Black box

Black box, resoconto di una scalata futuribile
di Giuseppe Popi Miotti

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I bollettini non lasciavano dubbi: bello stabile per dieci giorni, temperature fra i 18,22 e i 23,6 gradi. Ieri le sei ore e venticinque minuti di leggera brezza da sud-est dalle 12.10 alle 18.15 sono state rispettate al secondo anche se è un caso: di solito ci sono scarti anche superiori al minuto. Le previsioni del tempo sono ancora ben lungi dalla precisione, ma vien da chiedersi come facevano gli alpinisti del passato quando i bollettini meteo o non c’erano o erano più che altro un terno al Lotto.

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Dopo una notte tranquilla nel sacco a pelo auto riscaldante della Mountainsoft, ho fatto una parca colazione e ho attaccato la vertiginosa parete del Prisma Eterno.

La muraglia, alta più di 2700 metri, appare all’occhio come una struttura quasi aliena; è un immenso parallelepipedo grigio scuro, composto da un coacervo di stratificazioni orogenetiche ove gigantesche bande di calcari e scisti che si sbriciolano al solo sguardo, intercalano fasce di granito e di gneiss compattissime, sulle quali solo le più raffinate tecniche di arrampicata artificiale consentono la progressione, seppur precaria.

Questa mostruosa struttura emerse durante la “Terza guerra patagonica”, dopo che una serie di intensi bombardamenti nucleari aveva sciolto la spessa coltre glaciale dello Hielo Continental e strappato la copertura granitica al Cerro Fitz Roy, mettendo a nudo il Prisma. La parte superiore è solcata da cascate d’acqua che sono spesso gelate e creano ulteriori problemi allo scalatore. Quando è caldo si devono affrontare difficilissimi passaggi su roccia fradicia e leggermente strapiombante, quando è freddo si deve porre mano a piccozze e ramponi, agganciati a patine di giaccio dello spessore di pochi millimetri e quasi improteggibili.

E’ nella memoria di tutti la sfortunata impresa dei due che tentarono la prima ripetizione. Un persistente freddo aveva permesso ai flussi ghiacciati di prolungarsi moltissimo verso il basso e gli scalatori, rinunciando alla ritirata, anzi, parendo loro un’occasione propizia, si avventurarono lungo di essi per ben 23 improbabili lunghezze di corda. Quando, al sedicesimo giorno di fatiche, erano quasi in cima all’ultimo verticale tiro e sentivano di aver vinto la loro scommessa, un repentino cambio delle temperature sciolse la sottile patina cui erano aggrappati con le inevitabili conseguenze. La “Via del lungo addio” è stata la prima a essere stata aperta sulla parete e si sviluppa per 65 lunghezze di corda con difficoltà minime di IX grado e A6+/GR/GRM+; senza contare le famose cascate di ghiaccio terminali: 90° continui per centinaia di metri. L’ambizione di compierne la terza ripetizione mi rodeva da mesi e mesi e aveva raggiunto livelli insopportabili, al punto che, non trovando compagni, dopo non poche titubanze mi ero deciso di tentare in solitaria. Ero ben allenato ed equipaggiato, ma ero anche spaventato a morte e per tranquillizzarmi almeno un poco, mi ero imposto di rischiare il meno possibile, mettendo in conto anche la ritirata al minimo segno di cedimento mio o del tempo. La sera, ai piedi del monolite avevo nuovamente passato in rassegna le attrezzature. Le scatole nere, preziosa invenzione che segnala ogni tipo di condizione potenzialmente pericolosa nei materiali, dicevano che tutto era a posto: usura delle pedule 0,5%, resistenza della lega di nut e friend 99,99%, fettucce e cordini al 95%, corde al 100% e così pure l’imbragatura; lo stesso valeva per piccozze, ramponi e chiodi; così almeno pareva.

Avevo dunque attaccato sereno, seguito dall’amico ronzio del drone di controllo che riprendeva ogni mia mossa rimandando le immagini al Centro di Coordinamento del Soccorso alpino, un’avveniristica struttura che, grazie a decine di migliaia di antenne, telecamere e processori, controlla le mosse di tutti gli alpinisti e gli escursionisti.

Si è inoltre deciso che il sistema CCSA+drone sarà messo a disposizione anche dei cercatori di funghi e dei cacciatori, portando la copertura di sicurezza al massimo oggi possibile. Al secondo giorno di scalata avevo già guadagnato circa duecento metri di dislivello. Dopo le micro fessure dei “Capelli d’Angelo”, dove avevo dovuto sfoggiare tutta l’audacia e l’abilità di artificialista estremo, mi ero avventurato lungo la “Fessura pulsante”, una spaccatura liscia, muschiosa e ‘off-width’ che solca la parete strapiombante per 110 metri. In pratica si tratta di una specie di camino-fessura svasato dove il corpo non può entrare del tutto, ma che, al tempo stesso, è troppo largo per poter incastrare la spalla. Il nome della fessura riporta all’ansimare e al batticuore che scatena la sua salita. Sulla microscopica cengia spiovente al termine di questo allucinante passaggio, recuperati i grossi sacchi con l’attrezzatura, acqua e i viveri per 20 giorni, avevo iniziato il lunghissimo “Traverso delle sfoglie”. Come avrete forse intuito si tratta di una traversata che percorre verso sinistra, in leggera salita, una delle tante stratificazioni della parete. In questo caso si scala lungo una nera banda di Scisti del Devoniano, talmente friabili e sottili che sembrano proprio gli strati di una sfoglia di pasticceria. Complessivamente la traversata si sviluppa per 10 lunghezze di estrema difficoltà e delicatezza: inoltre, cosa assai spiacevole, al suo termine si sono guadagnati solo 22 metri di dislivello. I punti di sosta sono più teorici che reali; i chiodi, infatti, tengono un po’ solo grazie al fatto che sono infilati nelle stratificazioni orizzontali, ma la pietra è talmente tenera che entrano (ed escono) usando la sola forza delle mani. Appigli e appoggi sono spioventi e spesso coperti da un velo di umidità che trasuda dalle pieghe della roccia: il superamento di questo tratto costituisce solo il primo dei purtroppo numerosi punti chiave della salita, oltre a essere un passo di non ritorno. Sotto i piedi dello scalatore la parete rientra di molti metri formando una sorta di enorme concavità talmente estesa che per tornare a toccare la roccia occorrerebbe una calata unica di 320 metri. Ero alla terza lunghezza di questo traverso marcio e precario; l’ultimo chiodo, un rurp messo male, era a 25 metri da me quando, con sibilo acuto e sgradevole, la “Scatola Nera delle fibre sintetiche” mi avvertiva che la corda aveva raggiunto un’usura del 42% (limite di sicurezza superato), l’imbrago aveva 4 punti di debolezza nelle cuciture, i 3 rinvii a disposizione erano inutilizzabili.

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Pochi minuti dopo si è fatta sentire anche la “Scatola Nera dei metalli non acciaiosi” avvertendo un problema nelle camme dell’unico friend che sarebbe andato bene nella fessura che avevo faticosamente raggiunto. Mi sono guardato attorno smarrito. Ma come? Ieri le Scatole Nere dicevano che tutto era in ordine! Che stava succedendo? Per fortuna – avevo pensato – il localizzatore GPS inserito in ogni Scatola Nera e anche la nuova App del Soccorso alpino per smart phone GeoRef, avrebbero consentito di attivare l’allarme ed in breve questa avventura si sarebbe conclusa felicemente.

Per maggiore sicurezza mi ero anche appena fatto iniettare sotto pelle il nuovissimo microchip ‘ultima chance3′ e poi potevo contare anche sul fidato drone di sorveglianza globale: ero in una botte di ferro. In ogni caso era meglio dare retta alla tecnologia e arrestare la salita. Inizialmente avevo pensato di calarmi lungo la concavità sotto i miei piedi usando il cordino di kevlar da 400 metri che avevo portato in emergenza, ma anche per il kevlar i segnali della Scatola Nera indicavano problemi: non avrebbe retto uno sforzo oltre misura. Dunque non c’era altro da fare che trovare un posticino comodo il più possibile e attendere. Trovata una posizione sopportabile, avevo immediatamente pensato di avvertire casa che tutto era a posto, ma sfortunatamente, cercando di sistemarmi al meglio in attesa dei soccorsi, un movimento brusco mi aveva fatto perdere il telefono. Tuttavia, come ben sapete, se la posizione di uno scalatore rimane inalterata per oltre 30 minuti, il dispositivo di soccorso viene immediatamente attivato dai sensori sparsi un po’ ovunque nelle attrezzature, a meno che non siano resettati grazie a un mini trasmettitore che riporta la conta del tempo di sosta a zero. In questo caso non mi restava altro che far trascorrere pochi minuti e ben presto sarei stato recuperato. In quel momento anche la Scatola Nera del drone ha cominciato a segnalare qualche disturbo al velivolo. Che diavolo poteva esserci? Aveva un’autonomia garantita di tre giorni e a mio parere c’era ancora tempo per sostituire le batterie. Comunque, per precauzione l’avevo richiamato e una volta afferratolo gli avevo dato una rapida verifica, trovando conferma che se problema c’era non era legato all’esaurimento energetico. Non riscontrando altri difetti l’avevo fatto ripartire, sebbene la Scatola Nera continuasse a suggerirmi che non era il caso; il marchingegno aveva finalmente individuato il problema e, a suo dire, il perno di un rotore stava indebolendosi a vista d’occhio. Tornato a librarsi alla mia altezza il drone aveva però ripreso la sua posizione, fissandomi con l’inquietante occhio sferico e vacuo della sua telecamera. Avevo appena finito di pensare che una volta tanto la tecnologia stava mostrando i suoi limiti che, con un sibilo sferzante, sono stato pericolosamente sfiorato da una delle eliche staccatasi in seguito al cedimento del famoso perno, come predetto dalla Scatola Nera. Dannazione – avevo pensato – sarebbe il colmo lasciarci la pelle a causa di un aggeggio che dovrebbe garantire la sicurezza. Che avrebbero scritto sulla mia lapide? Forse… «Sfuggito alle insidie dell’alpe, a cadute di pietre e a valanghe, vincitore delle più impervie pareti, saliva fra gli Eccelsi colpito da un’elica assassina.» Che vergogna! Comunque sarebbe stata una morte meno vergognosa di quella di quel tale di cui lessi l’epigrafe tempo fa. Sicuramente apparteneva a quello sparuto gruppo di scalatori che, elevandosi a depositari di ancestrali etiche, propugnavano l’abbandono di qualsiasi tecnologia di sicurezza in montagna, comprese le più elementari, come il telefono cellulare o il cosiddetto ARTVA, da usarsi d’inverno e ancora oggi quasi insostituibile, a ben centovent’anni dalla sua invenzione. Appeso alla mia sosta in attesa dei soccorsi ero tornato con la mente a qualche anno prima, quando in una giornata livida, ancora solcata dai lampi post atomici, ero salito fra i torrioni ormai cadenti delle Grigne. Aggirandomi fra i calcari, cercavo invano qualche profilo noto. La Guglia Angelina? il Sigaro Dones? l’Ago Teresita? Nulla, nulla; le rocce erano annerite… vetrificate… cambiate anche nei colori. Fra il pietrame emergevano i frammenti, a volte leggibili, delle centinaia di lapidi che, in una macabra collana divenuta folklore, decoravano un tempo le basi dei torrioni. Fra due blocchi più grossi ne avevo scorto una delle più recenti, forse messa pochi giorni prima della catastrofe. Mancavano alcune parti, ma si decifrava benissimo. Diceva: «Emilio C… 2002-2025. Non aveva la Scatola Nera, l’App del Soccorso alpino, il telefono cellulare, il Microchip ‘ultima chance’. E’ MORTO DA UOMO LIBERO!».

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Pazzo rivoluzionario! – avevo pensato – e pazzi esaltati i suoi amici che lo celebravano come un eroe martire. Per fortuna, dopo il Conflitto, con l’instaurazione del nuovo Governo globale, gente come quel tal Emilio C… era quasi scomparsa, grazie ai severi controlli della WMP (World Mountain Police) che imponevano il rispetto delle normative sulla sicurezza. Chiunque affrontasse una gita o una scalata doveva possedere almeno sei apparati di localizzazione e comunicazione, doveva disporre di materiali certificati e testati dal GMTDC (Global Mountain Tools and Devices Commitee) rinnovati annualmente o sottoposti a verifica periodica, avere il certificato medico settimanale e copia dell’elettrocardiogramma giornaliero. Comunque, devo ammetterlo, le pur farneticanti teorie di quegli estremisti mi affascinavano.

Immerso in queste elucubrazioni e sottilmente irretito dal conflitto etico che nonostante tutto mi tormentava facendomi sentire come Jeckill e Hide, non mi ero accorto che l’efficiente macchina dei soccorsi si era messa in moto e mi aveva raggiunto. Alle mie spalle quello che si stava avvicinando non era un drone, ma il più moderno velivolo di soccorso mai visto sui monti. E adesso finalmente lascerò questa ributtante parete nera. Ora che la salvezza è vicina guardo con terrore ciò che mi circonda e non riesco a trattenere un brivido. Come ho potuto pensare di sfidare il Prisma Eterno? Vedo velivolo fermarsi sopra la mia testa e poco dopo un lucente verricello con tanto di soccorritore mi viene calato dall’alto. Lentamente l’uomo mi raggiunge e con abili manovre mi aggancia alla salvezza. Non resta che risalire verso la carlinga. Il vuoto si fa ancor più assoluto e fra lo speranzoso ed il fatalistico guardo verso l’alto il sottile filo d’argento che si assottiglia fino a scomparire nel velivolo. Un piccolo strattone ed eccoci proiettati lontani dalla muraglia rocciosa per iniziare la lenta ascesa. Ad un tratto la Scatola Nera del mio “angelo” sbraita. Ho un groppo alla gola, ma lui mi tranquillizza dicendo che il cavo ha ancora due calate di margine e non corriamo pericoli.

Finalmente entro nella spaziosa cabina del nuovo elicottero del Soccorso alpino, un quadrirotore a sei turbine dotato di ogni strumento di sicurezza. Due medici e un’infermiera si prodigano somministrandomi un calmante e controllando i miei dati vitali. Tutto sembra OK e mi sto rilassando quando con un sibilo la scatola nera collegata ai rotori indica un malfunzionamento futuro possibile. Il pilota si consulta e poi, sereno, ci relaziona sui fatti: una pala del rotore posteriore di destra dovrebbe cedere fra sei gironi esatti, ma per ora gira a meraviglia. Non ha finito di parlare che parte anche la Scatola Nera di una turbina e poi, in uno stonato coro, ululano almeno altre dieci Scatole Nere. La meno preoccupante è quella della suola di una scarpa dell’infermiera che sta raggiungendo l’usura massima consentita dalle norme CEE. Ognuno passa all’azione per verificare la veridicità delle segnalazioni e il grado di pericolosità possibile poi, dopo lunghi minuti di suspense, ogni aggeggio cessa il suo canto, riportando un po’ di pace nella cabina. Ora è tutto finito: posso volare sicuro verso casa dove racconterò della mia incredibile avventura. Ma… che succede? Questo gracchiare è diverso dagli altri suoni emessi dalle Scatole Nere. E’ inconfondibile. Ci guardiamo tutti smarriti: la SCATOLA NERA delle Scatole Nere annuncia che fra pochi secondi tutte le sue “dipendenti” e poi anche lei si spegneranno causa l’usura dei circuiti 45rt128/xcv e 763/11Lw…

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Black box ultima modifica: 2015-03-01T06:09:23+01:00 da GognaBlog

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2 pensieri su “Black box”

  1. “probabile futuro”…..bella roba!!! se questo sarà il futuro, allpora sono contento di essere stagionato e di avere vissuto un alpinismo di “ricerca”….

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