrica della Oppio. Qui ci portiamo alla base del lungo camino che caratterizza la parte alta della parete. E’ da qui che inizia la parte più difficile e ardita della salita. Dopo aver superato vari muretti verticali di roccia liscia e talvolta di dubbia stabilità, solo nel tardo pomeriggio arriviamo sotto il tratto finale del camino, che ricordo essere costituito da roccia finalmente buona ma molto difficile, con passaggi atletici quasi strapiombanti. Credo che in quei tratti di camino si siano affrontati passaggi di difficoltà fino al 6a. Ho letto qualche tempo fa che durante la prima ripetizione della via, la cordata ha trovato sulla via degli spit. Se non li hanno messi loro, questo è un po’ un mistero, perché noi certamente, durante la prima, non li abbiamo messi, anche perché a quei tempi gli spit non esistevano. Ma non abbiamo messo neanche chiodi a pressione, avendo usato solo chiodi normali. A parte questo interessante interrogativo, la via tracciata prenderà il nome di “direttissima”, anche se nella Guida dei Monti d’Italia è erroneamente chiamata “via dei Fiorentini”.
A tale proposito non posso fare a meno di aprire una doverosa polemica circa le errate denominazioni di certe vie, dovute principalmente agli estensori delle guide. Risulta difficile comprendere le motivazioni con le quali un autore, seppur autorevole, possa arrogarsi il principio di assegnare il nome a certe vie piuttosto che ad altre, oltretutto di sua spontanea volontà e spesso in contraddizione con l’espressa volontà degli apritori. Clamoroso il caso della nostra via al Monte Contrario, di cui parlerò più avanti, che noi dedicammo alla memoria di Günther Messner e con tale nome fu comunicata in occasione della ristampa della nuova edizione della Guida dei Monti d’Italia. Anche in questo caso la via è stata denominata come “dei Fiorentini”. Il discorso si può estendere anche ad altre salite. Perché tutte le nostre vie si devono chiamare, se si vuole in maniera indistinta e quasi anonima, “via dei Fiorentini”? Naturalmente essere fiorentini non è un’offesa, ma si sa che gli alpinisti sono degli individualisti incalliti, e ci tengono al rispetto delle loro designazioni.
L’avventura al Pizzo non si ferma quell’anno. L’11 luglio 1971 siamo di nuovo impegnati su un altro percorso. Questa volta la cordata è formata dal sottoscritto, da Mario e da Paolo Ponticelli. La linea di salita è individuata non sulla parete del Pizzo vera e propria, ma sul contrafforte di sinistra, sotto la costiera di Capradossa. In poche ore riusciamo a risalire la parete con un percorso che si snoda inizialmente su delle belle placche, poi si ferma sotto una zona più verticale, supera un difficile diedrino strapiombante, prosegue su di un facile costone, fino a giungere al tratto finale ertissimo, sotto grandi tetti, che evita a sinistra con un difficile traverso. Prosegue poi in un ripido colatoio fino a raggiungere la sommità. Ne viene fuori una via in arrampicata libera abbastanza severa, con forti difficoltà concentrate in un paio di passaggi, e di una lunghezza di poco inferiore a quella della vicina parete nord.
Qui finisce la storia dell’epoca classica delle cordate fiorentine alla Nord del Pizzo, ma per quanto mi riguarda la storia è poi proseguita molti anni dopo con l’apertura di un nuovo percorso situato a destra (scendendo) della ferrata di Foce Siggioli, salita effettuata nell’ottobre del 1984 con Carlo Barbolini. Il percorso è di stampo classico, progressione su placche nella prima metà, poi risalita più atletica e delicata nella metà successiva, con slalom ardito tra cassettoni aggettanti, di dubbia stabilità. Come risalire una ripida seraccata, sì ma di roccia.
Monte Altissimo
L’Altissimo deve il suo nome ad un errore prospettico, a una falsa apparenza. Così infatti appare (altissimo appunto) ma solo se osservato dalle spiagge della Versilia. Naturalmente è un’illusione e i monti che lo circondano, alle sue spalle, sono ben più alti ma questo nulla toglie alla sua eleganza e maestosità, soprattutto per quella sua parete sud, illuminata dal sole e solcata da imponenti pilastri. Mi ero innamorato della sua vista già da bambino, quando lo osservavo da Forte dei Marmi, durante le vacanze estive, anche se niente sapevo di alpinismo. Questa passione, ovviamente, crebbe quando cominciai ad arrampicare. La consultazione della Guida delle Apuane mi sorprese non poco: nessuna via diretta solcava quella faccia sud, esistendo solo vie molto decentrate. Fu quindi naturale metterci le mani sopra.
Autunno 1970. Partiamo in due, il sottoscritto e Guido Canciani, soprannominato “l’istruttore volo”. Occorre premettere che io e Guido formavamo una cordata particolare, specializzata in spericolate arrampicate su roccia sfasciata, rotta e insicura. Il nostro terreno di allenamento era la cava di Maiano, dove avevamo tracciato percorsi da mentecatti, risalendo i tratti alti della parete dove questa va ad esaurirsi nel boschetto sovrastante, con salita su blocchi instabili e muretti sbriciolati. Approfittando del nostro scarso peso, della delicatezza nella progressione e di una bella dose d’incoscienza, avevamo immagazzinato una bella esperienza di tecnica di arrampicata su terreno insicuro. Questa esperienza ci fu utilissima sull’Altissimo, così come in altre salite apuane.
Tornando all’Altissimo, il nostro primo contatto fu vera avventura! Dall’inizio alla fine della giornata. Non ero mai stato in zona, quindi mi affidai a quanto riportato nella guida. Progettammo di salire da Seravezza, attraverso la strada che risale la valle del Serra. Per la discesa pensavamo di percorrere il sentiero del Vaso Tondo che ci avrebbe riportato alla macchina, semplice! Non fu così semplice. E’ il 28 ottobre 1970 e partiamo prestissimo da Firenze, nella previsione di un lungo impegno. Con l’auto (la mitica “500”) risaliamo tutta la strada di fondovalle e ci fermiamo nella cava più alta raggiungibile (allora si poteva). Attacco comodissimo, che ci aveva consentito di superare un notevole dislivello. Quando sorge il sole, stiamo salendo la marmifera che solca la parete per tutta la sua larghezza, ed in breve siamo all’attacco. Delusione! Ora che siamo sotto, i nostri pilastri non appaiano così pronunciati come ce li aspettavamo, e su tutto regna tanto paleo. Passato questo primo scoramento, decidiamo di salire il pilastro di sinistra. Non incontriamo particolari difficoltà, se non quelle derivanti dalla mediocre qualità della roccia, che ci impone la massima attenzione. Ma questo, come ho premesso all’inizio, era il nostro ambiente.
Arrivati in vetta, ci apprestiamo a scendere. Terreno sconosciuto. Percorriamo tutta la cresta est ed in breve arriviamo al Passo del Vaso Tondo. Da qui sappiamo che occorre scendere in direzione mare, ma con orrore osserviamo il ripido pendio d’erba che scende davanti a noi. Scendiamo con cautela, ma dopo poco il terreno migliora e anzi ci sorprende piacevolmente quando iniziamo il bellissimo sentiero scavato nella roccia, in piena parete, che ci riporta in direzione dell’attacco. Ci sentiamo finalmente tranquilli perché pensiamo di essere alla fine delle peripezie. Giusto in tempo, perché nel mentre è calata l’oscurità. Accendiamo le frontali e continuiamo verso il successivo tratto a noi ignoto. E qui inizia un nuovo stress. Perché ci ritroviamo improvvisamente davanti ad una situazione inaspettata: nel buio più assoluto vedo davanti a me uno strano ballatoio fatto di tavoloni di legno. Mi sporgo nel vuoto e la luce della frontale si perde in un vuoto stomachevole: siamo sospesi nel vuoto! Ci troviamo, senza saperlo, sul famoso sentiero “dei Tavoloni”, a quei tempi ancora efficiente. Siamo presi da un vago sconforto, ma è tardi ed occorre tirarsi fuori il più rapidamente possibile. Il percorso sembra abbastanza agevole, ma chi ci assicura della stabilità dell’insieme? Allora ritiriamo fuori dallo zaino corda, imbraco e attrezzi, ci leghiamo e, in cordata, facendoci sicura e mettendo le protezioni, percorriamo tutto il tratto. Alla fine anche questo imprevisto finisce e arriviamo sul sentiero delle cave.
Il sabato successivo, 3 novembre, siamo di nuovo in zona, perché vogliamo risalire il pilastro di centro, che ci era sembrato più bello. Naturalmente, reduci dall’esperienza precedente, vogliamo evitare quel ritorno così stressante, e quindi escogitiamo un altro approccio. Questa volta intendiamo raggiungere la marmifera da nord, salendo al Passo degli Uncini per poi scendere da questo, lato mare. Tutto fila liscio, ma quando scendiamo dal passo, per ripidi pendii, si sfiora la tragedia. Infatti Guido, che scende davanti a me, ad un tratto scivola e rotola giù. In una frazione di secondo mi rendo conto che è spacciato, a meno che non acchiappi al volo un esile alberello che sta sotto a lui, l’unico nella zona. Il suo angelo custode a questo punto ce la mette tutta, fa gli straordinari e Guido, come per miracolo, si aggrappa a quell’unico salvagente, prima della fine. Con molta calma Guido si rialza, come se niente fosse accaduto, e riprende a scendere. Raggiunta infine la marmifera, siamo di nuovo all’attacco dei pilastri. Da questa prospettiva non ci sembra semplice raggiungere il filo del pilastro centrale. Saliamo dritti al centro dell’invaso che ci sovrasta, poi con un delicato traverso discendente a destra arriviamo sotto il filo. Per raggiungerlo, salgo un difficile muro verticale e raggiunto lo spigolo faccio sosta. Quando Guido mi raggiunge, mi domanda “Ma come hai fatto?”. “Lascia correre, gli rispondo, guarda in alto e riparti”. E infatti sopra di noi i problemi non sembrano finiti. La roccia però è buona, e la salita prosegue su difficoltà classiche. L’unica preoccupazione che abbiamo è per il tempo, che minaccia di piovere. Per fortuna quella che arriva è una pioggerella sottilissima, quasi niente, che non ci ostacolerà la progressione. Quando raggiungiamo la vetta, ci possiamo permettere il più completo rilassamento, perché questa volta la discesa non può presentare alcun problema.
Purtroppo non posso accompagnare questa foto con altre immagini riguardanti le varie fasi di arrampicata, perché quel giorno non portai con me la macchina fotografica (fatal error!).
Posso solo aggiungere, dal punto di vista tecnico, che le difficoltà allora valutate si aggiravano sul III e IV grado, con alcuni passaggi di V. Ma come già accennato in precedenza, la valutazione potrebbe essere rivista al ribasso, in vista di una ripetizione effettuata con le moderne calzature. Per quanto riguarda la qualità della roccia, inutile dire che siamo in presenza della tipica qualità apuana… tradotto in linguaggio meno metaforico, si può affermare che la qualità della roccia non è delle migliori, trattandosi di marmi abbastanza fratturati, ma ricordo che non trovammo neanche una qualità pessima, a condizione di seguire esattamente il filo dello sperone, evitando assolutamente spostamenti laterali verso zone apparentemente più invitanti. Per quanto riguarda lo stato di chiodatura presente, non credo che sul percorso siano stati lasciati più di due o tre chiodi, per pura testimonianza. Mi sembra di ricordare inoltre che tutte le soste furono schiodate.
L’ultima notazione utile riguarda l’itinerario di avvicinamento, oggi semplificato da nuovi percorsi che allora non esistevano. In primo luogo oggi esiste un sentierino che dal Passo degli Uncini scende alla marmifera che solca tutta la parete sud, sentierino che consente un agevole accesso alla parete partendo dalla località Le Gobbie. Inoltre è stata migliorata e resa sicura la parte terminale della strada marmifera prima menzionata, che permette un più diretto approccio all’attacco dello sperone.
Monte Contrario
Salito il Pilastro centrale dell’Altissimo, la sera stessa raggiungiamo il rifugio Donegani, dove ci attende Paolo Ponticelli, lì giunto per unirsi a noi per il prossimo obiettivo, una via nuova sul Contrario. Il giorno seguente ci portiamo ai piedi della parete sud-ovest ed iniziamo a salire con l’intento di tracciare un percorso più diretto della via Bastrenta, che sfrutti la parte centrale della parete. Fatto un primo tratto in comune con la via esistente, iniziamo un traverso ascendente a sinistra che ci porta in breve sotto ad una fascia strapiombante il cui unico punto vulnerabile sembra essere costituito da un marcato diedro. Difatti il diedro rappresenta la soluzione migliore di salita. Tra l’altro mi capita di scoprire, non senza grande sorpresa, la prova evidente dell’esistenza di un precedente tentativo di salita, testimoniato dall’esistenza di una staffa abbandonata in un chiodo infisso in una fessura posta a dieci metri alla mia destra. La fessura però si era dimostrata inutilizzabile, perché aveva termine pochi centimetri sopra, con davanti una placca compatta apparentemente insuperabile. La qual cosa evidentemente aveva vanificato ogni ulteriore tentativo. Superato il diedro, la nostra salita riprende sulla verticale, per poi terminare su uno scomodo terrazzino inclinato dove inutilmente tento, senza successo, di piantare un chiodo. Dopo lunghe e infruttuose ricerche mi vedo costretto a piantare un chiodo a pressione. La salita poi prosegue verso destra e termina più in alto riprendendo l’uscita della Bastrenta. La via sarà dedicata a Günther Messner, fratello del più celebre Reinhold.
Monte Corchia
E’ il settembre 1970. In quel periodo sono in coppia fissa con il grande Guido Canciani. Dopo aver ripetuto tutte le vie classiche fino allora tracciate in quel settore, ci viene il desiderio di tracciarne una di nostra iniziativa. In particolare siamo attratti da quella bella torre che si erge a destra del pilastrino di Fociomboli, dove Mario Verin aveva a suo tempo tracciato un difficile itinerario. Mentre quest’ultima via risale la parete ovest, noi saliremo sul suo lato destro, orientato a sud. Ne verrà fuori una via breve ma di notevole difficoltà, resa più insidiosa dalla qualità della roccia di tipo “apuanico”, come si dice, e basta la parola.
Qualche anno più tardi, il 4 giugno 1972, ritorno al Corchia, questa volta con Giovanni Breschi. La meta è costituita dal terzo torrione. E’ il torrione più piccolo, ma è anche quello con la roccia migliore. Affascinato da quelle sue placche di calcare chiaro, quasi bianco, decido di salirle per un nuovo itinerario. Ricordo che avanzando sulla grande placca, trovai sempre più difficoltà nel poter piantare un qualche chiodo di protezione. Alla fine dovetti salire con l’ultima protezione oramai lontana, affidandomi totalmente all’aderenza degli scarponi. Oggi su quell’ultimo tratto, prima di arrivare alla sosta, c’è uno spit. Ovviamente non è mio, ma messo in epoca successiva. Dopo la sosta mi detti parecchio da fare per superare lo strapiombo sovrastante. Finalmente riuscii a trovare il posto per un chiodo, il che mi rese più tranquilla la successiva progressione. Alla fine trovai la soluzione salendo a sinistra su buone prese. Via breve, ma divertente.
Pania della Croce
Era il capodanno del 1968 e un allegro gruppetto di fiorentini stava trascorrendo le feste natalizie al rifugio Del Freo. In quei giorni compimmo diverse ascensioni, fra cui la salita invernale della via Città di Carrara, probabilmente con l’apertura di una bella variante finale. La vacanza stava finendo, ma volevamo terminarla con un’altra salita degna di nota. Individuammo una linea sulla parete sud-ovest dalla Pania, proprio quella che potevamo contemplare dalle finestre del rifugio. Così io e Umberto Ghiandi, nella fredda mattina del primo dell’anno 1969, ci incamminammo verso la parete. La giornata era bellissima, ma sfortunatamente battuta da un forte vento gelido che ci martellò per tutta la salita, facendoci patire le pene dell’inferno. La via si rivelò un interessante tracciato di neve e di misto, con dei bei passaggi di roccia, che valutammo fino al V grado. Naturalmente le nostre piccozze erano di tipo antiquato e nei tratti più impegnativi non ci furono di aiuto. La via comunque risultò interessante, e prese il nome di Giulietta.
Questa salita ha rappresentato, per l’epoca, una certa innovazione nel campo delle salite invernali sulle Alpi Apuane. Il percorso scelto infatti non voleva essere, nelle nostre intenzioni, né tipicamente ed omogeneamente «nevoso», né prevalentemente roccioso. In sostanza andammo a cercare un itinerario che, pur utilizzando il più possibile tratti nevosi, fosse altresì costretto a superare tratti rocciosi non banali.
Sotto questo punto di vista la salita raggiunse lo scopo prefissato, anche se risultò alla fine più difficile nei tratti rocciosi rispetto a quelli nevosi.
Per una valutazione delle difficoltà, anche in questo caso occorre sospendere ogni valutazione alla luce di una eventuale ripetizione effettuata con le attuali attrezzature alpinistiche, in primo luogo con le moderne piccozze. L’utilizzo di questi strumenti potrebbe portare ad un ridimensionamento delle difficoltà (allora valutate in passaggi di roccia fino al V grado) attraverso lo stravolgimento dello stesso itinerario di salita che potrebbe privilegiare, in virtù della progressione in piolet–traction, tratti innevati e ghiacciati, evitando il più possibile i salti rocciosi.
Pizzo delle Saette
Quando, da ragazzo, sfogliavo la Guida delle Apuane (Collana Monti d’Italia ed. 1958) mi sorpresi non poco osservando che la parete nord del Pizzo delle Saette era priva d’itinerari alpinistici di salita. O meglio, non vi era segnato alcun itinerario, se non quello dei fratelli Ceragioli, in verità molto defilato a sinistra. Però stranamente si faceva cenno a presumibili difficoltà di II e III grado, presupponendo perciò una qualche via di salita. Ovviamente la faccenda mi incuriosì molto e con alcuni amici decidemmo di salirla, naturalmente in condizioni invernali. Un primo assaggio (impossibile definirlo un tentativo) lo facemmo durante una ingrata giornata invernale del 1969. Eravamo in quattro, con me c’erano Paolo Ponticelli, Umberto Ghiandi e Guido Canciani. Salimmo la conoide centrale per un centinaio di metri, tanto per renderci conto delle possibilità di salita lungo il primo tratto. Poi, tornati a casa, attendemmo inutilmente le condizioni migliori di innevamento, il che ci portò all’inverno del 1971.
Il 6 febbraio Paolo e Valerio Campioni, da soli, ripercorrono il pezzo già salito in precedenza e continuano per altri 50 metri in verticale, poi ridiscendono rientrando al Rifugio, dopo aver lasciato un pezzo di cordino nel tratto più impegnativo. Il giorno seguente, domenica 7 febbraio, io e Guido Canciani li raggiungiamo e tutti insieme risaliamo i ripidi pendii sovrastanti. La notte ci sorprende mentre siamo ancora sulla parete, davanti al tratto più difficile, costituito da una fascia rocciosa ricoperta da un sottile strato di ghiaccio.
Facile sarebbe stato oggi con le picche moderne, ma allora ci si dovette arrangiare con le Grivel, non molto tecniche per la verità, affidandosi in pratica solo sulla tenuta della punta dei ramponi. Usciamo in vetta verso le 10 di sera, e solo allora chi ci stava attendendo al rifugio, alla vista della luce delle nostre frontali, ha la certezza che tutto è andato per il meglio. La via, intitolata a Vasco di Cocco, può considerarsi una grande classica invernale, con un dislivello di 500 mt. e con pendenze fino a 6V. L’unico rimpianto è di non essere riusciti a salire dritti nella parte alta, uscendo direttamente sulla cima. Questa soluzione mi riuscirà solo molti anni dopo, con Mauro Rontini e Franco Falai, con un percorso ideale, tutto al centro della parete, dalla base alla vetta.
Nel 1972 compio, con Paolo Ponticelli e Carla Berardi, un altro tentativo di salita della Nord del Pizzo delle Saette, con l’intento di risalire uno stretto canale che conduce direttamente alla croce di Petronio (forse si tratta del canale di Vetriceto), ma la giornata è calda, troppo calda (siamo alla fine di marzo) e con un certo intuito evitiamo di entrare nel canale, risalendo il ripido terreno misto posto alla destra del canale. Felice intuizione, perché dopo qualche ora un’enorme slavina di neve marcia spazza tutto il canale. Fossimo stati lì dentro, non avremmo avuto scampo. Ripresi dallo spavento, continuiamo la salita e arriviamo ad un meraviglioso lenzuolo di neve dura che ci porterà alla croce di Petronio, e da lì alla vetta.
Il viaggio nel passato è finito. Spero non vi siate annoiati. Se invece avete provato tedio e stanchezza, o peggio ancora disgusto, me ne scuso sinceramente. Ma non temete, perché è roba di mezzo secolo fa. Non tornerà più.
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Altro che noia…al Contrario! racconti piacevoli e avvinghianti tanto che sembra d’ esser la’ a farvi sicura.
Si Gianfranco, ho letto il libro di Andrea, me ne ha regalato una copia con tanto di dedica. Lui potrebbe scrivere qualcosa di bello su Claudio Ratti. Sarebbe importante perché Ratti è stato un grande protagonista.
Sicuramente ci riuscirebbe bene bene Marchetti, ho letto il suo libro-racconto intitolato “oltre la luccica” . Non so se lo conosci, parla di quel gruppetto di ragazzi (noi ) crsciuti alpinisticame sotto la sua super visione ,scrive veramente bene
Appunto, quando è che scrivi un bel racconto storico su Claudio Ratti?
Se lo meriterebbe!!
Ciao Alberto, sappi che da grande volevo diventare un peccatore come te ,comunque sto bene e scalo ancora, ho le scarpette della sportiva ,sulla variante, è bella domanda, premetto che io ho sempre fatto l’originale ,e sapevo di un traverso dei fiorentini che però allungava l’entrata alla Biagi Nerli. Ma magari mi sbaglio, sai l’età . Invece ricordo bene poi le vie aperte da Ratti-Guadagni, Ratti-Marchetti ecc.tanto per ricordare anche i carrarini ???? Un abbraccio
Per quanto mi riguarda ho iniziato a scalare con gli scarponi della Dolomite e l’ho fatto per diversi anni, comprati all’Hobby Sport a Viareggio, negozio che non c’è più.
Un bel viaggio davvero, grazie ai fiorentini. E anche Verin, alla fine, preso nel giusto modo, non è poi un caratteraccio…Bello il ricordo degli scarponi rigidi, io usavo un modello della Dolomite mi pare, chiamato “Guida”
Caro Ganfranco come stai?
Di puro non c’è nulla e nessuno, tanto meno io. Siamo tutti peccatori.
Te forse avresti da dire qualcosa sulla variante diretta alla Biagi-Nerli, mi hanno raccontato che qualche carrarino, forse…., ci aveva già pensato o provato????
Sti Fiorentini…..bella la “cosa” che si chiamano tutte vie dei fiorentini ,anche alla torre di monzone nacque la via dei fiorentini, ecc. P. S . Il Benassi verrà ricordato per colui che ha portato avanti l’etica dell’alpinismo , intesa come espressione di puro il più possibile ????
Ti ringrazio della considerazione Fabio, se proprio ne dovranno parlare, sia il più tardi possibile. Anche se tra 20 o 30 anni le Apuane ci saranno sempre….??
Scherzi a parte, il fiorentino Leandro Benincasi è stato un vero protagonista dell’alpinismo apuano, che si è espresso ai massimi livelli su tutti i terreni. Autore di belle e difficile vie, da quelle di roccia a quelle invernali di misto. Oltre ad avere una attività alpinistica di alto livello su tutto l’arco alpino dalle occidentali alle Dolomiti.
@ 3
Ti rendi conto che, nelle prossime puntate della storia dell’alpinismo sulle Alpi Apuane, si parlerà anche di un “certo” Alberto Benassi?
Spero per te che passino almeno venti o trent’anni!
Bello sguardo storico sull’alpinismo toscano degli anni 60 e 70, scritto da uno dei protagonisti.
Pur non avendo mai amato le Apuane (ma questo è un problema mio) concordo sulla bravura arrampicatoria di Mario Verin, di cui ho sempre apprezzato anche il caratteraccio.
Grazie per l’articolo.
La storia dell’alpinismo – piccolo o grande che sia – mi avvince sempre.