Evoluzione dell’alpinismo 2 (2-3)
(scritto alla fine degli anni Ottanta)
Puntata precedente: https://gognablog.sherpa-gate.com/evoluzione-dellalpinismo-1/
Ai primi del ‘900 nacquero i principali club alpini «accademici», i club dei senza-guida. Mentre l’alpinismo cittadino era sul nascere, alcune guide realizzarono le grandi conquiste del quarto e del quinto grado. Occorre qui citare Antonio Deo Dimai, Angelo Dibona, Tita Piaz, Émile e Adolphe Rey, soltanto tra gli italiani, stirpe di montanari ormai del tutto evoluti, senza più niente a che fare con la guida del passato. Mentre questi uomini semplici agivano, realizzando le più grandi imprese d’anteguerra, il significato che oggi l’alpinismo ha per i più s’andava delineando: Guido Rey disse «Io credetti e credo la lotta con l’Alpe utile come un lavoro, nobile come un’arte, bella coma una fede» e questo motto ancora oggi figura all’interno della tessera di ciascuno dei 320.000 soci del Club Alpino Italiano. Alpinismo quindi come elevazione spirituale, come ascesi, come avvicinamento a Dio.
Le due più importanti figure fino al 1914 furono Hans Dülfer e Paul Preuss. Il primo continuò quell’alpinismo teso all’estremo che Mummery aveva iniziato, praticando un’attività notevolissima nelle Dolomiti con l’introduzione continua di tecniche, che non lo separavano dal progresso generale della civiltà occidentale: solo dopo Dülfer si adoperarono correttamente corda, chiodi e moschettoni. Il secondo continuò invece sulla linea di Winkler e portò l’alpinismo al confine estremo dell’eroismo ascetico; il «Cavaliere della Montagna» che passando solitario di vetta in vetta, disprezzando ogni forma di assicurazione con la corda, inseguiva un ideale di perfezione utopica. Un continuo autosuperamento che lo portò all’autodistruzione. Mentre infatti Dülfer morì in guerra sul fronte francese, Preuss cadde mentre tentava una scalata solitaria nelle Alpi austriache, nel 1913.
Quando oggi l’uomo della strada dice che gli alpinisti sono tutti pazzi non sa di essere giustificato, oltre che dall’ovvia considerazione che l’alpinismo è pericoloso, anche dal credo di uno tra i più importanti di essi: Eugen Guido Lammer. Questi non sosteneva soltanto la «lotta con l’Alpe», la voleva anche ben ricca di privazioni e di sofferenze, per una montagna ancora più purificatrice e sublimante.
La prima guerra mondiale chiude un’epoca, ma le radici idealistiche erano ben profonde e sopravvissero, influenzando l’alpinismo del sesto grado.
Il diffuso pan-nazionalismo in Italia e Germania favorì un allargamento dell’alpinismo a tutti gli strati sociali. Si annullò la distinzione tra guide e dilettanti, anche i cittadini iniziarono ad intraprendere la carriera di guida, come Emilio Comici. Questo processo portò ad un balzo in avanti dell’alpinismo estremo e sportivo, con quelle prime salite che, per indubbia superiorità, vennero definite di sesto grado. Non a caso i tedeschi e subito dopo gli italiani primeggiarono in questa battaglia che si servì dell‘individuo per affermare una presunta superiorità nazionale o razziale. Di lingua tedesca, Roland Rossi, Otto Herzog, Hans Steger, Emil Solleder, Fritz Wiessner, Leo Rittler, i fratelli Franz e Toni Schmid, Willy Welzenbach, Walter Stösser e tanti altri; in Italia, subito dopo, Renzo Videsott, Emilio Comici, Luigi Micheluzzi, Celso Gilberti. A queste posizioni non si adeguavano l’alpinismo britannico e francese. Il primo aveva abbandonate le Alpi ai tempi dell’alpinismo esplorativo ed ora si riaffiancava con l’immutato spirito di Mummery attraverso l’esempio di Thomas Graham Brown che in tre anni condusse un’accanita e minuziosa esplorazione del più temibile e grandioso versante del Monte Bianco, la Brenva. Il secondo, dopo un inizio incerto, finalmente assumeva personalità: Armand Charlet e Maurice Fourastier, guide, l’uno nel Bianco e l’altro nel Delfinato, esplicavano una carriera che per la loro intrinseca semplicità ed umanità avrà così grande rilievo nel futuro sviluppo dell’alpinismo francese, privo di complessi, di rivincite e di deformazioni ideologiche.
Nel frattempo si delineavano gli «ultimi problemi». In Dolomiti la Cima Ovest di Lavaredo, nelle Occidentali la parete nord delle Grandes Jorasses e ancor più la parete nord dell’Eiger. Valligiani, intellettuali, operai, studenti: tutti o quasi gravitavano attorno ai problemi che il sestogradismo precedente aveva lasciato insoluti. Attilio Tissi, Alvise Andrich, Raffaele Carlesso, Giovan Battista Vinatzer, Gino Soldà, Riccardo Cassin, Giusto Gervasutti, Gabriele Boccalatte, Vittorio Ratti, Mario Dell’Oro, Nino Oppio, Ercole Esposito, Bruno Detassis, Ettore Castiglioni, tra gli italiani; Mathias Rebitsch, Peter Aschenbrenner, Anderl Heckmair, Fritz Kasparek, Rudolf Peters, Ludwig Steinauer, austriaci e tedeschi; Raymond Lambert, Pierre Allain, Lucien Devies di lingua francese.
Fritz Kasparek e Sepp Brunhuber. Archivio Mokrejs
L’italiano Domenico Rudatis fu il massimo teorico dell’alpinismo come sesto grado. L’identificazione del sesto grado con l’alpinismo portò ad un prevalere del fattore atletico le cui conseguenze furono positive per i risultati ma forse negative per lo sviluppo generale. L’analisi ch’egli conduce sulla performance che la cordata compie su terreno vergine ed estremo mira ad una continua ed esasperata esaltazione dei valori eroici. Se questo ha spinto i giovani a sempre più osare, d’altra parte ha costretto l‘alpinismo nei limiti in cui anche oggi si dibatte: limiti che sono dati dalla nausea di un continuo autosuperamento e dalla ricerca impellente di nuove idee per cui esso possa cessare di essere isolato.
Emilio Comici e Fosco Maraini sulla Cima Piccola di Lavaredo. Archivio de Il Gazzettino
L’epopea si chiude con la conquista della Nord delle Grandes Jorasses e della Nord dell’Eiger, ambedue nel 1938, poco prima della seconda guerra mondiale. Termina con queste due splendide imprese l’alpinismo di marca nazionalista, tanto è vero che nell’immediato dopoguerra subentrò un breve periodo nell’alpinismo tedesco e italiano di stasi e di ricerca di nuove forme di espressione che in molti casi troveranno sfogo nel tecnicismo. Insito nella conquista di quelle due grandi pareti nord era lo sbandamento, come sempre succede quando s’ottiene qualcosa a lungo desiderato. La vittoria arrise alle cordate più realiste. La parete nord delle Grandes Jorasses era già stata teatro di una corsa per la prima salita dello sperone Croz, dove s’impegnarono cordate austriache, italiane, francesi e svizzere quasi mai in collaborazione. Il successo arrise agli austriaci Rudolf Peters e Martin Meier. Invece sullo sperone Walker furono le cordate italiane e francesi a contendersi la vittoria, che toccò a Cassin e compagni.
Sull’Eiger, dopo una serie impressionante di disgrazie mortali, i tentativi si succedevano convulsi, all’impronta quasi del fanatismo. Vi riuscirono Heckmair e Kasparek, con Ludwig Vörg e Heinrich Harrer.
(continua) (vedi https://gognablog.sherpa-gate.com/evoluzione-dellalpinismo-3/)
Attilio Tissi. Archivio Tissi