Mario Marone lo definirei un simpatico anarchico. Laureato in chimica, lavora con entusiasmo nella ricerca scientifica e si diletta di invenzioni un po’ strane in campo alpinistico: «fifi telescopici» per raggiungere i chiodi, un famoso piolet-zappa per la neve inconsistente, il piolet ice-six Gabarrou raddrizzato e piccozze con saldature sperimentali (pericolosissime).
Accademico, presidente del Gruppo Alta Montagna, ha iniziato un certo tipo di alpinismo dopo i 45 anni e in poche stagioni ha realizzato delle splendide salite. Più invecchia, più diventa matto: dopo i cinquanta si è appassionato alle solitarie. E’ famoso il suo tentativo alla Nord della Dent d’Hérens, costatogli tre bivacchi e la tessera del CAI, che dovette lasciare in mano ai soccorritori svizzeri (da lui non chiamati), dopo una vivace discussione per non essere trascinato a viva forza sull’elicottero. A proposito di questo episodio consiglio vivamente il suo articolo E l’amata mi respinse, apparso su Liberi cieli 1979 del CAI-UGET.
Benché sposato e con famiglia, gira sempre in bici, o in moto e non vuol saperne dell’automobile.
Non è poi raro che su di una Nord esibisca i calzoni di pelle nera da motociclista, molto adatti per un’eventuale scivolata. Mario è decisamente un personaggio diverso dal solito, controcorrente, che vale la pena di conoscere.
Divertentissimo compagno di cordata, in montagna non conosce esitazioni ed è sempre sereno e di buon umore, capace di raccontare una barzelletta nel momento di maggior tensione.
Scrive per gli amici in modo semplice e schietto, sdrammatizzando anche salite come la Dent Blanche, dove tutto non è poi andato tanto liscio. Per fortuna appartiene al genere di coloro che in montagna si divertono ancora.
Roberto Roby Bianco
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Dent Blanche, Nord dimenticata
di Mario Marone
(pubblicata su Rivista Mensile del CAI, mag-giu 1981)
Dent Blanche – parete nord – via Vaucher con variante diretta Bournissen. Prima salita italiana, 26 e 27 luglio 1980, Roberto Bianco, Mario Marone ed Enrico Pessiva.
La Nord della Dent Blanche vista dal Bishorn. Foto: Andrea Rolando
Certe salite prima le devi assaggiare, per ritentare, rincorrerle sbuffando, magari senza mai riuscire ad acchiapparle. Altre ti cascano nel piatto: basta allungare una mano e sono tue. La Nord della Dent Blanche me l’aveva proposta Roby, che già la meditava da tempo. Ieri avevamo raggiunto il bivacco del Col de la Dent Blanche (una faticaccia, questo sì) e ora avevamo già superato i primi trecentocinquanta metri, quasi un terzo della parete. Salivamo a tiri alterni, in diagonale, su un «misto» innevato che richiedeva molta attenzione. In queste salite l’importante è cominciare, il resto viene da sé. Quando mi trovo alla base di una Nord, generalmente sormontata dal solito seracco sospeso o da una cornice strapiombante, mi sento tranquillo, sicuro. E’ poi anche vero che queste Nord ti fregano non una, ma due o anche tre volte; eppure quando dalla crepaccia terminale guardo in su dimentico le fregature passate e mi sento la salita nel sacco. La roccia, al contrario, mi preoccupa; più la vedo salda, appigliata e soleggiata e più temo di restare incrodato dopo pochi metri. E se il compagno mi propone: «Allora, comincio io?», lo guardo riconoscente come se mi avesse offerto una cena. E’ il caratteristico «complesso del ghiacciatore» che, sia pure in forma meno grave, affligge anche Roberto Bianco. Il quale ora, guardando per l’ennesima volta verso ovest, mi chiede se ritengo ancora il caso di proseguire.
Mario Marone e Roberto Bianco sui primi tiri della Nord della Dent Blanche. Sullo sfondo il bivacco. Foto: Enrico Pessiva
Altri quattro o cinque tiri e la neve che già cadeva a tratti, alternata a brevi schiarite, comincia a scivolare lungo il pendio, continua come una cascata. Non servono molte parole, è il momento del «demi tour». Lo sviluppo diagonale dell’itinerario ci obbliga a scendere a tiri alterni; il ghiaccio si è ricoperto di neve polverosa che maschera le rocce affioranti, le nostre impronte spariscono in un paio di minuti. Ricordo ancora come un incubo la risalita al Col de la Dent Blanche per raggiungere il bivacco fisso: cinque o sei metri sopra di me Roberto forava la cornice formata dal vento, staccando enormi blocchi di neve che si infilavano quasi interamente lungo la mia schiena. Ricordo il bivacco raggiunto a tarda sera alla luce dei lampi e la musica dei denti battuti insieme per tutta la notte.
Acqua passata, ormai. In una stupenda notte stellata ritentiamo. Per non ripeterci scegliamo l’itinerario più diretto della via Vaucher, il quale, sia pure con maggiori difficoltà, evita i lunghi tratti in diagonale. E’ con noi Enrico Pessiva. Pare ci sia del V, o V+. Non è facile classificare le difficoltà quando la roccia rivestita di vetrato è nascosta da farina inconsistente, quando gli appigli devono essere indovinati sotto la neve e tengono solo se cementati dal gelo e quando l’aderenza è quella offerta dai ramponi. L’importante è avere punti di fermata sicuri. Roberto attacca deciso, ma progredisce lentamente; questo è forse il tiro più impegnativo della salita. Il sole comincia a lambire la parete, provocando le prime scariche. Allo sperone segue un ripido pendio ghiacciato ricoperto di neve fradicia, sul quale si alternano scariche di ghiaccio e… cadute di massi formato valigia. Il rumore dei sassi che ti passano accanto è simile al pesante battito d’ali delle pernici di monte, ma qui di pernici proprio non se ne vedono. Più in alto troviamo un pessimo salto roccioso, la cui struttura ricorda pile di cubetti per pavimentazione stradale: se ne tocchi uno solo, crolla tutto.
Mario Marone sulla parete nord della Dent Blanche, 1980. Foto: Enrico Pessiva
L’arrampicata non è né elegante, né sicura e, se la consideri passaggio per passaggio, nemmeno molto divertente. Eppure una grande parete come questa ha nel suo insieme una bellezza severa che attira e un fascino strano, non facile a spiegarsi: o sei malato di Nord o certe cose proprio non le capisci. Si va in testa a turno e proprio a me capita l’unica fascia rocciosa salda, ma ripida. Pianto chiodi che non tengono, indugio, tento in altre direzioni che già vedo senza uscita; mi sento terribilmente cannibale. Finalmente un blocchetto ben piazzato mi dà fiducia e termino il tiro. L’impegno della salita ci aveva fatto trascurare grosse nubi cumuliformi che in poco tempo hanno chiuso l’orizzonte ed ora cominciano a rovesciare il loro contenuto: palline tonde, porose ma dure, grandi quanto grani di riso. E’ il tipico temporale d’alta quota: siamo ormai a 4150 m, secondo il mio altimetro. Il temporale aumenta rumorosamente d’intensità e abbiamo l’impressione che qualcuno rovesci sulle nostre teste secchi e secchi di ghiaccio tritato. La parete è una continua, scrosciante cascata di grandine, che copre tutte le sporgenze. Ciascuno è bloccato nella propria posizione: impossibile muoversi, impossibile parlarsi. Eppure dobbiamo a qualunque costo uscire in vetta: non è soltanto una questione d’orgoglio. Ridiscendere la parete sarebbe troppo difficile e rischioso. Appena la violenza della grandinata si attenua riprendiamo a salire.
La notte è ormai prossima e lampi violacei la rischiarano meglio delle nostre lampade frontali. Qui la parete è concava e non risentiamo gli effetti delle scariche elettriche: siamo ben lieti di non avere ancora raggiunto la cresta sommitale. Roby in breve (diciamo un’ora abbondante) allestisce un «eccellente» posto di bivacco: il migliore che ha potuto trovare, dice lui. Sfortunatamente non ha torto. Per sé ha piantato un chiodo «abbastanza» buono, mentre Enrico ed io resteremo appesi a un blocchetto che tiene bene, purché sollecitato nella giusta direzione. Non abbiamo la possibilità di sfilare i ramponi che, mordendo il ghiaccio del pendio, ci permettono di rimanere accucciati sui talloni, con la schiena, o il sedere, appoggiati al sacco. Di accendere il fornello e di mangiare non se ne parla; del resto ce ne manca la voglia. Il ticchettio della neve sui caschi concilierebbe il sonno, in altre circostanze; ma qui dormire è veramente difficile. Meglio non guardare l’orologio, ci si demoralizza inutilmente.
Mario Marone nella parte mediana della parete. Foto: Enrico Pessiva.
Fortunatamente il cielo si rischiara e all’alba è quasi sereno. Tuttavia gli appigli sono sepolti da 15 cm di neve, che costringe a un faticoso e gelido lavoro di scavo; la roccia è incredibilmente frantumata, i punti di sosta non sempre sicuri: gli ultimi duecento metri ci richiederanno altre cinque ore. Un’ultima, pazzesca traversata di venti metri, i piedi immersi nella neve polverosa all’inutile ricerca di un appoggio e le mani su grossi lastroni che crollano appena li afferri, poi la vetta. Una vera sosta, finalmente seduti; e il fornello che fonde litri e litri di neve, e grandi bevute di tè, caffè, aranciata. E la gioia di aver superato quella parete ostile, insicura, ma così attraente. Ben difficilmente ci ritorneremo, eppure per niente rinunceremmo alla soddisfazione di aver potuto concludere questa «grande course».
L’alpinista è uno strano individuo: Gervasutti scriveva, a ragione, che una vetta raggiunta porterebbe a una delusione se non fosse possibile cercare subito una nuova vetta da raggiungere e i nostri discorsi riguardano, appunto, la prossima meta. Le più belle cime del Vallese sono intorno a noi; Enrico e io parliamo del Cervino mentre Roberto, che ha già salito la Schmid, fissa con insistenza i seracchi della Dent d’Hérens. Certamente ritorneremo ancora su queste montagne. Nebbie salgono dalla Valle di Zermatt mentre ci avviamo lungo la cresta sud. Una facile cresta di neve, un torrione roccioso, qualche doppia. Scendo per ultimo; devo procedere in diagonale, puntando i piedi, mentre il sacco mi sbilancia e mi vorrebbe ributtare sulla parete. Al termine tento il ricupero, ma la corda non scorre: risalgo rabbioso, il sacco mi trascina ancora sul fianco sinistro della cresta. Ridiscendo, porgo il sacco a Roby, che lo depone accanto al suo e risalgo, alleggerito, per completare la manovra.
Vicino alla vetta, su terreno misto ricoperto di neve fresca. Foto: Mario Marone
Un tonfo non mi scuote, sono troppo occupato. Ma Roberto urla: – Il mio sacco! – e un attimo dopo aggiunge più pacato, senza punti esclamativi – Anche il tuo. Lentamente mi rendo conto della situazione: la sella nevosa, sulla quale erano appoggiati i due sacchi e dove, alcuni minuti prima sedevano Roberto ed Enrico, è crollata sul ghiacciaio di Schönbiel, con un salto di un migliaio di metri. Con gli zaini è andata perduta tutta la nostra attrezzatura. Tra qualche giorno saremo riveriti dai fornitori di articoli sportivi, ma ora restiamo in maniche di camicia a 4000 m. Dobbiamo assolutamente scendere a valle prima di sera, anche se non sarà facile senza piccozza né ramponi, senza guanti, chiodi da ghiaccio e tutto il resto; fortunatamente Enrico ha ancora tutto il suo materiale e ci può aiutare. La discesa del resto è ancora lunga, ma non difficile. Il silenzio della montagna è di tanto in tanto interrotto dalle lamentazioni funebri di Roby che piange il suo prezioso Rolex, la Rollei 35 o altri utili e costosi aggeggi. La cresta termina praticamente sopra il tetto del rifugio della Dent Blanche (da non confondere con il bivacco del Col de la Dent Blanche, situato sul versante opposto) e qui contavamo di festeggiare degnamente l’impresa, con l’aiuto di una banconota da 100 franchi. Che purtroppo, me ne accorgo ora, era contenuta in una tasca del mio zaino. Mi siedo sconsolato sul muretto, dicendo cose che è bene non riportare. Una simpatica guida ticinese, conosciuta la disavventura, insiste per offrirci tre graditissime birre: grazie di cuore!
Raggiungiamo Ferpècle alle 10 suonate, suonati anche noi. Qui raclette, carne secca dei Grigioni e, soprattutto, una buona bevuta di Fendant ci rimettono illusoriamente in forma. Il rientro a tiri alterni di 90 km sarà la parte più rischiosa della nostra avventura.
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Ricordo con piacere il racconto di Mario Marone sulla Dent Blanche. A me rammentò quello di Renato Chabod sulla sua salita allo Sperone Croz con Giusto Gervasutti: un alpinismo serio e allegro allo stesso tempo, tra amici fedeli e dalla mano sicura.
Che giorni!
direi che lo stile ironico e sdrammatizzante di Marone è piuttosto britisch. Dove la parte piena del bicchiere è sempre in pimo piano. Non appartiene ne certo a quello bonattiano.
Bello e divertente vivere in questo modo le più impegnative avventure.