Cambiamento climatico – non solo – e alpinismo

Cambiamento climatico – non solo – e alpinismo
di Roberto Valenti
(pubblicato su Alpinismo triestino n. 183 –agosto/settembre 2022)

Tutti lo percepiamo, attorno a noi qualcosa sta cambiando. Il “cambiamento” in natura è ineludibile e fa parte di quelle dinamiche inarrestabili che da sempre coinvolgono gli organismi viventi (fattori biotici) e le componenti non viventi (fattori abiotici) del nostro pianeta. Tutto è in continuo movimento dinamico ed è facile comprendere che, senza la lenta deriva dei continenti, non esisterebbero le montagne e senza la loro progressiva disgregazione non esisterebbero importanti espressioni morfologiche come le pianure e le spiagge. La stessa storia del genere Homo attraverso le glaciazioni del Quaternario, fa comprendere come ci siamo sempre adattati al costante e lento cambiamento delle condizioni ambientali.

L’immagine mostra la Mer de Glace, un ghiacciaio del Monte Bianco. L’immagine a sinistra è stata scattata nell’agosto del 1919, quella destra nell’agosto del 2019 (Foto: Walter Mittelholzer, ETH-Bibliothek Zürich & Dr Kieran Baxter, Università di Dundee).

Nell’arco della nostra vita, siamo testimoni di una ristretta frazione della complessa storia della Terra e spesso l’Uomo, in una visione strettamente antropocentrica di ciò che lo circonda, si affeziona ad un “optimum”, caratterizzato da condizioni favorevoli alle proprie esigenze e interessi che viene assunto a parametro di riferimento. La destabilizzazione di questo “optimum” che ci sta travolgendo è oggi strettamente legata ai comportamenti umani causa del “global warming” e alla conseguente alterazione climatica degli ultimi decenni. Il riscaldamento globale è oggi il problema centrale per la nostra specie e va affrontato e contrastato con decisione a tutti i livelli. Nel contempo va presa coscienza che dobbiamo adattarci al cambiamento, rivedendo stili di vita, abitudini e obiettivi e questo vale anche nel nostro terreno di gioco e avventura: la Montagna e l’Alpinismo.

Il crollo del seracco sulla Marmolada in quella triste domenica del 3 luglio 2022 che ricorderemo come una delle giornate più tragiche della storia dell’alpinismo sulle Alpi, offre lo spunto per riflettere su quanto sta accadendo e su come saremo costretti in futuro a ripensare il nostro andare in montagna. Questo evento, si aggiunge a numerosi altri eventi recenti o di un passato non troppo lontano, dove le cronache riportano crolli di grandi masse di ghiaccio, frane su famose pareti rocciose, collasso di guglie e pinnacoli dolomitici e non solo, esondazioni di fiumi e altre catastrofi che ci ricordano costantemente che la terra è viva e in dinamica inarrestabile evoluzione.

Riporto di seguito alcune osservazioni personali, fatte in oltre quarant’anni di attività alpinistica nelle Alpi e montagne extraeuropee, che mi hanno aiutato a maturare, spesso a mie spese, e a comprendere quanto da alpinisti e non solo, oggi stiamo vivendo.

Un primo ricordo sfumato dal tempo, risale al 1976, un’annata dall’innevamento eccezionale. Di rientro dal giro delle Bocchette del Brenta, durante un campo estivo della Parrocchia di Servola, facciamo una puntata alla Regina delle Dolomiti, la Marmolada. Per toccare il ghiacciaio e poco più, saliamo con la storica “bidonvia” dal Lago Fedaia al Pian dei Fiacconi, dove la piccola stazione di arrivo, la ricordo abbarbicata su un sperone roccioso a poche decine di metri dal ghiacciaio.

La vera iniziazione al ghiaccio, la ricevo nel 1980, calzando per la prima volta i ramponi sul piccolo ghiacciaio Occidentale del Montasio, dove in un ambiente che mi appariva “grandioso”, andammo a curiosare fino alla grande crepaccia terminale all’attacco della Diretta Kugy alla parete nord. Negli anni successivi, documenterò fotograficamente e assisterò alla progressiva contrazione dei ghiacciai del Montasio e del Monte Canin, relitti glaciali delle Alpi Giulie Occidentali.

Gli orizzonti si allargano e poco più che ventenne, nel 1985, arrivati al campo base della Laguna Carhuacocha nella Cordillera Huayhuash in Perù, rimaniamo stupiti davanti alla quasi totale scomparsa dello scivolo di ghiaccio della via salita da Messner nel 1969 alla parete est dello Yerupaja 6632 m, meta del nostro viaggio e in quelle condizioni assolutamente impercorribile. Ricordo ancora i boati nella notte dei continui crolli sulla seraccata di accesso alla parete. Ripiegheremo a vista su altri obiettivi, meno prestigiosi ma comunque formativi, per questa nostra prima esperienza extraeuropea. Il cambiamento climatico non era ancora alla ribalta delle cronache ma sicuramente quel giorno abbiamo avuto, inconsapevolmente, la percezione che qualcosa stava cambiando. La rubrichiamo come una problematica locale legata alla latitudine elevata e all’esposizione est del versante.

Ritornando alle Alpi e alle Dolomiti, nell’agosto del 1986, salendo il Diedro Philipp-Flamm alla parete nord-ovest del Civetta, sentivo le continue scariche di sassi che scendevano da quel che un tempo era il piccolo ghiacciaio pensile del Cristallo, incastonato nella grande parete. Ricordavo le immagini ed i racconti delle grandi salite narrate sul libro La grande Civetta di Alfonso Bernardi. Il cambiamento negli ultimi decenni e la progressiva contrazione del Cristallo, era evidente.

Costretto alle ferie agostane, nel 1987 mi trovavo in un tardo pomeriggio nelle piazzole da bivacco sulla morena adiacente alla slanciata parete ovest del Petit Dru, nel gruppo del Monte Bianco, dove il mattino seguente avremmo dovuto salire l’estetica Diretta americana, divenuta famosa per la sua splendida arrampicata. La scelta del punto di bivacco era stata affidata semplicemente alla consuetudine — tutti hanno sempre dormito qui, sulla cresta della morena e non mi risulta sia mai successo niente… – e non a valutazioni oggettive sullo zero termico di quella giornata o sulle condizioni della parete soprastante che ci sembrava sufficientemente lontana. Vediamo delle cordate scendere in corda doppia lungo la via che spesso, in un’ottica più sportiva che alpinistica, viene affrontata fino al “Bloc coincé”, evitando la cima e la discesa per la via normale che richiederebbero un’attrezzatura da ghiaccio completa. Una cordata arriva alla base, attraversa circa un centinaio di metri di ghiacciaio e ci raggiunge all’apparentemente sicuro luogo di bivacco, dove noi oziavamo in mutande a prendere il sole. Un tremendo e sordo boato sconvolge la quiete del momento. Guardo verso l’alto. Vedo una grande frana precipitare dalla parte alta della parete. La percezione del pericolo è immediata. Inizio a correre scalzo sulla morena per allontanarmi il più possibile. È inutile, i massi stanno già impattando al suolo tutto attorno e anche molti metri oltre a me. L’adrenalina è alle stelle. Affidandomi all’istinto, trovo illusorio riparo dietro ad un blocco. Sento grida e tonfi dei massi tutt’attorno. Credo sia la fine e irrazionalmente mi sento attratto dal guardare verso l’alto la pioggia di massi che rimbalzando si frantumavano e piombavano addosso. La scena era simile al prologo dei titoli di Star Wars, con i meteoriti in rotta di collisione con il Millennium Falcon, la famosa astronave guidata dal comandante Han Solo. Trascorsi un paio di interminabili minuti ritorna il silenzio e solo allora ci contiamo e ci rendiamo conto che gli alpinisti che si trovavano alla base della parete o nell’attraversamento del ghiacciaio, non erano più con noi. Ancora una volta eravamo rimasti traditi dalla nostra inesperienza. Avevamo consultato il meteo di Chamonix che garantiva “beau temps”. Purtroppo non avevamo colto il dettaglio, non trascurabile, del forte innalzamento termico di quelle giornate che aveva reso instabile e fatto collassare una grande massa di ghiaccio e rocce dalla caratteristica nicchia della parte alta della Ovest del Petit Dru. Il giorno dopo, ovviamente rinunciamo alla salita e neanche lo stupendo granito della Rébuffat alla parete sud dell’Aiguille du Midi risolleva il nostro morale che ci invita ad un periodo di disintossicazione da stress sulle pareti del Verdon.

Negli ultimi decenni, tra il 1997 e il 2005, a causa dell’innalzamento delle temperature anche in alta quota, con conseguente fusione del “permafrost alpino”, sulla parete ovest del Petit Dru, si sono verificate altre impressionanti frane che hanno sconvolto la morfologia della parete e letteralmente cancellato alcune classiche dell’alpinismo, tra cui la famosa via al pilastro sud-ovest, aperta in solitaria da Walter Bonatti nel 1955.

Nell’ambiente alpinistico, a chi da decenni frequentava i ghiacciai alpini, oramai il cambiamento era evidente, anche se le cause non sempre venivano attribuite con certezza all’Uomo.

Una prima timida presa di coscienza avviene nel giugno del 1992, quando al Summit della Terra di Rio de Janeiro viene firmata La Convenzione Onu sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change), un primo storico accordo quadro di tutti i paesi del pianeta per affrontare e ridurre il rischioso processo di destabilizzazione traumatica del sistema climatico per cause antropiche.

Purtroppo ad oggi ne stiamo ancora solo parlando, con isolate e troppo poche azioni concrete mentre il cambiamento non perde tempo e nell’agosto 2022, il ghiaccio marino artico ha raggiunto la sua massima contrazione.

La stessa morfologia dei ghiacciai è in continua evoluzione, rendendo sempre più critiche anche molte “normali” alle più alte vette alpine. Con questo problema mi scontro durante la salita al Monte Bianco dal versante italiano, lungo la Cresta delle Aiguilles Grises che consente di evitare il pericoloso transito sul Glacier du Dôme, molto delicato e spesso impraticabile. Su prezioso consiglio del gestore del rifugio Gonella, nel rientro dalla cima evitiamo la nostra via di salita e le due normali francesi per seguire l’itinerario che, passando per il Mont Maudit riporta all’Aiguille du Midi e quindi con lunga risalita al rifugio Torino. Mai consiglio si rivelò più prezioso visti gli incidenti di quella calda giornata.

Nel 1995, diretti verso il bivouac de la Fourche, con l’obiettivo di salire l’indomani lo Sperone della Brenva, ci ritroviamo ancora una volta a fare i conti con lo “zero termico” troppo alto che favoriva continue scariche dalle ripide pareti di accesso al bivacco. Quando, dopo acceso confronto con il mio compagno di cordata, decidiamo finalmente di rientrare, davanti ai nostri occhi, due cordate impegnate sul Couloir Gervasutti alla Tour Ronde, vengono falciate da una grossa scarica di ghiaccio e rocce. Ripieghiamo l’indomani sulla Cresta di Rochefort e il Dente del Gigante, pur sempre delle grandi classiche del Monte Bianco.

Il problema del riscaldamento globale oramai è noto e condiviso dai più. Un fenomeno che non interessa solo l’arco alpino, ma soprattutto le regioni settentrionali del pianeta con fusione del permafrost, ritiro dei ghiacciai e riduzione dell’estensione della calotta polare, il ghiaccio marino, nella stagione estiva. Una testimonianza drammatica la trovo nel 2011 in Alaska, penetrando nei fiordi del Kenai Fiords National Park, dove con una rompighiaccio raggiungiamo il fronte del ghiacciaio che con spettacolari seraccate precipita in mare. Qui la lingua glaciale si è ritirata di ben otto chilometri negli ultimi vent’anni e tutt’attorno i segnali del cambiamento sono evidenti. Il rientro in aereo attraverso la “rotta artica”, ci consente di osservare la fratturazione della calotta polare nella stagione tardo estiva, ma questa forse è solo una suggestione.

La Cima Su Alto (gruppo del Civetta) dopo il crollo dello spigolo nord-ovest. Foto: Manrico Dell’Agnola.

Per ritornare ai giorni nostri, nell’ultimo fine settimana di giugno 2022 mi trovavo con un corso avanzato di scialpinismo a svolgere il modulo ghiaccio ed alta montagna nel Gruppo delle Vedrette di Ries nelle Alpi Orientali. Lo zero termico è ben oltre i 4000 metri, assolutamente anomalo per il periodo. Il programma prevede di raggiungere il ghiacciaio alla base della parete nord del Monte Collalto 3436 m, dove allestire, come tradizionalmente fatto dalle Scuole di Alpinismo e Sci Alpinismo del CAI, un circuito su paretine e crepacci per trasmettere i primi rudimenti sulle tecniche di progressione su ghiaccio agli allievi. Arrivati sulla morena alla base del ghiacciaio, osserviamo come questo si sia profondamente modificato rispetto a pochi anni prima. Tutto il ghiacciaio presenta segni di recenti scaricamenti, la Nord è oramai scomparsa e un grande seracco sulla sinistra incombe sulla potenziale area delle esercitazioni. È bastato uno sguardo tra gli istruttori per decidere che in quelle condizioni non era sicuro trascorrere un’intera giornata esposti al rischio di qualche possibile distacco dall’alto. Ripieghiamo sui più dolci pendi glaciali del Monte Magro dove su pendenze moderate e senza esposizione a pericoli oggettivi rimoduliamo il nostro programma. Premetto che non sono un frequentatore degli ambienti glaciali in periodo estivo ma quello che qui osserviamo è anomalo e per me semplicemente inquietante. L’acqua scorre abbondante in superficie e nel punto di, contatto tra la roccia ed il ghiaccio, spettacolari torrenti epiglaciali (bédière), ad andamento tipicamente meandriforme e profondi circa un metro, solcano il ghiacciaio. Piantando delle viti da ghiaccio per realizzare delle “soste”, una volta fuoriuscita la carota di ghiaccio, dalla vite tubolare esce un vero e proprio zampillo d’acqua, a sottolineare ancora una volta l’anomalia che stiamo osservando. Credo che questa giornata sia stata la miglior lezione della mia vita per comprendere il cambiamento climatico in atto sulle Alpi.

Cercando di chiudere questa mia riflessione nata dal confronto con altri colleghi alpinisti e dall’analisi critica delle mie esperienze, ritengo che ognuno di noi sia ben consapevole che in montagna non esiste il rischio “zero”, ma permane sempre una componente di rischio residuo che va ridotta per quanto possibile con l’esperienza, la preparazione fisica e tecnica e l’osservanza di buone pratiche.

Oramai è evidente che prima di muoversi in alta quota, bisogna prestare assoluta attenzione al meteo e in particolare al dettaglio dello “zero termico” che, quando presenta valori non idonei alla quota e al periodo, dovrebbe scoraggiare dall’intraprendere percorsi a rischio, in particolare negli ambienti glaciali.

L’estremizzazione dei fenomeni atmosferici, con temporali che presentano spesso un elevatissimo potenziale elettrico, invitano ad un’attenta pianificazione delle attività in montagna, dall’escursionismo all’alpinismo. Fortunatamente oggi disponiamo di sistemi di previsione evoluti che però vanno sempre integrati con la nostra esperienza e mai sottovalutati con supponenza o superficialità.

Sarà sempre una buona pratica confrontarsi con gestori di rifugi o conoscitori della zona come Guide Alpine e alpinisti locali, per raccogliere informazioni aggiornate sulle condizioni e percorribilità degli itinerari, non solo in ambiente glaciale ma anche su percorsi di misto o roccia.

Diventa sempre più importante abbandonare il concetto di “consuetudine” – di qua passano tutti ed è sempre andata bene – e questo soprattutto al di fuori delle Alpi Occidentali, dove ai frequentatori di quegli ambienti queste problematiche sono ben note da tempo.

Il lavoro svolto dal Club Alpino Italiano attraverso i suoi organi deputati alla formazione, come tra gli altri l’Alpinismo Giovanile, le Scuole di Alpinismo e Sci Alpinismo e le Guide Alpine, diventa sempre più importante nel promuovere nei frequentatori della montagna una solida base di conoscenze e competenze. La formazione tecnica, culturale ed etica di chi si approccia ai diversi livelli alla montagna, diventa un prezioso bagaglio da affiancare alla vera esperienza vissuta. Non dimentichiamo che l’esperienza, assieme a quel “sesto senso” innato in alcuni alpinisti, consente o aiuta a risolvere quelle situazioni complesse, ricche di variabili e a notevole componente di rischio, con le quali può capitare di doversi confrontare.

Infine, considero doti importanti il rispetto per la montagna, le capacità di ascolto e confronto, l’umiltà e la consapevolezza che l’alpinista si muove in un ambiente grandioso, che nelle sue dinamiche, spesso, sfugge alla nostra capacità di controllo. Di questi tempi, dove la velocità del cambiamento è elevata, dobbiamo imparare ad adattare altrettanto rapidamente le nostre abitudini ed obiettivi, ricordando che anche la “rinuncia” o il cambio di programma, non rappresentano una sconfitta ma, per un alpinista maturo, fanno parte del gioco.

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Cambiamento climatico – non solo – e alpinismo ultima modifica: 2022-11-07T05:39:00+01:00 da GognaBlog

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118 pensieri su “Cambiamento climatico – non solo – e alpinismo”

  1. Teo, io sono un alpinista che fa la guida. Anche per pagare le bollette, ci mancherebbe. Ma quando mi pongo un un obiettivo che ritengo interessante, lo metto davanti a tutto. Poi torno a fare la guida.
    Se poi riesco a ottenere obiettivi per me stimolanti, facendo la guida, tanto meglio.
    Ma non fare la mosca quando uno vuol dormire.  

  2. In realtà il commento 106 di Cominetti è, in parte, contraddittorio. Sono d’accordo con lui (!) in linea di principio, ma la natura non mi nutre e non mi paga le bollette. Nè a me, nè a lui. Cominetti fa la guida, andare in montagna è il suo mestiere, quella che lui decanta non è la libertà di andare quando vuole o quando ne ha voglia, ma la necessità di guadagnarsi la pagnotta. Troppo facile spacciare per libertà quello che è il proprio mestiere!

  3. Scusate, vado fuori tema. 
    Rifugio Forni. 
    La strada è aperta fin lì? è praticabile se vien neve? o devo lasciare l’auto a Santa Caterina e farmi tutta la vallata? grazie scusate ma non so dove reperire queste informazioni. Per arrivare lì devo fare un viaggio parecchio lungo e non voglio sorprese grazie.
    Altra informazione: il passo Gavia è chiuso da dove? se voglio lasciare l’auto al Rif Berni si riesce? 
    Se poi mi indicate dove posso reperire queste informazioni un’altra volta non vi tedio
    Scusate ancora il fuori tema. Grazie.
     

  4. Crovella al 111:

    @109 faccio riferimento all’attività istituzionale “organizzata” (ancorché non a pagamento), non a quella informale fra amici.

    Precisazione irrilevante, in quanto riferita alla sola seconda parte del mio commento al n. 109.

  5. Appunto: poichè TANTI umani in montagna contribuiscono a rovinarla/distruggerla, occorre fare in modo che ne vadano pochi. Compresi i giorni di punta (estate), anzi proprio lì occorre iniziare a scremare. Scremare ad ottobre non incide: anziché 5 persone al giorno in ottobre, magari li riduciamo a 2, ma non è di quello che ha bisogno la montagna. La montagna ha bisogno che i 200-250 umani in vetta al Breithorn a Ferragosto (esempio) siano ridotti a 10
     
     

  6. “L’esigenza non è la ricerca personale della solitudine, ma una coso molto diversa: ovvero come alleggerire la pressione antropica sulla montagna.” 
     
    Io pongo l’umanità al primo posto. 
    Pertanto bisogna proteggere la natura allo scopo che ne tragga beneficio soprattutto l’essere umano, considerato che noi non siamo fatti – non ancora – per vivere in un ambiente di plastica e cemento. Preservare la natura significa salvaguardare la qualità della nostra vita. 

  7. @109 faccio riferimento all’attività istituzionale “organizzata” (ancorché non a pagamento), non a quella informale fra amici. Cmq questo tema è collaterale a quello dell’articolo principale che qui regge il ragionamenti e in ogni caso  il discorso è stato abbondantemente sviscerato al seguito di un articolo relativo alle ASD, mi pare dell’aprile 2022, per cui eviterei di ripetere cose già dette a fiumi: rinvio là gli interessati.

  8. L’esigenza non è la ricerca personale della solitudine, ma una coso molto diversa: ovvero come alleggerire la pressione antropica sulla montagna. Infatti la mia campagna politica “Più montagna per pochi” non ha come obiettivo soddisfare la mia personale preferenza di rarefazione umana, bensì scremare la presenza umana per allievare la situazione di crisi in un cui si trova montagna.

  9. Leggo al commento 77, in riposta al mio 76:

    [omissis] non concordo. Io mi allineo con chi ritiene che, se l’attività fosse libera per tutti, non ci sarebbe bisogno di aggiungere gli articoli della seconda parte, quella relativa al CAI. Infatti se l’intenzione del legislatore fosse stata esclusivamente quella di definire l’attività delle GA, la legge si sarebbe fermata agli articoli specifici sulle GA, senza abbracciare il CAI

    Non pretendo di interpretare “l’intenzione del legislatore”, ma suppongo che se ci fosse stata l’intenzione di riservare al CAI lo svolgimento a titolo NON professionale delle attività di accompagnamento/insegnamento, allora la legge sarebbe esplicita al proposito (così come è esplicita nel riservare alle GA le suddette attività a titolo professionale).
    A latere, noto che se, per assurdo, le suddette attività fossero riservate al CAI, allora nessuno potrebbe accompagnare amici e simili in montagna, né insegnare loro alcunché, senza violare la legge.

  10. Se volete solitudine sul Breithorn Occidentale, andateci nel mese di ottobre e fino alle prime nevicate, con partenza a piedi da Saint Jacques. Possibilmente evitando la domenica.
     
    Sarà come nell’Ottocento (o quasi).

  11. @106. Mentalità legittima, ma che dovrebbe essere legittimata solo  per i “professionsiti” della montagna. I professionisti (GA, top climber, rifugisti…) sono una stragrande MINORANZA dell’attuale folla che infesta le montagne. La loro mentalità incide quasi niente. Le mie considerazioni riguardano la MAGGIORANZA di amatori-dilettanti, i quali pretendono di comportarsi come se fossero professionsti (“no limiti individuali”).
     
    @105 Corretto che il male da cui deriva l’eccessivo accesso antropico sulle Alpi è costituito in particolare (non solo, ma in particolare) da strade (che “salgono” in quota), ma io aggiungerei anche gli impianti. Ho fatto mille volte l’esempio del Breithorn che nelle belle giornate estive oggi è preso d’assalto (anche 200-250 persone in vetta) perché si sale con impianti fino a Plateau Rosa e con 900 m D+ si calca la vetta. Se si dovesse partire a piedi da Valtournache (con pernottamento al Rif. Teoldulo), avremmo al massimo 10 persone al giorno.
     
    Sulla denatalità non sono così convinto. Almeno per le Alpi. I tempi sono molto lunghi, ma il problema è che dobbiamo alleggerire nel brevissimo la pressione antropica, visto lo stato di crisi dell’ambiente.

  12. Sull’autolimitazione riducendo il numero di uscite non sono d’accordo.  È un discorso che può andare bene all’appassionato dilettante che va in montagna nei fine settimana ma non l’alpinista come lo intende una parte di umanità che forse non è compresa dalla più parte delle persone ch si autodefiniscono normali.
    Mi spiego: io (e gli alpinisti che fanno l’alpinismo) vado in montagna con un programma ben preciso che prevede allenamenti e prestazioni in relazione al massimo livello personale ottenibile. Non si tratta di essere dei “fissati”, come molti penseranno, ma di cercare di sopravvivere. Alla natura e nella vita.
    Il dilettante che la domenica rinuncia perché è brutto tempo, dovrà aspettare di avere altro tempo libero per poter tornare in montagna, mentre io, se è brutto o le condizioni non sono buone, aspetto il primo giorno buono per andarci. Quel giorno non importa se devo andare dal medico, dal commercialista o portare i figli alla partita di pallavolo. Tutto viene dopo l’alpinismo perché le condizioni per praticarlo le stabilisce la natura, alla quale non interessa assolutamente dei miei eventuali impegni. Saranno questi ultimi a doversi adattare alla montagna e non viceversa come la più parte delle persone fa o è costretta a fare.
    Facendo la guida mi succede spesso che un cliente non può venire con me quando le condizioni di quello che vuole salire sono ottime ma i suoi impegni sono incompatibili. Oppure c’è chi vuole sciare fuoripista nella polvere solo la domenica ma è raro che la polvere ci sia. Un vero appassionato monitora il meteo costantemente e appena smette di nevicare parte per le montagne. Non ci sono festività o ferie che tengano.
    Lo stesso vale per il surf. Come fai a farlo se hai tempo quando il mare è calmo? Un mio amico si è fatto scrivere nel contratto di lavoro che quando c’è la neve fresca lui va a sciare e non in ufficio. Il toro bisogna prenderlo per le corna.
    Insomma, l’ autolimitazione non può andare bene a tutti, e lo dico prima di tutto per una questione di sicurezza e…per tutto il resto di cui prima.

  13. Mah, non so.
    Sono sempre stato attento all’ambiente, in città uso la bici da 30 anni, ma la foga di regolamentare tutto mi fa venir voglia di riprendermi una moto da regolarità degli anni 80, e fare un po’ di fuori strada.
    Non ci fosse stata una soluzione insana come il lockdown ora avremmo meno merenderos impazziti che non vedono l’ora di incengiarsi o ruzzolare ogni domenica.
    Il problema della pressione eccessiva è solo dato dalle strade / accessi in quota e dai rifugi.
    Tra l’altro c’è il calo demografico, basta aspettare.
     

  14. Sul fatto che nei commenti Mori & company si siano affossati, sono d’accordo con te. Buona domenica anche a te

  15. Preciso a scanso di equivoci che, nei commenti, Mori (nonché sui amici) hanno avuto tutto lo spazio di replica di cui avevano bisogno. Secondo me, affossandosi ancor di più, ma questo è un altro discorso. Buona domenica!

  16. @101 Certo che puoi esprimere tue opinioni, ma ti sto dicendo è da un bel pezzo (quindi non dalle scorse settimane) che quello che tu mi rinfacci è invece prassi operativa seguita con una certa sistematicità. Inoltre il tutto è sempre valutato congiuntamente prima di pubblicare. Se si dovesse agire esclusivamente come indichi tu, non si terrebbe dietro alle tempistiche. Inoltre cosa avrei dovuto fare? Contattare Mori e chiedergli “scusa Mori, ho intenzione di criticare profondamente le tue posizioni, me lo permetti?” ma… mi domando dove vivi… Come tu puoi esprimere le tue opinioni (101), io posso fare altrettanto in generale e nei confronti di chiunque.
     
    Quanto al concetto formazione introdotto in questo dibattito ecc, se non cogli da solo che si tratta di un tema conseguenziale all’articolo principale, mi spiace ma vivi in un mondo tutto tuo.
     
    Per quanto riguarda il concetto di autolimitazione, oltre all’articolo odierno sul progetto di Toni Farina, ti metto la corrente che, da molto tempo, io sostengo la necessità dell’autoregolamentazione in montagna e la pratico in prima persona. Intendo dire che mi impongo di andare solo una domenica sì e una no e in estate solo nel week end e poco più. Insomma cerco di contenere le mie uscite annue a 35-40 contro le circa 80 che potenzialmente potrei fare. Questo perché sono convinto che un alpinista “maturo e consapevole” sa rinunciare a una parte del suo piacere per il bene dell’ambiente. Se tutti dimezzassimo, seduta stante, le nostre uscite annue in montagna, il peso antropico sulle vette si dimezzerebbe. Questa non è un’imposizione da parte mia, è un auspico. Dobbiamo arrivarci perché “maturiamo” TUTTI, non perché il “Paparino” del momento (il Parco o il CAI o il Presidente del Consiglio…) ce lo impone. “Maturazione” è la parola d’ordine, specie del prossimo futuro.

  17. Crovella, il mio commento n. 94 parla di te. Il riferimento all’iniziativa degli abruzzesi è giusto un esempio di come quasi sempre il tuo “metodo” sia, secondo me, scorretto. È la mia opinione, e siccome sei anche un autore, qui, penso di avere il diritto di esprimerla. Sì, certo, sono andato fuori tema, ma mi pare che la discussione, sotto questo specifico post, sia andata fuori tema sin dalle prime battute: più precisamente, dal momento in cui sei intervenuto tu, con la solita storia della formazione obbligatoria e tutte le altre idiozie (nel senso di argomenti puramente autoreferenziali, nel senso di incapacità totale du ascoltare e apprendere) che, aggravate talvolta dal ricorso a insolenze e offese, continui ostinatamente a pubblicare. Sei la disgrazia di questo luogo di discussione. Visto che dal “minestrone” del tuo cervello, a questo giro, è venuto a galla il concerto di “autolimitazione”, perché non metti i freni al bisogno continuo di imporre le tue idee su tutto e tutti.

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