In un attacco finale durato otto giorni, Paul Piana e Todd Skinner riuscirono a liberare la via Salathé, facendo abbassare la gradazione iniziale da 5.12/A3 a VI/5.13b/c. Uno dei più significativi exploit in libera di quegli anni.
Ci sono voluti trentasei giorni per trasformare un sogno in realtà e fare della Salathé la prima via in libera della grande parete. Trentasei giorni in totale ma solo otto giorni per l’assalto finale disciplinato dalle regole etiche di Yosemite, cioè senza corde fisse lasciate sul posto e partendo interamente dal basso. Un’impresa superba che li ha visti liberare le ultime quattro lunghezze problematiche del muro, di cui tre nell’Head Wall, quotate 5.13b, 5.13a e 5.13b e quella del diedro sopra The Ear, 5.13b.
“Free Salathé, sembra una spedizione verso l’ignoto”, dice Todd Skinner. Va ben oltre l’arrampicata. Con questo tipo di ascensione, una porta si apre su una nuova dimensione. Salire questa parete è stato esattamente come scalare delle vie in terre lontane o sconosciute (Redazione di Vertical).
Free Salathé!
di Paul Piana
(pubblicato su Vertical n. 20, febbraio-aprile 1989 )
Traduzione dal francese di Agnès Dijaux
È passato un mese da quando ci siamo stabiliti sulla Salathé Wall; questo grande muro ci è diventato così familiare che siamo capaci ad indovinare l’ora senza sbagliare di un minuto, attraverso il gioco di luci e ombre. La parete comincia ad oscurarsi, mentre, dall’altra parte della valle, si stagliano nere contro il cielo le torri delle Cathedrals: sono le nove meno un quarto.
Siamo sugli ultimi tiri, sotto il bivacco di Long Ledge; da lontano probabilmente sembriamo una cordata senza alcun problema in un bel passaggio in artificiale. Tuttavia, i progressi di Todd sono incerti, i suoi gesti sono a scatti. Ho quasi l’impressione di vedere i suoi avambracci brillare per via dell’aumento dell’acido lattico! Un ultimo disperato tentativo, seguito da una caduta; ancora uno… non ha nemmeno la forza di bestemmiare…
Siamo entrambi alla frutta, appesi lì proprio come burattini sospesi in alto, quasi mille metri nel cielo, su questa distesa granitica che domina la vetta di El Capitan. Non proseguiremo oltre stasera. Prepariamo le doppie e iniziamo la dolorosa discesa al nostro bivacco aereo sotto il Big Roof. L’oscurità accresce questa impressione che ci travolge stasera, per esserci misurati con qualcosa di più forte di noi. Ancora una volta l’Headwall ci perseguiterà nei nostri sogni…
Sicuramente, Joe Fitschen, Tom Frost, Chuck Pratt e Royal Robbins avevano dimostrato un bel coraggio quando avevano aperto Salathé nel 1961! Dopo aver comunque attrezzato il primo terzo della via, avevano conquistato i successivi settecento metri in un colpo solo, metà in libera, metà in artificiale senza corde fisse e posizionando solo tredici chiodi a pressione.
A quel tempo, non si poteva immaginare qualcosa di più difficile e quell’ascensione aveva lasciato un segno nella storia delle Big Wall. Era una risposta magistrale a Harding, ai chilometri di corde fisse e ai centoventicinque chiodi a pressione del Nose.
Una via di questa portata poteva essere liberata completamente?
Questo folle progetto ci frullava in testa già da alcuni anni, in seguito a un articolo pubblicato su Mountain. Todd aveva già fatto due tentativi ed era convinto che fosse possibile nonostante quello che aveva detto Stefan Glowacz. Quest’ultimo, infatti, dopo aver passato una decina di giorni in parete con Manolo e Heinz Mariacher, aveva incontrato difficoltà insormontabili sopra il Big Roof.
La nostra fiducia non era stata intaccata, avevamo passato diversi mesi a prepararci, intere notti a discutere, a studiare le guide, a immaginare delle varianti. Nella primavera del 1988 eravamo finalmente pronti.
La grande avventura in un primo momento quasi fallì per vili motivi materiali; quindi è meglio non parlare del nostro viaggio infernale nello Yosemite, interrotto da imprevisti meccanici, con un catorcio che non superava i cinquanta chilometri orari… Nonostante tutto, a inizio maggio eravamo pronti. Poiché non si trattava di affrontare un’impresa del genere al primo tentativo, avevamo programmato in anticipo alcune “passeggiate salutari”, che ci avrebbero consentito di lavorare sulle sezioni problematiche e organizzare depositi di cibo nei punti critici – dal basso fino alla ventiquattresima lunghezza e dall’alto per l’ultima parte.
Tutti questi andirivieni avevano finito per abituarci al vuoto, però l’angoscia non ci mollava: ci saremmo trovati di fronte ad enormi difficoltà, il minimo infortunio o cambiamento di tempo sarebbe stato irrimediabile. Il sogno che si avverava improvvisamente aveva un sapore amaro…
Dopo un mese eravamo completamente al “verde” e minacciati dalla fame. Era davvero troppo ridicolo! Quindi piazzammo la nostra attrezzatura nel campeggio locale e vendemmo tutto ciò che non era strettamente necessario. Man mano che si ammucchiavano barattoli di tonno e altre prelibatezze nelle nostre borse, il nostro morale ripartiva a mille.
Non ci limitavamo a nutrirci di fagioli e di qualche tortilla rinsecchita. La parete ci bruciava le dita; cos’eravamo venuti a fare in quest’inferno?
Le prime dieci lunghezze, conosciute come Free Blast, offrono una scalata superba. In effetti, potrebbero diventare una classica ambita se non fossero sfigurate da brutti e vetusti chiodi, vecchi cordoni sbiaditi e… soste marce. Gli americani, prima di dichiarare a gran voce che osservano un etica “clean”, farebbero meglio a pulire casa loro…
Sopra, c’è Mammoth Terraces, poi si scende su Heart Ledge. Una traversata delicata, inaugurata da Glowacz, ed eccoci di fronte a Hollow Flake la cui fama è ormai consolidata. Un piccolo dettaglio la dice lunga sulla sua esposizione: una corda di cinquanta metri non è sufficiente ad assicurare il primo fino in cima… Mentre, molto sopra di me, Todd combatte con la roccia in una situazione precaria, gli ultimi metri di corda mi scivolano tra le dita. Quindi, come in un incubo, comincio a salire, senza sicura. Dopo ci sarà sempre tempo per raccontare a Todd i miei spaventi una volta raggiunta la sosta…
Avevamo programmato di evitare la lunghezza in artificiale sopra The Ear con un “offwidht” in 5.10d. Era già stato fatto da Steve Schneider, ma davanti a questa terribile fessura poco invitante, cominciammo a dubitare del nostro interesse per questa variante. Dopotutto, se non potevamo liberare il primo passaggio chiave, non aveva senso andare oltre. Alla fine, questo diedro stretto ci offrì un’arrampicata superba, molto tecnica, ma quante risorse avevamo! Questo bellissimo 5.13 sarebbe diventato un classico, se non fosse per la sua posizione così in alto.
Un’altra lunghezza in A1 ci aspettava sopra El Cap Spire. Iniziamo a sbirciare le belle placche sulla destra, ma i nostri tentativi più arditi incontrano l’impossibile. Ci rimane un vago diedro, alla nostra sinistra. Ma liscio da paura… anche il bordo è liscio! Tuttavia, Todd decide di affrontarlo. Io, a bocca aperta, lo guardo passare questo 5.12+ in aderenza estrema… e senza cadere.
Il paradiso ci aspetta ancora un po’ più in alto, sotto forma di una grande cengia sotto Le Bloc. Ma prima, passaggio obbligato attraverso il purgatorio, un tiro svilente, coperto di muschio appiccicoso, dove strisciamo miseramente, coperti di fango. Sulla cengia, possiamo finalmente posare le nostre robe e persino, lusso estremo, fare qualche passo. Lo festeggiamo con un’orgia di tortillas mummificate come solo Todd sa!
E poi, direzione The Big Roof; alcune lunghezze difficili, ma questo è solo un assaggio di quello che ci aspetta sopra. Ho un ricordo particolarmente affettuoso di un’orribile “dülfer” dove la nostra unica protezione era il nostro desiderio di non cadere… Le nostre schiene doloranti valutano 5.12b questo passaggio memorabile. Sopra la sosta, dominano enormi gradini rovesciati impressionanti.
Abbiamo allestito il nostro bivacco sul portaledge, che presto assumerà le sembianze di una ragnatela gigante. Siamo al sicuro lì, ma si può davvero vivere normalmente in un ambiente del genere? Ci succede qualche volta che un oggetto ci sfugga, e guardiamo affascinati la sua caduta senza fine. Non ci abitueremo mai.
Sapevamo che la battaglia per la “liberazione” di Salathé si giocava da lì in poi ed eravamo preparati al peggio. Siamo stati serviti! Per cominciare, una traversata spettacolare, seguita da una serie di lanci particolarmente dinamici su svasi scivolosi. Un violento traverso verso destra, i piedi nel vuoto, poi uno spettacolare slancio di gamba permettono di appollaiarsi su una sorta di penisola quasi comoda ma molto incongrua in mezzo a questo tetto demoniaco. E continua; svasi ancora più schifosi e un altro lancio della gamba con blocco del piede, seguito da un recupero estremo con sfregamento di spalla.
Qui è dove Glowacz aveva abbandonato. In effetti ci attende un’orribile crepa svasata, tutta scheggiata da generazioni di chiodi, cosparsa di nut molto dubbi. Fin dai primi movimenti sappiamo che dovremo utilizzare tutta la nostra conoscenza in materia… È un buon 5.12+ non protetto. Todd deve guardarlo ben due volte prima di fare bloccaggi o incastri. Con i piedi nel vuoto, cinque metri sopra la mia testa, chiede del lasco e alla fine moschettona su un chiodo che si muove. Non ha scelta. È impossibile ridiscendere e al minimo errore c’è un volo assicurato sopra il tetto… Ma no, passa brillantemente. Mi dispiace che nessuno possa applaudirlo, se lo meriterebbe!
Altri due tiri brutti e l’Headwall sarà nostro, in ogni caso che splendida fessura! Sapevamo già che ci avrebbe resistito, ma è stato subito amore a prima vista. Liberare l’Head Wall è diventata l’ossessione di Todd. Tuttavia, non sarà per oggi. Ci è mancato poco, ma cala la notte e tutta la sua rabbia non potrà farci niente. Sotto i nostri piedi, la valle è immersa nell’oscurità, solo i fari di alcune auto portano un po’ di vita. Le nostre dita sono in uno stato pietoso, strappate, gonfie. Avremmo bisogno di una buona settimana di riposo. Il giorno dopo, mentre Todd è ancora addormentato, risalgo le corde fisse che Bill e John hanno messo per le foto, e affronto l’ultimo tiro, sotto Long Ledge; ma resiste al mio assalto. Farò incubi per tutta la notte.
Il mattino dopo, perdiamo tempo a colazione. L’angoscia della disfatta ci attanaglia. Todd alla fine si decide. Disequilibrata dalla sua partenza, il portaledge oscilla bruscamente e si raddrizza pericolosamente proiettandomi nel vuoto! Lo sento ridere di sopra; ha già raggiunto il bordo del tetto. E’ molto in forma stamattina, si muove forte e leggero, molto concentrato. Il “clip” del moschettone, un urlo di gioia… ce l’abbiamo fatta! Ma non è finita. Mi trovo a fronteggiare una fessura svasata. Le dita mi fanno soffrire atrocemente, ho paura di cadere, ho l’impressione di nuotare contro corrente. Un ultimo lancio, una presa cui mi aggrappo con l’energia della disperazione, un recupero… Rido e gesticolo come un matto. Questa volta ce l’abbiamo in tasca!
Ritorno al portaledge per l’ultima volta. Trasciniamo i nostri zaini fino a Long Ledge. Fa piacere poter camminare. E’ tardi, ma abbiamo voglia di finire. Solo gli ultimi tre tiri ci aspettano, il dessert… E poi la cima del Cap, dorata dalla luce del tramonto. Balliamo, cantiamo, finalmente liberi!
L’indomani dobbiamo recuperare gli zaini. Come molti altri prima di me, decido di utilizzare il grande blocco sotto la vetta come punto di ancoraggio per le corde. Todd, si assicura sugli spit giusto di fianco, sulla parete, e scende. Comincio a calare le borse e poi penso che sarebbe anche utile assicurarmi sugli spit di Todd. Quando lui risale, facciamo delle foto e continuiamo a calare le borse. Ad un tratto, si sente un orribile boato, e vediamo il blocco staccarsi dalla parete, come fosse al rallentatore… Un rumore assordante, uno shock terribile, e poi il silenzio. Riapro gli occhi, le corde sono state tagliate di netto. Todd? Un sussurro: “Prendi la corda!”. Una mano ricoperta di sangue, stringendo una jumar appiattita, si aggrappa al bordo della roccia. Riesce a malapena a respirare e soffre molto.
Nella migliore delle ipotesi, deve essersi rotto qualche costola. La mia gamba ha preso una posizione strana, il dolore sta diventando insopportabile. Non osiamo più muoverci.
Più tardi, capiremo che la roccia ha colpito in pieno la jumar, che ha protetto la corda. Quanto a me, sono stato salvato dal chiodo su cui mi ero assicurato all’ultimo. Tutte le altre corde sono state tagliate e giacciono mille metri più in basso, insieme alle nostre borse. Impiegheremo sette ore per scendere dalle East ledges. Una discesa che di solito dura appena due ore.
Di notte mi capita ancora di svegliarmi urlando… Cado lungo una parete che non finisce mai… Ma no, abbiamo davvero conquistato la Salathé. Questo sogno in cui abbiamo creduto così fortemente, si è avverato…
Però non se ne parla di ricominciare! A proposito, The Shield che aspetto avrà?
Il sogno americano
di Carlo Crovella
Il “sogno americano” è una delle due gambe di quel compasso che ha segnato l’evoluzione arrampicatoria nella seconda metà del secolo scorso, credo un po’ per tutti. L’altra gamba del compasso è l’arrampicata francese, che a sua volta risultò condizionata dagli input provenienti d’oltre Atlantico, mescolati a loro volta con l’esperienza britannica.
Di quel sogno americano, Yosemite ne costituiva sicuramente l’epicentro, anche per il particolare stile di vita e per gli infiniti aneddoti raccolti intorno al Camp 4, il campo base dove gli arrampicatori trascorrevano – non sempre entro i limiti dell’assoluta legalità – il tempo quando non erano in parete.
Di Yosemite esistono due immagini iconiche che, con i loro poster, hanno tappezzato le nostre stanze quando eravamo ragazzi: il mezzo zuccotto dell’Half Dome e il profilo aquilino del Capitan, col suo naso pronunciato.
A fianco del Nose si trova la Salathé Wall, dedicata a John Salathé, considerato uno dei pionieri dell’arrampicata nella Valle. La prima salita di questa via risale al settembre del 1961 e si deve a nomi davvero mitici (Royal Robbins, Chuck Prat e Tom Frost, ma aveva collaborato anche Joe Fitschen), che la superarono in nove giorni e mezzo, con uno stile considerato rivoluzionario perché “senza compromessi” (almeno rispetto ai tempi).
Inoltre è stata la prima big wall liberata sul Capitan, nel 1988 (grazie, appunto, a Paul Piana e Todd Skinner, in nove giorni). Completa il quadro la prima salita in libera interamente da capocordata, ad opera di Alexander Huber (1995).
L’elettrizzante racconto della prima libera giunse in Europa all’inizio del 1989 sulle pagine della rivista francese Vertical (allora un vero must per gli appassionati).
Dopo la lettura originaria di questo articolo, nel nostro gruppetto d’arrampicata, “Libérez Salathé” (anche per la sua particolare composizione fonetica) è diventato, ironicamente, il nostro grido di guerra, una specie di un Banzai “de Noantri”. Lo lanciavamo all’attacco delle vie, che ovviamente non rivaleggiavano minimamente con l’originale, né in difficoltà, né in lunghezza e neppure per la raffinatezza della nostra libera, anzi…
Rileggere questo avvincente racconto a distanza di trent’anni abbondanti mi ha scatenato le stesse emozioni della prima volta.
Todd Richard Skinner (Pinedale, Wyoming, 27 ottobre 1958 – 23 ottobre 2006, Leaning Tower, Yosemite). Era sposato con tre figli. Stava tentando di salire in libera Jesus Built My Hotrod: mentre scendeva in doppia è caduto per circa 150 m trovando la morte. Causa dell’incidente è stata la rottura dell’anello di sosta della sua imbragatura.
Le sue prime ascensioni in libera:
1985 – The Gunfighter (5.13b), Hueco Tanks, Texas, United States;
1986 – City Park (5.13d), Lower Index Town Wall, Washington, United States;
1988 – The Salathe Wall (VI 5.13b), El Capitan, Yosemite National Park (con Paul Piana);
1989 – Lizzy Beams Desire (5.14a), Black Hills, South Dakota, United States;
1990- The Jaded Lady (VI 5.12a), parete nord del Mt. Hooker, Wind River Range, Wyoming. Con Paul Piana, Galen Rowell e Tim Toula;
1992- The Great Canadian Knife (VI 5.13b), Cirque of the Unclimbables, Yukon Territories, Canada;
1993- Northwest Direct Route (VI 5.13d) sull’Half Dome, Yosemite National Park;
1995- Cowboy Direct (VII 5.13a), parete est della Trango Tower, Pakistan’s Karakoram Himalayas (the first Grade 7 free climb in the world);
1998- War and Poetry (VI 5.12c), Ulamertorsuaq, Cape Farewell, Groenlandia;
2000- True at First Light (VI 5.13a), parete est del Poi, Ndoto Mountains, Kenya Settentrionale;
2004- Wet Lycra Nightmare (V 5.13d), Leaning Tower, Yosemite, California, United States.
Todd Richard Skinner mentre scendeva in doppia è caduto per circa 150 m trovando la morte. Causa dell’incidente è stata la rottura dell’anello di sosta della sua imbragatura.Hewett, un amico di Skinner, aveva precedentemente osservato che l’imbracatura sembrava consumata.
Sorte analoga a quella di Emilio Comici, dovuta alla rottura di un cordino di cui stava provando la tenuta) sporgendosi da una cengia nella palestra di roccia di Vallunga. Per lungo tempo le esatte circostanze vennero sottaciute dalle autorità fasciste, che non vollero gettare ombre sulla insigne figura di Comici.
Per quell’impresa assolutamente spaventosa ci vollero due specialisti e soprattutto due che vivevano vendendo il materiale superfluo a camp iv. Non che Glowatzk fosse meno bravo, anzi ma quei due avevano ” piu fame ” in quel momento. Poco piu’ tardi la gamba europea del compasso fece pero’ vedere prime assolute eccezionali da parte di Moffat ed Edlinger che fecero restare tutti stupiti. Mi ha sempre impressionato la capacita’ di molti europei di esprimersi ad altissimo livello anche in fessura. Ovviamente quando si e’ fuoriclasse non lo si e’ per caso… per non parlare poi di Lynn Hyll la cui impresa in yosemity per me rimane assoluta ( alla faccia di chi l’ha sminuita dicendo che con le sue dita piu’ piccole alcuni tiri erano piu’ facili… e vorrei vedere allora quante volte hanno calcolato che si fosse trovata maggiormente in difficolta’ dal “basso” della sua statura non certo da cestista).
A parte le valutazioni storiche, ho ancora il vertical citato, non sapevo nemmeno bene cosa fosse yosemity, ma il racconto di quei due fu davvero sbalorditivo.
Mettere il tonno in scatola tra le prelibatezze è tipicamente yankee, infatti c’è da dire che le guerre le vince chi mangia male.