Estate 1929: 90 anni fa. Uno spartiacque storico nell’epopea del VI grado: termina l’incontrastata supremazia della Scuola di Monaco e inizia la rivincita degli italiani. Negli anni precedenti alla base della via Solleder sulla Nord-ovest della Civetta c’era un cartello emblematico: “Non è pane per gli italiani”. Nel ’29, però, si registrano le prime due vie italiane di VI grado: quella di Emilio Comici e soci alla Sorella di Mezzo del Sorapiss e quella di Videsott-Rudatis allo spigolo sud-ovest della Cima della Busazza. Quest’ultima ascensione è avvolta da un contesto di magia, sia per la personalità quasi esoterica di Rudatis, sia per il talento arrampicatorio pressoché istintivo di Videsott, sia per l’episodio del sogno notturno che ha permesso ai due di scovare l’attacco della via. Il clima magico dell’evento è ben raccontato da Enrico Camanni in un testo che merita la rilettura a distanza di 21 anni dalla sua pubblicazione su Alp (Carlo Crovella).
Domenico, ho fatto un sogno
di Enrico Camanni
(pubblicato su Alp n. 159, luglio 1998)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(2)
Emil Solleder non conosceva la parete della Civetta mentre, una brumosa sera di agosto del 1925, saliva tutto solo tra i dossi verdi del Col di Lana e i crateri della guerra ancora vicina, doloroso ricordo nella pace del tramonto. Improvvisamente si aprì un varco nelle nebbie: «È realtà? Non avevo mai visto una parete simile sulle Alpi. In pochi istanti la montagna si trova nel pieno splendore del sole serale. Come una regina, si alza in tutta la sua ampiezza, coperta di neve fresca fino alla base. È vero, è degna del tempo e delle energie che i migliori le hanno dedicato, corteggiandone la vergine bellezza. Questo monte è un magnete?».

Poche sere più tardi Solleder galoppava verso la cima della Civetta con Gustav Lettenbauer, dopo aver scalato in una sola giornata la più spaventosa parete delle Dolomiti. Il magnete li aveva attratti verso la cresta liberatrice, in mezzo a strapiombi, gole, ghiaie, frane, cascate, trabocchetti; li aveva guidati in cima come la stella di Magellano. Fu un’impresa storica: per la parete, per gli uomini, per la velocità, per le difficoltà. Fu l’affermazione della Scuola di Monaco, e fu anche l’estrema materializzazione della scala delle difficoltà alpinistiche appena inaugurata dalla stessa scuola: il sesto grado, il limite del proibito, la soglia dell’assoluto. Con la Solleder sembra chiudersi definitivamente l’epoca tragica della prima guerra mondiale e sembra aprirsi un tempo per nuove passioni. L’impresa è destinata a imprimere una svolta e a costituire banco di prova, pietra di paragone e simbolo del nascente alpinismo, anticipando di cinque stagioni l’epopea degli anni Trenta.

Domenico Rudatis commenta con enfasi e onestà: «L’ideale del nuovo comandamento dell’alpinismo riesalta più che mai l’affascinante assillo del “problema primo” (la direttissima alla Civetta, ndr). Qui si concentrano desideri, speranze e sogni di tanti stranieri, dominati dall’incomparabile bellezza dell’alpe nostra, e si protendono volontà saldissime, seguitano osservazioni e prove, l’evento infine non tarda». Nel 1925 Rudatis ha 27 anni. Due anni più tardi, con la monografia in due puntate delle Rivelazioni dolomitiche sulla Rivista mensile del CAI, si presenta come il più profondo conoscitore del massiccio della Civetta e come il più appassionato interprete della locale storia alpinistica. È un estimatore degli arrampicatori tedeschi, dai quali ha assorbito molte suggestioni filosofiche, ma accarezza l’idea di un riscatto italiano sulle rocce delle sue montagne. Coltiva l’ideale estetico di un itinerario ancora più puro, ancora più diretto, che raggiunga la cresta del monte senza dover venire a patti neppure con le leggi della geologia.
Ci prova il 19 agosto 1928, con Videsott, sul pilastro del Pan di Zucchero: «Un regolare, monolitico, gigantesco pilastro che si avventa nello spazio per quasi settecento metri; ma così strettamente inquadrato nella straordinaria sfilata delle rupi immani, bisogna vederlo più da vicino per provare tutta l’emozione che suscita la sua terrificante fisionomia. Dal versante opposto, ertissimo ed estremamente liscio e rotondo atterrisce egualmente e suggerì a Plaichinger l’appellativo di Pan di Zucchero, abbastanza appropriato per la forma di quel versante, ma infinitamente ironico per la dolcezza».

Domenico Rudatis è soltanto un buon arrampicatore, «un uomo del quinto grado» lo ha definito di recente Riccardo Cassin; la sua forza non sta nei muscoli ma nelle idee, eppure – caso anomalo nella storia – le sue intuizioni e il carisma intellettuale ne fanno un alpinista di avanguardia. Si lega per due o tre stagioni con Renzo Videsott, giovane talento trentino, classe 1904, arrampicatore istintuale e geniale, devoto compagno di Giorgio Graffer fino alla sua morte in guerra nei cieli dell’Albania, e amico di Pino Prati fino alla sua caduta sul Campanile Basso. Rudatis e Videsott si ritrovano insieme all’Università di Torino, dove Domenico frequenta il Politecnico senza diventare ingegnere e Renzo si laurea nel 1928 in Veterinaria.
«Videsott era uomo d’azione e poco interessato alle mie investigazioni storiche e tecniche. E tanto meno alle mie esplorazioni spirituali» scrive Rudatis. «Era sua convinzione che tutte le maggiori esperienze personali in montagna non fossero comunicabili e che ogni tentativo di comunicazione fosse quasi una dispersione del proprio patrimonio interiore. In questo senso egli era abbastanza vicino ai mistici, ma il suo spiccatissimo senso della natura aveva molte sfumature pagane».

Rudatis e Videsott sono una cordata ben assortita. Pensano in grande. Nell’estate del 1928, dalla Torre di Babele, osservano con occhi incantati il ciclopico spigolo della Busazza che precipita verso le oasi verdi del Col Negro di Pelsa, dove si sta costruendo il rifugio Vazzolèr. È una rivelazione. «Eccezionale – dice Rudatis – Sarebbe una bella risposta alla Solleder…».
«Si può tentare – risponde Videsott – La prossima estate andiamo a vedere».
Nel 1929 si allenano sull’interminabile cresta nord della Civetta: Castello di Valgrande, Torre da Lago, Pan di Zucchero, Punta Civetta; li accompagna Giorgio Graffer, slegato, «come il leggendario Sigfrido magicamente protetto nella sua lotta per la conquista di Brunilde». Poi viene l’ora della Busazza. Rudatis vuole salire direttamente dal basso, lungo la linea più estetica, ma lo spigolo superiore è difeso da una prima parte friabile e complessa, dove si fa fatica a immaginare una via di salita (anche se la difficoltà è in gran parte dovuta a un errore di prospettiva, come testimonia la relazione qui a fianco). In molti, dalla valle, hanno esaminato la montagna fino a consumarla con gli occhi, e forse qualcuno è anche salito sotto le prime rocce in perlustrazione. Ma niente da fare, su certe muraglie è inutile cercare di memorizzare gli anfratti, le crepe, gli strapiombi, perché il rebus si confonde una volta di più e la cima sfugge via beffarda nelle nebbie. Anche Videsott e Rudatis scrutano la montagna dal nuovo rifugio Vazzolèr, ma non si danno pena per l’itinerario: «Il sole scendeva verso lontani orizzonti al di là di altre montagne. E le ultime luci profilavano le creste terminali e le vette più alte con un vivido saluto come una luminosa promessa di ritorno».

La mattina all’alba Videsott lancia il segnale della sveglia e si presenta a colazione con uno sguardo carbonaro: «Domenico – dice – stanotte ho fatto un sogno. Ho sognato molto chiaramente un grande camino, ma non ho ben capito dove si trova». Poi aggiunge: «Penso sia vicino allo spigolo della Busazza, ma non ricordo più».
«Bene – risponde Rudatis – questo è un buon segno. Allora andiamo a cercare il tuo camino».
«D’accordo. Andiamo».
Con gli occhi alzati si destreggiano tra i mughi verso la grande incognita, ma sentono che qualche spirito li guiderà. Infatti, a sinistra del filo di spigolo, scoprono che la parete è incisa da una profonda gola da erosione, cascata di gronda durante i temporali e ricettacolo di muffa nei giorni senza pioggia. Non hanno niente da bere né da mangiare, non portano abiti pesanti, e soltanto due o tre chiodi ritorti pendolano con il martello dalle loro cinture. Eppure Videsott non si scompone e, come Solleder sulla Civetta, sembra calamitato verso il camino del sogno.

Un ciclope alto dieci metri potrebbe tentare in spaccata, dato che le pareti distano fino a sei metri tra loro, ma Videsott deve infilarsi come un insetto nell’antro scuro e verdastro, a raspare sul fondo e a divaricare le gambe fino alla caduta lungo le viscide fessure ossidate dall’acqua. Eppure non dice neanche una parola, non si cura dell’assicurazione, non esita un istante. Arrampica d’istinto e con miracoli di equilibrio approda a un antro ancora più sinistro, sotto un minaccioso blocco incastrato che sbarra il camino e il cammino. «Scusa, Domenico, se ho piantato quel chiodo. Forse non era poi veramente necessario».
«Era più che necessario. Hai fatto un sesto grado!». Per due ore battono i denti sotto il soffitto opprimente che schiaccia le loro speranze. Ci vorrebbe una piramide umana, ma sono soltanto in due e non andrebbero lontano. Eppure Videsott non demorde: è la sua giornata. Si fascia la mano sinistra con un fazzoletto rosso e, sfruttando la trazione della corda, incastra il pugno nella fessura del soffitto. Poi, arcuando la schiena e il corpo intero nel vuoto, alza una gamba e incastra il piede nella crepa. Alla fine le mani e i piedi si torcono tutti e quattro nella fessura, e in breve Videsott è sopra lo strapiombo. Si siede, si rilassa, respira. Ha fatto bene a seguire l’ispirazione.

Più in alto escono sulle cenge liberatorie e bivaccano digiuni tra i baranci, con quel poco che hanno addosso. Le nebbie fluttuano sulla Valle dei Cantoni come un mare impalpabile. Videsott canta nella notte una nenia friulana. Ora gli sembra di toccare il cielo.
Così venne aperta la via verso il grande spigolo superiore della Busazza. Alla fine di agosto del 1929 Renzo Videsott e Domenico Rudatis chiusero il conto insieme al famoso alpinista tedesco Leo Rittler, il primo ripetitore della Solleder, che salì la prima parte da capocordata e lasciò a Videsott il diritto di condurre nella sezione ancora inesplorata. In cima disse al giovane: «Bravo Renzo, una grande via; i passaggi nel camino sono duri come quelli scalati da Emil e Gustav. Complimenti agli italiani».
Fonti
• Emil Solleder, La parete nord del Monte Civetta in Le Dolomiti Bellunesi, estate 1994;
• Domenico Rudatis, Liberazione, Nuovi Sentieri, Belluno, 1985;
• Piero Rossi, L’epoca d’oro del sesto grado in La grande Civetta (a cura di Alfonso Bernardi), Zanichelli, Bologna 1971;
• Enrico Camanni, Le due vite di Renzo Videsott in La montagna corrotta, Vivalda, Torino, 1988.
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