A trentaquattro anni esatti dalla scomparsa.
Chiedi chi era Gian Piero Motti (RE 009)
di Tiziano Gaia
Che cos’hanno in comune Enrico Camanni, Ugo Manera e Alessandro Gogna (che ringrazio per l’ospitalità concessami sul suo vivacissimo e ben frequentato blog)? La montagna, risponderà qualcuno. D’accordo, questo è sicuro; ma è troppo facile. La vera risposta è un’altra, e risponde al nome di Gian Piero Motti. Tutti e tre lo hanno conosciuto e frequentato, chi arrampicandoci insieme, chi condividendo lunghe giornate nella redazione dell’allor gloriosa e in seguito desaparecida Rivista della Montagna, chi raccogliendone confessioni, turbamenti, riflessioni. I tre, poi, sono altrettante voci, intense e autorevoli, alla base del docufilm Itaca nel Sole, cercando Gian Piero Motti (vedi anche https://gognablog.sherpa-gate.com/itaca-nel-sole/), prodotto da Stuffilm e diretto dal sottoscritto assieme a Fabio Mancari (tutte le info su www.itacanelsole.it, c’è anche la possibilità di sostenere il progetto: fine del piccolo spazio-pubblicità).
Non arrampico, non ho mai scritto di montagna e per me il concetto di “verticale” è legato soltanto a un modo di assaggiare i vini in serie, retaggio del mio passato di critico enologico. Eppure, quando qualche tempo fa un cugino, che invece arrampica benissimo, mi ha messo in mano una copia de I Falliti, con l’autore di quegli articoli è stato amore a prima vista. La stessa cosa so essere accaduta a Fabio, dopo che gli ho passato il libro. Che cosa affascina, oggi, di Gian Piero Motti, al punto da aver spinto l’editore Priuli&Verlucca a una recente (e subito fortunatissima) ristampa dei suoi scritti e due documentaristi a imbarcarsi nell’impresa di raccontare la sua vita per immagini?
Fabio Mancari. Foto: Stuffilm.
Una parziale risposta l’abbiamo avuta dai primi mesi di riprese e dai primi incontri con chi frequentò Motti, la cui scomparsa, è bene ricordarlo, risale ormai a ben 34 anni fa. Tutti “ce ne parlano da vivo”, come si dice ancora nelle mie terre albesi quando se ne va una persona importante, uno che ha lasciato il segno. Motti questo segno lo ha lasciato, è evidente, anche se resta ancora da capire fino in fondo di che cosa si tratti. Ognuno degli interpellati ha speso molte parole a cercare di mettere a fuoco uno spirito ribelle, ma non troppo, socialmente un po’ anarchico, ma neanche così tanto, bravo ad arrampicare, ma ancora di più a scrivere, e sensibile ai limiti della melanconia, tranne tutte le volte in cui era spassosamente terra terra e alla portata di qualunque mortale: è il mistero di Gian Piero Motti, quel suo essere sempre qualcos’altro rispetto a come te lo aspetteresti, lo yin e nel contempo lo yang, segno + e segno – allo stesso capo della batteria. Si apriva con voi? Sì, cioè, a ben pensarci… no. E amava l’alpinismo? Certo, almeno quando non lo detestava. Dalle testimonianze sta emergendo il ritratto di un giovane sfaccettato, titanico e vulnerabile, un po’ Holden, un po’ Werther, capace di fissare in pochi anni di carriera alpinistica e letteraria l’anima di un’epoca e di una generazione. Non starò qui a dilungarmi sulla sua biografia, già ampiamente setacciata sulle pagine di questo stesso blog; più che altro, si sarà capito, questo vuole essere uno “stato dell’arte” sulle riprese del film, a beneficio di quanti sono interessati al personaggio protagonista. Un ragazzo in perenne oscillazione tra la nostalgia del passato (non importa se realmente vissuto o immaginifico) e l’attesa di un futuro per sua definizione impalpabile, e a cui probabilmente sfuggiva il presente, sempre troppo effimero, banale e caciarone per chi ha in testa potenti disegni d’altrove. La sua analisi spietata sull’ambiente alpinistico, pur tenuta un po’ sottotraccia dal coro delle nostre voci (un istintivo meccanismo di autodifesa?), colpisce per l’estrema lucidità: che cosa sa ancora di montagna chi sa solo di montagna? Questo in pratica si chiede Gian Piero. Chi di noi non si è mai riconosciuto in una simile domanda, ciascuno nel proprio ambito di vita e di lavoro? Per me che negli anni scorsi degustavo vino fino a non poterne più, che cos’era ancora quel liquido nerastro o bianco trattenuto da un calice? Dov’era andato a finire il piacere della scoperta iniziale, il gusto di ciò che sta anche “intorno” a quell’oggetto, non soltanto “dentro”? Ecco perché Gian Piero Motti mi piace e ci piace: perché ha parlato per tanti, se non per tutti.
Tiziano Gaia domanda, Fabio Mancari riprende, Enrico Camanni risponde. Foto: Stuffilm.
Penso che ci sia un po’ di Motti in ciascuno di noi, ecco il punto nodale. Penso che le sue ansie, frustrazioni e disillusioni, ma anche i suoi cocenti slanci, entusiasmi e innamoramenti, si adattino meglio allo sfaccettato uomo occidentale del XXI secolo che alla sua versione manichea e dunque semplificata degli anni Sessanta e Settanta, in cui era tutto o bianco o nero – se proprio vogliamo esagerare con i colori, rosso. Non mi ha mai stupito il suo sostanziale disinteresse per le contestazioni sessantottine, né mi suona una dicotomia il fatto che, al contrario, amasse le icone culturali che il movimento politico dell’epoca ha eletto a propri leader – uno su tutti, il fresco premio Nobel in Lettaratura, Bob Dylan. Semmai questa è una conferma dell’eccezionalità di Gian Piero, quel suo essere calato nel mondo e nel tempo, eppure anche alieno e atemporale, come tutti i grandi artisti. Come accade solo in alcuni, virtuosi esempi, Motti è passato dalla contemporaneità (che faticava a reggere) al classicismo (che non ha più alcun peso), il suo ricordo si è conservato intatto e fresco come certe fotografie che non invecchiano e in definitiva Motti, nell’anno di grazia 2017, è più che mai attuale. Certo, c’è anche uno scotto da pagare: come tutti i classici, oltre che senza tempo è rimasto anche “senza privacy”, per così dire, cioè è diventato un inevitabile, inconsapevole patrimonio di tutti, tanto più che ci portiamo tutti dentro qualcosa di lui, chi più, chi meno. Ne sarebbe contento? Il diretto interessato, intendo, ci starebbe a questa sorta di spartizione delle sue vesti su scala pubblica e collettiva? Chi può dirlo. Ma è un altro problema che hanno i classici: raramente possono dire la loro su ciò che viene detto a loro riguardo; possono solo augurarsi di trovare epigoni intellettualmente onesti e artisticamente validi. È la promessa che abbiamo fatto anche noi quando siamo partiti, l’impegno solenne che ci siamo presi: rivestire Motti con la stessa verità ed eleganza da lui adoperate per spogliare se stesso e il mondo delle sue eterne fragilità e cicliche ipocrisie.
L’intervista a Ugo Manera. Foto: Stuffilm
Cosa sta diventando, dunque, questo lavoro su Gian Piero Motti, alla luce di quanto raccolto sin qui? Non di certo un film di pareti e tiri di corda, anche se questi elementi non possono mancare e infatti non mancheranno (ci sono già nel titolo, del resto); non un racconto sul ’68, anche se qualche piazza piena di gente toccherà pur metterla, se no al nostro quadro mancherebbe la cornice; nemmeno una riflessione sul significato dell’essere leader, perché se è vero che Motti aveva già dei discepoli quando era in vita, a conti fatti mi è parso di capire che non sia stato lui a sceglierseli, il che, bisogna ammetterlo, lo fa apparire piuttosto anomalo come maestro; infine, non sarà un film di tutti contro tutti – libera contro artificiale, giovane scarpetta contro vecchio scarpone, lotta con l’alpe vs mi ricordo montagne verdi. Sono tutte prospettive interessanti e autentiche, ma limitate, e comunque è un terreno (piuttosto minato, tra l’altro) già battuto da altri: non ci torneremo sopra se non per lo stretto indispensabile. E dunque, appurato tutto ciò che non sarà? Mi verrebbe da dire che sarà un film pieno di tutto il vuoto che Gian Piero Motti ha lasciato, ma mi rendo conto che non è nemmeno questo il punto, sarebbe solo un’operazione nostalgica. Abbiamo previsto un sottotitolo: “Cercando Gian Piero Motti”. La parola magica è “cercando”: sarà una recherche, un viaggio nelle parole, le metafore, le valli, le vie (con i loro nomi, importantissimi), le andate e i ritorni di Gian Piero. Ci stiamo attaccando alla sua poesia, perché in un’epoca liquida e di post-verità come la nostra è l’unica certezza che ci è rimasta, stiamo camminando nei suoi luoghi, riprendendo i suoi sentieri e mettendoci in ascolto, come era solito fare Gian Piero sedendo in un prato della Val Grande o interrogando grandi specchi di granito in Val dell’Orco. Dev’esserci ancora qualcosa, lassù, che ci parla di lui; qualcosa sarà pur rimasto delle atmosfere, delle immagini e del mito che Gian Piero prima vide con gli occhi, poi impresse con la parola e da qui, con una raffinata operazione di carta velina, passò pari pari alle pareti.
E se alla fine scoprissimo che non è rimasto nulla, travolto dal turbine dei tempi e dei cambiamenti, pazienza, anche quella sarà una risposta, anche quella sarà un’azione di cui rendere conto, sia pure per contrasto. Fabio ed io sappiamo bene che non sarà facile. Personalmente, a volte mi sembra di avere a che fare con un fantasma. La sua assenza, la carenza di materiale d’archivio, i tanti compagni di cordata già scomparsi, le resistenze di chi c’è ancora ma è restio a parlarne perché Motti appartiene ormai alla categoria dell’indicibile, tutto questo rappresenta quello che in gergo alpinistico si definirebbe “un problema”. Per Enrico Camanni, che da anni ne raccoglie e diffonde ogni articolo e saggio, Motti è soprattutto uno scrittore, per il compagno di avventure Manera è un forte scalatore, Gogna lo considera in buona sostanza un filosofo: ma chi è stato, realmente, Gian Piero Motti? Se sommiamo tutte le sue parti, quale tutto otteniamo? Se si interrogano gli alpinisti più giovani, se chiedi ai ragazzi di oggi chi era “GPM”, scopri che una percentuale sorprendentemente alta di loro sa che cos’ha fatto e detto, ti risponde che è “quello del Nuovo Mattino”, l’apritore di vie dai nomi troppo belli per essere vere, l’iniziatore di un modo nuovo di pensare e vivere la montagna. Può essere un indizio su cui orientare e proseguire la nostra ricerca. C’è anche un interessante “Tardo Pomeriggio” da esplorare, e se agganciamo il tutto alle “Antiche Sere” di Gian Piero, eccoci servito un intero giro di orologio, l’immagine più efficace per descrivere il tempo delle nostre vite. Sarà questa la chiave del nostro lavoro e della nostra indagine, per tutto quel che resta ancora da fare. Ci auguriamo di farlo bene, ci auguriamo anche di fare presto; di certo lo faremo comunque, con buona pace degli scettici e di chi preferirebbe “quell’uomo alto, fragile e bello” (cit. Andrea Gobetti) al sicuro in un bozzolo di crisalide, anziché libero e leggero come una farfalla in volo in un lungo giorno di inizio estate.
6
Per me GPM è stato assieme a pochi altri il più acuto intellettuale che ha ricercato il senso dell’alpinismo nel passato e nel presente, in particolare ha saputo individuare i veri motivi per i quali si dedica molta della propria vita ad una attività che continua a misurarsi con la negazione della vita, la morte.
Forse la sua storia personale sarebbe stata diversa e, per me, migliore, se fosse riuscito a dedicarsi all’alpinismo nel modo che gli aveva suggerito Guido Rossa: “…fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria assieme agli amici.”
Tutto sembra muoversi in cicli. Quando gli Stadio e Gianni Morandi cantavano Chiedi chi erano i Beatles c’era l’esigenza di spiegarlo ai giovani ignoranti degli anni ottanta. Oggi ogni giovane con un po’ di cervello sa benissimo chi erano i Beatles e magari li ascolta pure.
Nel’alpinismo sembra successo un po’ lo stesso. Oggi molti giovani sanno di Motti (vorrei poi sapere davvero quanti…) mentre negli anni ’90 nessuno se lo filava. A volte ritornano, e meno male che ogni tanto quelli che ritornano sono di quelli buoni.
chi è stato Motti?
Non mi sogno certamente di rispondere. Certamente una persona che si faceva tante domande: su quello che faceva, sul perchè e sul come lo faceva.
Sono d’accordo con Alessandro: un filosofo.
Andate avanti. E grazie!