Introduzione di Gian Piero Motti (GPM 053)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(3)
L’esperienza insegna che il silenzio terrorizza gli uomini più di ogni altra cosa (Bob Dylan).
Il nome di Joe Tasker non è nuovo ai lettori della Rivista della Montagna. È l’autore dell’articolo apparso sul numero 21 a proposito di una sua salita sulla difficile parete est delle Grandes Jorasses. Tasker torna sulle pagine della Rivista narrandoci nel suo stile nudo e incisivo (fedele dunque all’understatement di marca inglese…) un’impresa che potrebbe quasi appartenere al fantalpinismo. È sempre difficile voler fare dei paragoni, ed è anche inutile. Ma certo quello che sta accadendo oggi nell’alpinismo, non può non stupire. È anche inutile dire che si sta varcando un limite, perché un limite non esiste di certo. Resta il fatto che da ogni parte del mondo, siano i capelloni californiani che in cordata di due vincono il fantastico Cerro Egger, siano i freddi ed analitici Messner ed Habeler che passano solitari come ombre sulle pareti dell’Hidden Peak, siano Tasker e Boardman che danno a parole come tenacia, resistenza e volontà un nuovo e più ampio significato, si scorge un desiderio (forse un po’ disperato) di ritrovare qualcosa di veramente e tipicamente umano che abbiamo perduto. Molti diranno che questa non è la via migliore. Non importa. Di certo è una via dura, su cui si paga un prezzo carissimo: fatica, solitudine, angoscia.
Pochi dati per l’impresa di Tasker e Boardman: più di 20 giorni trascorsi in parete, nessun aiuto esterno, nessun portatore, difficoltà di V e VI grado in arrampicata libera, di A2 e A3 in artificiale. Nessun chiodo ad espansione usato. E tutto questo su una parete alta 1600 m che si erge verticale e compatta su una montagna di quasi 7000 m. Ma i dati tecnici interessano poco. Interessa invece il lato umano di quest’impresa, come di tante altre del momento. E ci fa riflettere. Pare che per cercare la «vita» sia quasi necessario porre la stessa in discussione spingendosi ai limiti della morte.
Changabang parete ovest
di Joe Tasker (scritto nel marzo 1977)
(pubblicato Rivista della Montagna n. 28, giugno 1977)
Traduzione di Gabriella Dondi
Con i pensieri vertiginosi che vagavano in un cervello stupefatto e scardinato dalla fame e dalla fatica, ricordavo che Dick Renshaw ed io eravamo stati così pazzi da pensare di poter scalare il Changabang. Mentre mi trascinavo verso il Campo Base dopo 11 giorni passati sul Dunagiri, di cui gli ultimi senza acqua né viveri, mi sentivo come sovrastato ed oppresso da quelle smisurate pareti, che quasi sembravano prendersi gioco di me. Avevamo preso in considerazione la possibilità di scalare la parete ovest e l’avevamo studiata attentamente mentre tentavamo di raggiungere la cresta sud-ovest, dopo aver scalato il Dunagiri. Ma sul Dunagiri per poco non ci lasciavamo la pelle e ora lo spigolo sud-ovest ci pareva di una durezza estrema. La parete ovest addirittura ci pareva impossibile e poi dell’Himalaya ne avevamo veramente le tasche piene.
Pagina di apertura dell’articolo sulla Rivista della Montagna
Sei settimane più tardi, nel sicuro comfort di un salottino inglese, il germe di un’idea che era cresciuta in me alla vista di quei 1600 m di placche granitiche incrostate di ghiaccio, cominciava a lavorare nel mio cervello. Il problema più grande era trovare un compagno che mi seguisse in un’avventura che rasentava la follia. Dick, purtroppo, si stava appena riprendendo da un congelamento agli arti. L’unica persona a cui si potesse pensare, era Peter Boardman. Però l’approccio doveva essere abbastanza diplomatico; Peter era appena tornato dall’Everest e forse non sarebbe stato così facile per lui trovare dell’altro tempo disponibile sul momento. Era Natale: l’atmosfera festosa e amichevole ci venne in aiuto per persuadere il suo capo e così potemmo iniziare a dar vita al nostro progetto.
Non era per niente incoraggiante il sapere che il nostro progetto era considerato pura follia da tutti coloro che d’alpinismo ne sapevano qualcosa. Ma noi avevamo in mente le parole di Tom Longstaff, uno dei primi esploratori del Gharwal: «Devi andare a ficcare il naso in un posto prima di essere certo che non ce la potrai fare».
Dopo alcuni mesi intensi e faticosi di preparazione, aiutati da amici e fornitori di materiale, finalmente volammo verso Delhi avvolti dall’umidità debilitante del monsone. Occorsero giorni di noiosissima anticamera su e giù per i corridoi di un imponente apparato burocratico, prima di poter sdoganare il nostro bagaglio e poter finalmente partire per un viaggio scomodo e quasi allucinante su un pullman che sale fino a Joshimath attraverso le gole di Dhauli Ganga.
Alcuni amici che volevano tentare la parete sud del Changabang avevano portato per noi due casse di viveri. Però tra i due gruppi non vi sarebbe stata alcuna possibilità di comunicazione, in quanto ci avrebbe divisi uno sperone alto 300 metri, che separava nettamente i due ghiacciai dove avremmo dovuto operare durante la spedizione. Tuttavia, l’essere insieme nel caffè-bazar di Joshimath fu un relax piacevole e assai gradito.
La marcia d’approccio mi era ormai familiare, ma l’apprezzai maggiormente al secondo incontro: attraverso le ripide e scoscese pareti del Rishi Gorge, verdissime, ombrose e punteggiate di minuscoli e coloratissimi fiori himalaiani, a tratti, come un’apparizione fugace, appariva il Nanda Devi avvolto dalle masse nuvolose del monsone.
Il Changabang visto da sud-ovest. Lo osservano Chris Bonington, Dougal Haston, Alan Hankinson e Doug Scott (1974). Foto: Martin Boysen
All’arrivo al Campo Base, l’ufficiale di collegamento che era stato assegnato alla nostra spedizione, ci sorprese annunciandoci che intendeva ritornare a Delhi, poiché non vedeva alcuna ragione per cui egli dovesse fermarsi al Campo Base. D’altronde aveva ragione: con la poca esperienza derivata da alcune settimane di addestramento in una scuola d’alpinismo locale, quasi cinque anni prima, era assai poco probabile che potesse contribuire in qualche modo alla scalata della montagna. Comunque, sarebbe stato un legame con il mondo esterno ed anche un valido punto d’appoggio per mandare messaggi in caso di necessità. Data la situazione, saremmo stati dunque totalmente soli. Ciononostante ci sembrò ancora la soluzione migliore, perché se l’ufficiale non si fosse trovato a suo agio, si sarebbe creata un’atmosfera tesa. La montagna sarebbe già stato un problema sufficientemente arduo, meglio quindi non avere a che fare con problemi personali.
Lasciati soli, ci demmo da fare per sistemare i viveri e tutta l’attrezzatura, poi due giorni più tardi facemmo un giro di ricognizione ai piedi della parete ovest. Ahimè, tutto il nostro ottimismo era svanito e la nuda realtà era ancor più dura e terrificante di quanto avessimo potuto intuire attraverso le fotografie e le diapositive che avevamo scattato. Però nessuno di noi espresse i suoi dubbi. La ferma determinazione di «dare uno sguardo» persisteva tenace e nei cinque giorni successivi ci demmo da fare per trasportare i materiali sulla morena sotto la parete, per stabilire un campo base più avanzato.
Durante i primi giorni le emicranie non ci mollarono per un minuto, ma verso la fine della settimana cominciavamo a sentirci acclimatati. L’ultimo giorno portammo circa 27 kg a testa, lottando come bestie da soma sul ghiacciaio, per raggiungere il campo base avanzato prima delle tenebre, spettatori tuttavia di uno dei fantastici tramonti che lentamente calavano sulle pareti del Changabang, attraverso nebbie che andavano tingendosi di rosa e d’arancio.
Un contrattempo abbastanza seccante fu lo scoprire che una cassa di viveri era stata forzata e che tutto il contenuto aveva preso il volo. Vi erano alcune tracce sulla neve, che partivano dalla cassa e sparivano in lontananza. Il fatto ci lasciò turbati e in seguito restammo sempre piuttosto in ansia nel timore di essere razziati un’altra volta da qualunque essere vivente che avesse trovato i nostri rifornimenti.
Tra il Bagini Peak e la parete ovest c’era un colle, a circa 5500 m, e lì pensammo che fosse utile piazzare una tenda. Una delle caratteristiche della nostra spedizione, era quella di impostare le tattiche d’assalto adeguandoci alle circostanze e al terreno. La parete era veramente troppo difficile e complessa, e anche se essa si fosse poi mostrata più abbordabile, non avrebbe avuto senso e sarebbe stato forse impossibile definire una strategia dall’Inghilterra, ma avremmo dovuto adattarci ad ogni situazione.
Trecento metri di terreno misto ci portarono al colle, dove alcune ore furono necessarie per intagliare una piazzola nella neve, su cui sistemare una piccola tenda ancorandola con chiodi da ghiaccio e lame da neve, per proteggerla dal fortissimo vento che soffiava sul filo di cresta. Mentre osservavamo attentamente la parete, ci sentimmo un po’ più incoraggiati nel vedere che nei primi 150 metri un buon sistema di fessure si alzava direttamente sopra di noi. Decidemmo di adottare il sistema delle corde fisse e di alzarci a piccoli balzi successivi, utilizzando i 500 metri di corda che avevamo portato con noi.
Il lavoro di approvvigionamento al campo sul colle fu bestiale. Passammo quattro giorni a trasportare attrezzatura e viveri sul colle, entrambi inebetiti dalla fatica e sentendo che sarebbe stato meglio avere un paio di persone in più per suddividere il lavoro.
Una spedizione di due persone è una strana esperienza in tutti i sensi. E bisogna tener conto delle depressioni e delle angosce dovute alla grande solitudine. Ma fortunatamente tutti e due eravamo ben consci che queste situazioni derivavano dalla nostra particolare posizione ed eravamo sicuri che non sarebbero riuscite ad intaccare il nostro fermo proposito di tentare la scalata del Changabang. Annotai nel mio diario che un po’ di musica rock ed una compagnia un po’ più piacevole… non sarebbero state certo mal accolte. La conversazione era scheletrica: «Oggi fa un freddo del boia, non è vero?» — «Mmm…» — «Non mi pare che tu sia molto loquace…» — «Ma a che cavolo serve una conversazione educata?».
Avevamo saputo a Joshimath che una spedizione americana doveva arrivare nei paraggi per tentare di scalare il Dunagiri. Ci andavamo convincendo che finalmente sarebbe giunto un vero e proprio contingente di splendide fanciulle californiane, abbronzatissime, tanto che ogni giorno speranzosi scrutavamo l’orizzonte.
Lunedì 20 settembre raggiungemmo il Campo 1 sul colle e lo stesso giorno proseguimmo per circa 200 metri su facile terreno misto. C’era uno strano senso di soddisfazione nel sapere che realmente stavamo andando avanti sulla parete. Il giorno seguente fu più interessante. Cominciammo con le difficoltà rocciose: ripide placche, fessure con grandi lastre instabili, sottili crepe da vincere a furia di chiodi, tanto che riuscimmo soltanto a superare tre lunghezze di corda.
Verso sera ridiscendemmo al Campo 1, lasciando in parete una parte dei 500 metri di corda che avremmo dovuto fissare durante la salita. A parte il fastidio dato dallo sbatacchiare del vento sui teli della tenda, il soggiorno al Campo 1 era accettabile. Venimmo a un accordo: Pete avrebbe preparato la colazione ed io invece la cena. Entrambi impiegammo quasi tre ore a far fondere il ghiaccio e poi a far bollire l’acqua fino ad ottenere una quantità di liquido sufficiente. Ma per me il momento della colazione fu sempre il più difficile, in quanto tutto il mio sistema nervoso era in tensione e vibrava al pensiero della realtà di un altro giorno passato in parete.
La scalata si faceva sempre più dura e i nostri progressi erano di una lentezza veramente allarmante. Raggiungemmo una barriera di strapiombi: Pete, che conduceva da primo, sparì dietro un tetto, dopo aver compiuto una traversata diagonale verso destra, ma tutto era difficile e penosamente lento. Il sole non ci raggiungeva che alle 11.30 o a mezzogiorno: prima il freddo era insopportabile. Di notte la temperatura scendeva a -20° e spesso anche più giù. Utilizzavamo il tempo prima che giungesse il sole per risalire le corde fisse con le Jumar fino al punto massimo raggiunto precedentemente. Quel giorno, mentre Pete si dava da fare sotto il tetto, io me ne stavo rannicchiato sotto gli strapiombi. Lo vedevo arrampicare in pieno sole, mentre io invece ero ancora nell’ombra glaciale. Potevo toccare la roccia illuminata dal sole allungando un piede, ma il resto del mio corpo era tormentato da un freddo spietato. Chiamammo questo tratto «il passaggio di Tony Kurz», a causa della lotta feroce che avevamo dovuto sostenere per superare gli strapiombi, nonostante l’aiuto delle corde fisse.
Il giorno finì con una bufera di neve, nebbia fitta e vento del boia. Ridiscendemmo alla tenda e quella notte ci rendemmo conto che la nostra attrezzatura era forse insufficiente.
Tuttavia sentivamo che a poco a poco ci stavamo acclimatando e cercammo di forzare i tempi, tentando di alzarci più presto il mattino, esattamente alle otto. Ma anche così non riuscivamo ad avanzare durante la giornata che di tre lunghezze di corda, a volte anche meno. Le calate in corda doppia sulle corde fisse di 8 millimetri e le risalite delle stesse con le Jumar davano una tensione nervosa estrema, soprattutto dopo che un chiodo uscì fuori mentre Pete saliva, causandogli un volo di sette metri. A tutti i costi mi sforzai di trovare un controllo e cercai di reprimere la mia immaginazione sconvolta, altrimenti non avrei più trovato la forza di fare un passo. Raggiungemmo il nevaio di ghiaccio, il quinto giorno dal Campo 1. Ci spronava un «morale» enorme e cominciammo a credere che forse ce l’avremmo fatta, pur trovando lungo tutto il necessario. Prima di trasportare i rifornimenti fino al termine delle corde fisse, ci fermammo un po’ al Campo 1, ma il giorno successivo nevicava da matti e così ce ne ritornammo al Campo Avanzato e poi al Campo Base, per non consumare le provviste lasciate in parete. Lontano dalla montagna, osservando la sezione superiore, liscia, verticale, quasi senza punti deboli di salita, tornarono a galla tutti i dubbi e le ansie represse. Era meglio combattere direttamente con le difficoltà, piuttosto che esaminarle da lontano.
Ritornammo in parete con delle amache speciali da bivacco, tirandoci su per le corde fisse fino a raggiungere il punto più alto. Tutto ciò ci prese tempo e il buio ci colse quando ancora non eravamo a metà strada. Forniti delle amache, potevamo fermarci dove volevamo, ma le condizioni del tempo sembravano peggiorare ancora. Cercammo di cucinare qualcosa prima di infilarci nelle amache, che erano protette con dei teli contro il vento e le continue colate delle slavine. Fu una di quelle notti che non finiscono mai e che non si dimenticano.
Gli ancoraggi speciali a sbarra che avevamo preso per tenere le amache aperte e distese durante il bivacco, erano su al termine delle corde fisse, con tutto il rimanente dei viveri, che erano già stati issati fin là in precedenza. Così, ci sentivamo annientati e impotenti, rattrappiti e desiderosi di veder sorgere il mattino. Ma temevamo il suo giungere, poiché avremmo dovuto arrampicare in balìa di un vento freddo e tagliente.
Pete Boardman al campo II. Foto: Joe Tasker.
Rimettere gli scarponi fu penoso e richiese lo sforzo maggiore. Fissavo Pete, che si raggomitolava nel tentativo di scaldarsi le mani. «Sono un pezzo di ghiaccio!» «Cosa dici?» «Non preoccuparti, non ho nessuna intenzione di ritirarmi…!». Giungemmo al termine delle corde quello stesso giorno, avvolti da una nebbia lattiginosa. Nostra prima preoccupazione fu quella di bere e mangiare qualcosa. Eravamo in condizioni troppo disastrose per poter avanzare ancora quel giorno. Sciupammo un’intera scatola di fiammiferi tentando di accendere il fornello. Dopo due ore, rannicchiati su un minuscolo gradino di ghiaccio, proteggendo con i corpi il fornello, riuscimmo a prepararci qualcosa da bere e anche una tiepida zuppa liofilizzata. Avevamo bisogno di ben altro, ma intirizziti e semicongelati non riuscivamo più a restare in quella posizione insopportabile. Piazzammo le amache e i teli e ripetemmo lo squallido e goffo rituale che già avevamo compiuto per potervi entrare e per infilarci nei due sacchi-piuma che erano indispensabili per proteggerci dal freddo notturno.
Colate di neve si rovesciarono su di noi per tutta la notte, mentre il vento inferocito scagliava chicchi ghiacciati incessantemente contro il telo della tenda. L’alba si fece strada lentamente nella mia coscienza, ma non sentivo alcuno stimolo a muovermi dalla mia posizione. Attendemmo che il sole fosse giunto a noi. Lasciammo perdere anche la misera colazione.
Decidemmo invece di scendere, ripiazzando le corde fisse che avevamo deciso di staccare. Tornati al Campo Base, ci sentivamo come dei convalescenti. Il Changabang ci pareva lontano, estraneo a noi, quasi un nemico feroce. Ci sentivamo depressi e ci attaccava nuovamente quel fastidioso senso di incertezza e di dubbio circa le possibilità di salita. Dopo un paio di giorni, ci preparammo a partire per quello che doveva essere o l’ultimo tentativo o l’assalto finale. Avevamo prenotato il volo di ritorno per l’Inghilterra il 18 ottobre, e ormai era il 5.
Non avevamo forse speranze di tornare in tempo, ma avevamo lavorato duro per questa impresa e ci sentivamo in posizione dominante, quindi l’idea di abbandonare a quel punto non era neppure da prendere in considerazione. Comunque ci preoccupava non poco il pensiero che molte persone sarebbero state in ansia se noi non fossimo rientrati in tempo.
Mentre stavamo per partire, scorgemmo in lontananza qualcosa che si muoveva e che attrasse la nostra attenzione. Era un uomo! La prima persona vivente dopo quattro settimane. Nonostante non lo conoscessimo, tuttavia chiacchierammo amichevolmente. Era un membro della spedizione americana diretta al Dunagiri. Poi arrivò anche il capo spedizione con il loro Ufficiale di collegamento, che si era ammalato e stava tornando a Joshimath. Ci salutammo e ce ne andammo per diversi cammini.
Avevamo rivisto la nostra tattica di bivacco e contavamo di usare la parte interna delle nostre tende, che speravamo di ancorare sopra un terrazzino, ammesso che fossimo riusciti a scavarne uno nel pendio di ghiaccio. Il nostro avanzare era lento, ma forse ora eravamo avvantaggiati da questa nuova possibilità e dall’ottima acclimatazione di entrambi, che ci permetteva una discreta confidenza con il terreno. Tuttavia, mentre raggiungevamo il Campo 1, nuovi dubbi precipitavano su di noi, insieme ad un grosso temporale che andava formandosi sulla montagna. «Se ben ricordo, mi hai detto che in Himalaya non ci sono tuoni e fulmini…» «Deve essere il Cinese…». Nevicava fitto fitto e in una breve schiarita riuscimmo a vedere che tutto il percorso fino al Campo Base era imbiancato di neve. Il vento irriducibile ci bloccò al Campo 1 per tutto il giorno seguente.
Il 9 ottobre risalimmo le corde con le Jumar fino al nevaio, portando con noi la corda fissa e piazzando la tenda nel ghiaccio sopra il terrazzino che avevamo scavato nel tratto di terreno misto sopra il nevaio pensile, il nostro Campo II. La tenda lambiva il bordo del terrazzino e se mi sdraiavo per dormire, le mie gambe e le ginocchia sporgevano sul vuoto della parete. Ma era l’unica soluzione possibile. All’interno della piccola grotta riparata dal telo potevamo cucinare senza essere disturbati dal vento e riposare mentre la neve fondeva sul fornello. Sopra di noi si ergeva un’enorme torre di roccia, che ci appariva come il tratto d’arrampicata più arduo di tutta la parete. Il primo giorno ci dette coraggio, infatti riuscimmo a percorrere quattro lunghezze di corda su roccia compatta e verticale, aiutandoci un po’ con i chiodi sul terreno misto e ghiacciato e, in un punto, con chiodi da ghiaccio e staffe per superare una brutta fessura ricolma di ghiaccio luccicante.
Sosta sui chiodi vicino all’Icicle
Sebbene ogni giorno fossimo sfiniti, tuttavia il nostro lento procedere ci dava come una calma e serena speranza di vittoria. Raggiungemmo il tratto di parete rocciosa più liscio e verticale, dove l’arrampicata fu estremamente dura e complessa. Più volte dovemmo pendolare oppure attraversare a corda delle sezioni di placche assolutamente levigate, per raggiungere nuovamente dei sistemi di fessure percorribili o dei diedri. Pete attraversò a corda una svasatura fuori dalla mia visuale e forzò poi direttamente un passaggio lungo delle fessure che aveva trovato. Per tutto quel giorno rimasi al posto di secondo in cordata. Ciascuno di noi saliva per due lunghezze di corda successive da primo di cordata, prima di dare il cambio all’altro, ma quel giorno fu interamente speso a salire quelle sole due lunghezze di corda. Il giorno successivo ripresi il comando, ma ancora non riuscii che a superare due sole lunghezze. Con un’altra traversata a corda ancorata a un misero chiodo a lama di rasoio, riuscii a raggiungere un diedro strapiombante, ma la fessura posta sul fondo era ancora fuori dalla mia portata. Cominciai lentamente a pendolare su e giù cercando di allungarmi al massimo, mentre le corde sfregavano sinistramente sul bordo tagliente del diedro, sperando di farcela prima che si tagliassero…
Riuscii a piazzare un nut nella fessura, sistemai una fettuccia issandomi rapidamente su di essa, fino a una sosta dove mi accorsi che una delle due corde si era segata a metà.
La parte bassa della via ci era già sembrata dura, ma questa sezione finale era veramente allucinante. C’era un tratto di circa 60 metri senza alcun punto di fermata, sul quale per circa 30 metri la corda penzolava libera e distante dalla parete, ancorata a una lama di granito che sporgeva alla sommità del salto. La discesa nelle tenebre fu snervante e angosciosa: entrambi ci sentivamo distrutti. Scendevamo con il discensore a 8 e ogni volta che incontravamo un chiodo era necessario ancorarsi con una jumar, per riattaccarsi alla corda con il discensore sotto il chiodo. Una notte, mentre stavo compiendo la manovra per passare un chiodo, capii che qualcosa non funzionava e mi accorsi con terrore che la fettuccia collegata alla Jumar si era staccata dalla cintura da arrampicata: mi ritrovai con il discensore in mano e dovetti sorreggermi soltanto con l’altra mano affannosamente afferrata alla maniglia Jumar ancorata alla corda…! La parete fuggiva sotto di me nelle tenebre e nel vuoto oscuro, in un momento di lucidità mi chiesi se forse stavo per lasciare Pete in quello sporco casino e cosa avrei dovuto fare per tirarmi fuori da quella situazione. Con alcuni movimenti frenetici, in preda al panico, riuscii a piazzare una fettuccia attorno alla corda con un nodo Prusik e subito ad agganciarmi nuovamente alla cintura con la jumar.
A Pete cadde il discensore e la perdita di questo semplice attrezzo gli costò circa mezz’ora di lavoro in più di quanto fu necessario a me per raggiungere la tenda. Pete aveva dato ai suoi due moschettoni i nomi di due ragazze e così, sebbene avesse la mente offuscata dagli sforzi della giornata e sebbene avesse le mani intirizzite e congelate, riuscì un po’ meglio a ripetere il lungo e rischioso rituale di agganciare e sganciare i suoi due moschettoni ogni qual volta si imbatteva in un chiodo.
Io intanto mi davo da fare per sciogliere un po’ di neve e preparare qualcosa di caldo, restando in continua ansia fin quando non sentii il rumore di ferraglia e gli scarponi che grattavano la roccia al di fuori della tenda. Dal Campo II decidemmo di portarci appresso l’attrezzatura da bivacco per una notte e compiere un deciso tentativo verso la vetta dal punto d’ancoraggio delle corde fisse. Dopo quattro giorni ci trovavamo a circa una lunghezza di corda da una rampa di ghiaccio che attraversava tutta la parte superiore della parete e che formava poi un facile sperone verso gli ultimi 300 metri da salire fino alla vetta. Restammo un giorno intero a riposare senza far nulla, rannicchiati nella tenda, stanchissimi, mentre con gli occhi percorrevamo in discesa l’immensa parete del Changabang e poi oltre verso il Dunagiri, che si scorgeva attraverso il ghiacciaio e poi il Rishi Kot, giù in fondo alla valle. Pigramente, come fuori dal tempo, osservavamo in silenzio la tenda color carne che si incurvava leggermente sotto il vento e che arricciandosi formava delle leggere, piccole ondulazioni rotondeggianti.
Al campo base, un ricovero da quattro stelle
Il 14 ottobre salimmo con le Jumar fino all’ultimo passaggio di roccia pura che ancora dovevamo superare. Era un diedro strapiombante che Pete superò prima che il sole ci avesse raggiunti, combattendo una dura lotta con il freddo e con il vento. A quell’altezza la temperatura di notte scendeva fino a -30° ed anche -40°…!
Attraversammo la rampa di ghiaccio e proseguimmo lungo terreno misto fino ai piedi delle placche terminali, tinte di rosa dal sole del tramonto. Nella luce del crepuscolo, tagliammo una piazzola nella neve e ci raggomitolammo ben chiusi nei nostri sacchi a piumino. Fu una notte molto amara, Pete si era sdraiato al bordo del terrazzino verso il vuoto e periodicamente si svegliava inferocito per dirmi che stavo a poco a poco buttandolo giù. Il mattino eravamo dei pezzi d ghiaccio e i nostri preparativi furono molto lenti. Dopo due lunghezze di corda lo sperone divenne più semplice, tanto che insieme ci incamminammo pesantemente e privi di ogni energia lungo il ripido pendio terminale, uscendone a pochi metri dalla vetta. Era tutto finito.
Attorno a noi nuvole e vento; solo il Nanda Devi rimase luminoso e chiaro abbastanza a lungo per farsi ammirare nella sua bellezza, prima di scomparire nuovamente avvolto da masse di nebbie.
Dopo una breve sosta e qualche pezzo di cioccolata, iniziammo la discesa. Infinite furono le calate a corda doppia fino a raggiungere le corde fisse. Eravamo a corto di chiodi e fu necessario tutto il nostro autocontrollo nel buttarci giù in calata, ancorati a un solo e misero chiodo a lama di rasoio che si piegava nella fessura a mano a mano che il nostro peso gravava su di esso… «Non vorrai mica calarti in corda doppia su quella porcheria?» «Hai forse qualcosa di meglio da suggerirmi?».
Raggiungere le corde fisse fu cosa assai gradita… e poi scendere fu come incamminarsi lungo la strada di casa propria. Soprattutto per Pete, sprovvisto di discensore, la discesa fu un lungo lavoro di precisione, che mise a dura prova i suoi nervi, calandosi con il solo freno-moschettone in diagonale sulla terribile barriera strapiombante. Faceva ormai notte ed era anche iniziata una tempesta di neve, prima che io raggiungessi la tenda. Pete stranamente sembrava impiegare più tempo del solito ad arrivare alla tenda; ansioso cercavo di guardare nel buio ma non riuscivo a distinguere nulla. Fu con immenso sollievo che udii il solito rumore di ferraglia e ben presto egli arrivò alla tenda quasi farneticando. Un chiodo era saltato fuori nello stesso punto in cui io per poco non volavo di sotto a causa di quella maledetta jumar, ed ero riuscito ad afferrarmi alla corda per tempo. Appena arrivato mi urlò se per caso avessi visto un lampo verde in direzione del Campo Avanzato. Gli risposi di no. Mi disse allora di aver udito una voce. lo non avevo sentito nulla e pensai che forse ciò era l’effetto della fatica enorme di quei giorni.
Joe Tasker al punto di sosta sotto la lama mobile di granito. Foto: Pete Boardman.
Il giorno successivo continuammo la discesa a corda doppia, giungendo verso il Campo 1 nell’oscurità totale. Alla fine delle calate dovevamo più volte pendolare per trovare i chiodi che avevamo lasciato sul posto come punti di ancoraggio delle corde doppie. Raggiungemmo il Campo Base Avanzato il giorno successivo e poi il giorno dopo ci incamminammo verso il Campo Base. Mentre faticosamente attraversavamo il ghiacciaio, completamente scarichi e sfiniti a causa della caduta della tensione nervosa, ma abbastanza soddisfatti e sereni, pensai di aver udito qualcuno gridare. Pete non aveva sentito nulla. Così una volta di più pensai che da troppo tempo eravamo lontani dal mondo e dalla gente e che forse cominciavamo ad immaginare cose strane. Si parlava della possibilità di incontrare ancora l’equipe americana proprio al Campo Base. Sarebbe stato anche troppo bello poter finalmente incontrare qualcuno con cui chiacchierare un po’.
Mentre ci avvicinavamo al Campo Base nell’oscurità, udimmo chiaramente suoni e voci e percepimmo l’odore pungente di legna che stava bruciando. Abbandonammo allora il nostro carico e ci affrettammo verso quella luce che ora scorgevamo, eccitati dall’idea di incontrare qualche essere umano. Ci facemmo strada verso una tenda enorme, dove un gruppo di persone sedeva bevendo thè e mangiando formaggio. Sedemmo con loro e parlammo un po’ eccitati. Dopo 40 giorni di solitudine fu meraviglioso incontrare degli amici alpinisti.
La parte alta della parete ovest del Changabang con il tracciato della via Tasker-Boardman (1) e della Via dei Giapponesi (2). Foto: Joe Tasker.
Erano un gruppo di italiani che avevano tentato il Kalanka (si tratta della spedizione del Gruppo Alta Montagna di Torino, NdR), ma erano stati ingannati dalla tattica d’assalto impiegata dalla spedizione di Chris Bonington del 1974, il quale era venuto per scalare il Changabang e aveva attraversato il Colle Shipton verso il Ghiacciaio del Changabang, dal quale si attacca anche il Kalanka. La loro sarebbe stata un’impresa di per sé maggiore, dato l’attraversamento del colle; ma con il poco tempo rimasto prima dell’inizio dell’inverno, era ormai troppo tardi per trasportare l’equipaggiamento al di là del colle.
Ma la loro sfortuna fu forse propizia. Mentre Pete stava raccontando la nostra storia del Changabang, quella dell’Everest ed io quella della parete est delle Grandes Jorasses, mi accorsi di essere seduto accanto all’unica donna di tutta la compagnia. Era americana e poiché ero stanchissimo mi ci volle un bel po’ di tempo prima che riuscissi a capire ciò che stava dicendo. Lentamente le parole «incidente», «caduta di 600 metri», «quattro morti», penetrarono nel mio cervello, che era ancora annebbiato dalla fatica e drogato dall’ebbrezza del successo. Incespicai fuori e incontrai Yassoo, un portatore di alta quota di Joshimath che era con la spedizione americana. Allora mi spiegò che la donna era stata tratta in salvo dagli italiani sul Dunagiri ed era giunta al campo un’ora prima che noi tornassimo. Erano dunque le loro voci che io avevo udito sul ghiacciaio.
La donna aveva trascorso due notti in parete, bloccata in una tenda a 6300 metri, prima di poter essere soccorsa dagli italiani, che erano giunti da poco al Campo Base e che erano stati informati dell’incidente dallo stesso Yassoo. La nostra felicità sembrò allora sciocca e insensata e l’intossicazione che sentivamo per il nostro successo sembrava crudele di fronte a questa tragedia.
Il giorno successivo Pete ed io andammo a cercare i cadaveri che giacevano a 6000 metri sopra una seraccata. Li seppellimmo in un crepaccio sentendoci avviliti e confusi per il contrasto con il nostro successo… e anche se non li avevamo conosciuti fu come se avessimo seppellito dei nostri amici e parte di noi stessi con loro.
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La scalata si faceva sempre più dura e i nostri progressi erano di una lentezza veramente allarmante. Raggiungemmo una barriera di strapiombi: Pete, che conduceva da primo, sparì dietro un tetto, dopo aver compiuto una traversata diagonale verso destra, ma tutto era difficile e penosamente lento.
Bravi, bravissimi ma, vado controcorrente, racconto di una una noia pazzesca, poi ci si chiede dove sono le donne? Di certo, tranne rarissimi casi, non a leggere resoconti come questi, trovo perfino inquietante che ci riesca un maschio.
Il libro,che tu Sandro hai tradotto pregevolmente rappresenta davvero un must della letteratura alpinistica.
Rarissimamente ho letto libri di montagna scritti così bene
Se si legge il libro con i diari di Tasker tanti aspetti e esperienze della sua vita si comprendono di più, anche i fatti, magari ci si meraviglia un po’ e si viene assaliti da tanti dubbi sulle storie che vengono raccontate da tanti anni.
Due grandi..nomi.! nella Storia dell’ Alpinismo , impresa fantastica..Saluti.G.C.
La prima volta che mi imbattei nel nome di Joe Tasker fu in occasione della pubblicazione sulla Rivista della Montagna del suo articolo sulla salita della parete est delle Grandes Jorasses. Poi fu la volta dell’articolo sul Changabang, qui riproposto.
Seguí il libro di Peter Boardman “La montagna di luce”, riedito di recente. Il libro non è altro che la mera cronaca di quella spedizione a due, niente di particolare dal punto di vista letterario. Tuttavia si lascia leggere in modo molto piacevole perché permeato di un’atmosfera di grandissima avventura e di totale libertà. Insomma, una cosa che, sul letto di morte, al momento del bilancio esistenziale, farebbe dire a chiunque di noi: “Io c’ero, quel giorno!”.
Immensi.
Accidenti che avventura!!
Giù il cappello!
“Pochi dati per l’impresa di Tasker e Boardman: più di 20 giorni trascorsi in parete, nessun aiuto esterno, nessun portatore, difficoltà di V e VI grado in arrampicata libera, di A2 e A3 in artificiale. Nessun chiodo ad espansione usato. E tutto questo su una parete alta 1600 m che si erge verticale e compatta su una montagna di quasi 7000 m. Ma i dati tecnici interessano poco. Interessa invece il lato umano di quest’impresa, come di tante altre del momento. E ci fa riflettere. Pare che per cercare la «vita» sia quasi necessario porre la stessa in discussione spingendosi ai limiti della morte.”
Per me questa salita dei due inglesi, è l’apoteosi dell’alpinismo classico, per concezione e realizzazione. Rimarrà insuperabile.