Evoluzione dell’alpinismo 1

Evoluzione dell’alpinismo 1 (1-3)
(rifacimento fine anni ’90 di uno scritto a quattro mani di Alessandro Gogna e Gian Piero Motti dei primi anni ’70 che era stato pubblicato nella prima edizione di Un alpinismo di Ricerca, 1975)

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L’uomo è sempre stato incapace di dare una spiegazione naturale a tutti quei fenomeni che maggiormente si manifestavano a lui: così le grandi distese marine, così i luoghi alti e scoscesi, così le alte vette ghiacciate. Il suo atteggiamento quindi fu di paura e adorazione, trasferendo nel mito una spiegazione allora impossibile. Ben si comprende come i monti fossero considerati abitazione delle divinità e quindi fosse ritenuto sacrilego oltre che inutile il tentativo di salirli. In tempi meno lontani, nell’epoca medioevale, la diffusione del cristianesimo avrebbe dovuto sfatare la credenza dei miti politeistici, ma l’orrore e la paura per i luoghi solitari e inaccessibili erano troppo ben radicati nell’animo dell’uomo: folletti, gnomi, streghe e anime dei morti erano i temibili abitatori delle montagne. Figure e personaggi che ritroviamo In tutte le leggende e fiabe popolari. Occorreva un totale rinnovamento della cultura, del pensiero o dell‘arte per un’inconscia ribellione ad una filosofia aristotelica e dogmatica che lasciava poco spazio al nuovo desiderio di sapere. È significativo che un uomo come il Petrarca, proiettato per molti versi nel Rinascimento, sentisse il desiderio, e lo realizzasse, di salire il Mont Ventoux. Assistiamo così nel Rinascimento alla conquista dello Sconosciuto, con la scoperta di nuove terre, con i nuovi studi scientifici, e con lo sviluppo del pensiero filosofico.

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Dopo la pausa barocca e secentesca dobbiamo attendere l‘ulteriore sviluppo illuministico per assistere in una atmosfera di lucido razionalismo e nel rinnovamento sociale della rivoluzione francese ad un primo interesse scientifico per le Alpi. Questo viene subito rivolto alla vetta più alta d’Europa.

Michel Paccard

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Gli scienziati Horace-Bénédict De Saussure e Michel Paccard organizzarono vere e proprie spedizioni al Monte Bianco con lo scopo non solo di raggiungerne la vetta, ma anche di trarne deduzione di carattere scientifico per i loro studi. La vetta fu conquistata più di duecento anni fa, nell’agosto 1786 dallo stesso Paccard con il cacciatore di camosci Jacques Balmat. Non possiamo però negare in questi tentativi una componente di amore per l’avventura che assumerà in seguito una parte di primo piano.

Jacques Balmat conduce Michel Paccard colpito da oftalmia

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Possiamo immaginarci in qualche modo le difficoltà che i due dovettero superare? È molto distante quel tempo. Oggi ci sono il tunnel del Monte Bianco e la funivia, qualche rifugio dà riparo per la notte e gli elicotteri possono evacuare gli infortunati. In vetta, possiamo sfruttare le tracce nella neve di quelli che vi sono saliti i giorni prima. Eppure, ignorando le condizioni di allora, qualche storico si è impegnato a discutere su chi per primo arrivò in vetta! Ce le immaginiamo due persone così diverse, con abiti settecenteschi, correre negli ultimi metri per superarsi a vicenda?

Qui si pone una differenza di atteggiamenti nei confronti della montagna: il valligiano, cacciatore, avvezzo alle fatiche e alla pratica dei luoghi montani, che soleva spingersi fino alle soglie dei ghiacciai, conservava ancora il terrore per quel mondo lucente, ma anche tenebroso e sconosciuto; lo scienziato cittadino invece, forte del suo sapere illuministico, non aveva inibizioni ed era solo intimorito dalle più evidenti difficoltà tecniche. Così assistiamo ad una alleanza storicamente positiva e nuova tra il fermento rinnovatore e la tradizione. La figura della «guida alpina», già con Balmat, assume un ruolo di secondo piano, non creativo ma al servizio del cliente. Pur spettando alla guida il merito fisico di conquistare la meta, è il cliente che ha il merito morale di avere ideato l’impresa, considerando anche che una tale distinzione era favorita dalle evidenti differenze dei due ceti sociali. Ciò non impediva la messa in luce di alcune grandi guide: è chiaro che senza l’opera di un Balmat, di un Michel Croz, o di Jean-Antoine Carrel, Michel Innerkofler, né il Monte Bianco, né il Cervino, né la Grande di Lavaredo sarebbero stati conquistati in quegli anni. Occorreva però, come si è detto, una spinta creativa da parte di uomini culturalmente preparati come Felice Giordano, Edward Whymper, Horace Walker, John Ball, Paul Grohmann, Quintino Sella, William A. B. Coolidge e tanti altri. Questi, provenienti da una condizione sociale particolarmente agiata e favorevole, in un contesto storico in cui la nobiltà era ancora tenuta a perpetuare la propria tradizione e il positivismo stava nascendo, furono i propulsori e i rappresentanti di un alpinismo che si poneva come fine la conquista delle maggiori vette delle Alpi, senza che ancora comparisse quello spirito idealistico e individuale che caratterizzerà la fase romantica. Il dialogo uomo-montagna era dunque ristretto alla classe privilegiata, nella quale era nobile emergere. Il primo sintomo di cambiamento ci è dato dalla magnifica ribellione di Carrel che si oppone al dominio creativo di Whymper nella conquista del Cervino, anche se la figura di Giordano influenzò non poco quest’impulso alla disobbedienza al «signore» inglese.

Paul Grohmann
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Whymper lottò per alcuni anni per raggiungere la vetta del Cervino. Fu il vero ideatore e protagonista di quella titanica impresa. Fece molti tentativi, sia dalla parte svizzera che da quella italiana. La guida che più lo aiutò fu appunto Jean-Antoine Carrel, assieme al quale Whymper nel 1864 aveva raggiunto una considerevole altezza sulla montagna. Ma l’estate dopo Carrel rifiutò l’ingaggio, per tentare dalla parte italiana con altre guide. Whymper si rivolse allora agli svizzeri e con essi riuscì a conquistare la cima il 14 luglio 1865. Carrel vi riuscì solo il 17 luglio, ma per la via nuova italiana. Fino all‘ultimo momento Carrel e compagni non seppero dell’avvenuta conquista: solo in cima ebbero la sgradita sorpresa di vedere la bandiera piantata…

Nel secolo XIX maturò i] fenomeno romantico nato in opposizione al positivismo: individualismo, eroismo, mito trovano una concreta applicazione nello scalare le montagne, là dove l’uomo può elevarsi sopra la sua normale condizione e proiettarsi in una dimensione ideale. L’alpinismo dava dunque la possibilità, sebbene non ancora a tutti, di materializzare quei sentimenti di contemplazione e di ardimento individuale, peculiari caratteristiche del romanticismo.

Horace Walker
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Ancora oggi l’alpinismo risente di questa impostazione romantica: essa inizia subito dopo la conquista delle ultime maggiori vette (Cervino nel 1865, Grandes Jorasses nel 1868). Da quel momento lo scopo non è più raggiungere la vetta ma salirvi per una via più difficile: è evidente un maggiore desiderio di lotta e di vittoria su se stessi piuttosto che sulle naturali difese della montagna.

Si riconoscono tre correnti: A) alpinismo senza guide, B) alpinismo eroico, C) alpinismo sportivo. Naturalmente questa distinzione è più che altro semplificativa, è da precisare che essa non fu pienamente reale e le tre correnti furono talvolta indipendenti, ma molto spesso armonicamente fuse. In ogni caso affermazione e diffusione dell‘alpinismo romantico furono graduali.

Georg Winkler
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A) Il distacco della guida e quindi dalla tradizione fu la manifestazione più evidente del passaggio all’individualità. L’alpinista ora vuole affiancare alla parte ideativa e creativa il desiderio personale di lotta e di avventura, realizzando con i propri mezzi il proprio ideale romantico. Questa corrente non sorse in contrasto con le guide, ma i rapporti tra gli uni e gli altri furono impostati sulla base di una buona convivenza; tant’è che in quel periodo assistiamo alla realizzazione di notevolissime imprese alpinistiche con cordate composte da senza-guida e guide, in cui anche queste ultime assumevano un ruolo ideativo oltre che risolutore. È l’epoca dei fratelli Giuseppe e Giovan Battista Gugliermina, di Luigi Vaccarone, Cesare Tomè; degli Emil Zsigmondy, Ludwig Purtscheller tra gli stranieri.

B) La figura di Georg Winkler incarna fedelmente l‘ideale eroico che nella cultura tedesca, dalla quale tra l’altro sorse il movimento romantico, era molto più sviluppato che non per esempio nel romanticismo inglese o italiano. Esasperazione dell‘individualismo, sfida cosciente alla morte, autosuperamento: tutto questo nel furore che spinse Winkler, solo, con la sua audacia leggendaria, sulla torre del Vajolet che oggi porta il suo nome, nel 1887. È da sottolineare come nell’alpinismo romantico la contemplazione debba essere solitaria e sia premessa fondamentale all’azione; l‘uomo dunque è direttamente portato ad una solitudine interiore che inevitabilmente avrà la conseguenza di dividerlo sempre di più dalla realtà di tutti i giorni.

In arrampicata sulla Punta dei Tre Scarperi, 1894. Da Richter, Erschliessung in der Ostalpen

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C) L’atteggiamento migliore e più simpatico della fase romantica è strettamente legato alla figura di Albert Frederick Mummery, vero innovatore dell’alpinismo inglese ed europeo. Egli è sì spinto da un desiderio di avventura e di lotta ma, dotato di notevole humor, sdrammatizza quegli aspetti eroici così evidenti nelle altre personalità; dopo imprese di altissimo livello che sono veri capolavori di fantasia creativa abbinata a lucida capacità risolutiva, egli poté pubblicare un libro che dissacrava certi valori, prevedendo l’inevitabile declassamento a «passeggiate per signore» delle sue più dure scalate. Eccolo dunque giungere sulla vetta del Grépon e sturare una bottiglia di champagne appositamente portata come sua abitudine, smitizzando le privazioni fisiche di cui sembrava che l’alpinismo non potesse fare a meno. Egli fu il primo a praticare e diffondere quindi l’alpinismo sportivo, cioè un controllo, una disciplina con premesse romantiche che però non si disinseriva dal contesto sociale.

(continua)

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Evoluzione dell’alpinismo 1 ultima modifica: 2016-09-18T05:45:06+02:00 da GognaBlog

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