Estate 1962 – 2 (2-2) (AG 1962-010)
(dal mio diario, ottobre 1962)
Il 5 agosto 1962 mi risolvo a fare 10 km di marcia sulla statale della Valle di Fassa, dal km 49 al km 39, poco prima di Predazzo. Tempo impiegato: 73’ 56”. Il tutto sotto lo sguardo ironico dei passeggeri delle auto. A ogni sorriso malcelato rispondo dentro di me con imprecazioni, e cerco di andare ancora più veloce. Ritorno a piedi, a parte un passaggio da Forno a Moena.
7 agosto 1962. Parto da casa e salgo a malga Palua, poi alla provinciale del Passo di Costalunga fino a un sentiero poco percorso per il rifugio Roda di Vaèl. Molto ripido, poco curato. Mi ricongiungo al 549 e arrivo al rifugio. Percorro per 600 metri il 543 per il Passo delle Cigolade, poi lo lascio per andare a nord-ovest su un pendio di ghiaia minuta e per imboccare un aspro vallone, pieno di massi, che fa superare la bastionata della Busa di Vaèl. In breve sono al Passo del Vajolon, dove tira vento forte. Attacco subito, dopo aver incontrato la solita famigliola tedesca, la larga cresta settentrionale della Roda di Vaèl. Dopo 250 metri di dislivello, sono in cima, a 2806 m. Ora piove, io mi copro e mangio. Riscendo per lo stesso itinerario al Passo del Vajolon. Ha smesso di piovere, così salgo sul Testone del Vajolon, un rilievo secondario tra la Roda di Vaèl a sud e la Sforcella a nord. In cima c’è un isolato spuntone, che salgo con qualche difficoltà. Riscendo al Passo del Vajolon, il vento è ancora più forte. Decido di scendere a sud-ovest per il canale detritico, raggiungo il sentiero che mi porta al rifugio Coronelle. Da qui al passo omonimo e seguente discesa al rifugio Gardeccia. Qui cerco un masso, del quale mi ha parlato Paolo Baldi, sul quale insegnano ad arrampicare quelli del corso di roccia. Il mio scopo è quello di salire un diedro sul quale Paolo è salito assicurato con la corda dall’alto. Lo trovo, salgo penosamente fino a metà, poi per paura torno indietro. Sceso a terra, mi siedo esausto. Ritento. Per mezzo di una maniglia che non avevo visto salgo ancora più su di prima. Potrei farcela, ma qualcosa mi dice di non essere imprudente. Riscendo.
Salendo alla Roda di Vaèl per la cresta nord (oggi c’è una via ferrata). Sullo sfondo, Testone del Vajolon, Sforcella e Catinaccio
16 agosto 1962. Ormai non posso più fare molte gite, perché c’è mio padre. Non quelle almeno che piacciono a me: devono essere facili, adatte anche alla mamma. da qualche giorno non sono a posto d’intestino, così nella salita in corriera al Passo Pordoi vomito in un sacchetto di plastica, cercando di non disturbare.
Arrivato al passo, mi rimetto in forma con un bel bicchierino di fernet e chiedo il permesso di salire sul Sass Beccé. Mio padre guarda la montagna e mi lascia andare di malavoglia. Dalla cima saluto con le mani i miei, che fanno altrettanto (anche se la mamma in realtà non mi vede, essendo un po’ miope). Dopo aver mangiato, andiamo al Col dei Rossi, dal quale ci affacciamo sulla valle di Penia, con la Marmolada in tutto il suo splendore. Da lì ho programmato di scendere alla selletta (che purtroppo non ha nome, quindi non è valida per la mia collezione di passi) che divide il Col dei Rossi dal Col de’ Tena. Credevo fosse facile, invece è ripido e cosparso di sassi e rododendri, una bella sofferenza per la mamma. Raggiunta la selletta, individuiamo il sentiero che scende. Scatto verso la vetta del Col de’ Tena, ritorno dai miei e cominciamo a scendere. senza incidenti, raggiungiamo una capanna segnata sulla cartina, ma poi perdiamo la strada. La pioggia, manco a dirlo, incombe su di noi che scendiamo dei ripidi costoni boschivi, tra sterpi, brughiere e aghi di pino, andando un po’ alla cieca. Fossimo soli io e mio padre sarebbe nulla, ma la mamma scivola continuamente. La pendenza diminuisce. Per poco seguiamo una strada che sembra fatta dai boscaioli. poi questa s’interrompe e noi ci troviamo in un gruppo di tronchi tagliati da poco. Seguiamo la massima pendenza, ma dopo un po’ ci troviamo la strada sbarrata da salti rocciosi. Dobbiamo così tornare indietro, un disastro per la mamma, ora ridotta a uno straccio. Finalmente riesco a passare un ruscello, in un terreno davvero accidentato. Oltre c’è un sentierino, davvero esile, che però non si perde. Ora pioviggina, ma finalmente ci ritroviamo fuori dal bosco, sui prati sopra Penia. Raggiungiamo un bar ad Alba, dove ci rintaniamo per sfuggire alla pioggia. Raggiunta poi Canazei a piedi, con la corriera andiamo a casa, dove incontriamo la nonna (che non era venuta con noi, per fortuna).
Il Sass Beccé (con la cima in ombra) e la Marmolada
Già dall’anno scorso conosciamo i sigg. Grassi, marito e moglie. Lui siciliano, lei triestina, abitanti a Roma. Il 20 agosto partiamo per una gita con il sig. Alfio Grassi, ma senza sua moglie che non può fare alcun genere di sforzo. Con lui siamo dunque in quattro. Dal Passo di San Pellegrino occorre salire per 200 metri per raggiungere una selletta tra le Pale Gargo e il Col Margherita. La comitiva procede lemme lemme, con molti riposi (durante i quali io mi sbizzarrisco su qualunque masso sia a portata). Arrivo alla selletta per primo e ne approfitto per salire in vetta alle Pale Gargo 2206 m. Dalla selletta lo scenario è magnifico, in fondo a una conca erbosa è il Lago Cavia. Per poter raggiungere il Passo Valles occorre oltrepassare il lago e salire alla Forcella di Pradazzo (o degli Zingari). Questa forcella è più o meno alla nostra attuale altezza, e per raggiungerla ci sono due modi. Scelgo ovviamente quello che mi permette di fare un monte in più. Con la scusa che così non perdono dislivello li consiglio la traversata per un sentierino che mena abbastanza in piano alla Forcella di Pradazzo, mentre io scendo vero il lago ma poi salgo il Col Torond 2119 m, un monticiattolo d’infima importanza. Sceso da lì, traverso la diga e cerco disperatamente di arrivare primo alla Forcella di Pradazzo, senza riuscirci perché arriviamo assieme. Dalla forcella io salgo anche il Monte Pradazzo 2276 m, altro rilievo di scarsissima entità. Mi sto stufando, ma non ne posso fare a meno…
Il lago artificiale di Cavia. Nello sfondo si vedono la catena della Cima dell’Uomo e il Sasso di Valfredda, spunta anche la Marmolada
Tornato in compagnia, mi metto in testa. Intanto inizia a piovere (cosa strana, eh?), così affrettiamo il passo e dopo breve siamo al Passo Valles. Dopo un bel pasto con brodo e strudel e dopo il caffè, guardiamo l’orario delle corriere. Sorpresa! Le corse sono abolite. Ci prepariamo a farcela a piedi: sono 11 km fino a Paneveggio. Tra un rovescio e l’altro riusciamo a non bagnarci troppo. Nell’attesa della corriera, un tale ci asfissia con improbabili racconti e fanfaronate sui funghi che ha trovato.
I giorni seguenti li passo con Paolo Baldi a fare progetti. Il 22 agosto mi trovo alla pensione Rosalpina alla ricerca di amici per eventuali gite. Sono fortunato, perché mi metto a parlare con Paolo Cutolo, di Roma, amico di Pio Baldi, il cugino di Paolo. Entrambi hanno familiarità con la roccia e con le tecniche. Alle quattro di pomeriggio andiamo a un masso sopra al paese di Soraga. Io sono già pronto quando gli altri invece sono ancora lì a cincischiare. Alla fine siamo in sette. Abbiamo una bella corda da 40 metri. Il roccione non è del tutto staccato dal fianco del monte: c’è da fare un camino fino a un pilastro, poi una traversata in parete per raggiungere una placca fessurata. pio va su per la via più facile e butta giù la corda. Comincio io. Peccato che non so legarmi, così Paolo mi fa il nodo. C’è anche un’altra via fattibile, ma a me sembra impossibile. Mi dicono di fare quella. Non ho la minima idea di cosa deve fare un secondo di cordata, così inizio a tirarmi su sulla corda come si fa sulla fune di una palestra, mentre Pio urla: “Cosa succede? Chi è quello scemo che tira?”.
Mi fanno capire che ho perso l’occasione, devo dare il capo della corda a Paolo, il quale sale per l’altra via e bene. Ributtano giù la corda e questa volta si lega Paolo Cutolo. Anche lui riesce nell’intento. Io intanto sono salito per il camino fino al pilastro. Mi lego e comincio a traversare, avendo ormai capito il meccanismo dell’assicurazione. Ci sono due maniglie laterali e, dopo un po’ d’esitazione, con l’aiuto di Paolo Baldi che mi dice dove mettere i piedi, riesco a passare sulla placca e poi sulla fessura. Poi guardo gli altri cercare di salire per dove io avevo provato in modo così poco ortodosso. Ho la soddisfazione di vedere che nessuno ci riesce. Sento parlare di Dülfer, di Comici, di manovre con corda e moschettoni, ma ci capisco poco. Sono già le 19, dobbiamo andarcene, e io sono di umore nero. Ne ho ancora di cose da imparare! Non so nulla di nulla di tecnica, e quanto a pratica ho solo volontà, non capacità. Non ho ancora visto un chiodo se non già infisso nella roccia e ho visto un solo e miserevole moschettone che non so neppure di preciso a cosa serva. Non so fare alcun nodo.
24 agosto 1962. Ultima gita della stagione, con mio padre e il sig. Alfio Grasso. Andiamo al sentiero del Masaré, gita già fatta con la mamma e la nonna due anni fa. Il sig. Alfio soffre di vertigini, quindi non è mai salito in seggiovia: il che ci costringe a farlo provare il giorno prima sulla seggiovia del Pianac, con risultati positivi. Arrivati dunque al rifugio Paolina, c’incamminiamo per il rifugio Coronelle. Al ritorno ci teniamo sul sentiero alto e passando sotto alla Parete Rossa della Roda di Vael vediamo due rocciatori impegnati sulla via Toni Egger (sarebbe la Maestri-Baldessari, NdR). Il commento di mio padre sull’alpinismo è davvero aspro. E non è la prima volta. Giunti al rifugio Roda di vaèl, io me ne vado sul Ciampaz per fare un po’ d’esercizio nel caminetto ovest. Poi faccio altri passaggi lì vicino e mentre scendo con la schiena alla parete rischio di cadere. Mi ripropongo di non fare più certe scemate. Mio padre mi vede scendere definitivamente dal camino. Quando arrivo sulla porta del rifugio, lui è lì. Mi dice solo: “Ti ho visto, sai?”. Senza altri commenti. Io sento tutta la sua riprovazione, ma mi dura poco… Scendiamo poi per i boschi fino alla statale del Passo di Costalunga e da lì, per Malga Palua, arriviamo a Zester.
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