Gasherbrum II, cronistoria 1892-1980

Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(2), disimpegno-entertainment(2)

Himalaya a tu per tu
(introduzione di Alessandro Gogna a Fascino dell’Himalaya di Romolo Nottaris, 1981

È il titolo di un famoso articolo di Gianni Calcagno, da lui scritto dopo il successo del 1975 al Tirich Mir. Tralasciando la diversa collocazione geografica (il Tirich Mir è nell’Hindukush, ma qui Himalaya è inteso in senso lato), quell’impresa di 6 anni fa a 7708 metri, compiuta dallo stesso Calcagno con un solo compagno (Guido Machetto) segnò l’inizio di una per ora non lunga serie di successi e di tentativi a grandi montagne con spedizioni e mezzi ultraridotti. Il nuovo atteggiamento fin da subito non apparve essere solo una moda momentanea e neppure gli exploit furono isolati bensì “un tipo di alpinismo dove misurarsi con la montagna con pochi mezzi e pochi uomini, rende adeguata giustizia al valore sportivo e umano che devono avere i componenti per sentirsi all’altezza di simili performance (Gianni Calcagno)”. E, d’altra parte, Machetto scriveva “Anche se un rischio è portato a un limite, l’indicazione valida è nel sistema, non nella quantità del rischio, un’indicazione adattabile a tutte le battaglie della vita“.

Romolo Nottaris

Ma è vero che in questo tipo di avventure la quantità di rischio è superiore al solito alpinismo himalayano? Se fino a pochi armi fa le salite agli Ottomila apparivano tremende già sfruttando ogni mezzo in mano all’uomo per “vincere” la montagna, dall’uso del sistema delle corde fisse al reclutamento di decine di portatori d’alta quota, dall’alimentazione più sofisticata all’adozione di sempre più perfezionati attrezzi di arrampicata; se dunque fino a poco tempo fa ci volevano piccoli eserciti ben organizzati per mandare in cima due persone, come è possibile che oggi due soli alpinisti sia pur tecnicamente preparati, ben allenati e molto coraggiosi, possano compiere le stesse cose e anche più impegnative adoperando solo il fair play, la propria intelligenza e i propri muscoli?

I tempi cambiano assai rapidamente, ogni cosa evolve verso dimensioni che magari nessuno di noi oggi sospetta. L’alpinismo non fa eccezione e dopo questi esempi di imprese (e quindi anche dopo il Gasherbrum II in stile alpino) non si può più ragionevolmente fare previsioni tecniche sul futuro.

Ma se il rischio fosse veramente maggiore, da una parte dovrebbe ormai esserci una lunga serie di incidenti a testimoniarlo, dall’altra si dovrebbe concludere che con il passare del tempo l’uomo diventa sempre più. coraggioso!

È vero invece che si va in direzione di un alpinismo sempre più individualista. Al ritorno i protagonisti sostengono che anche se la loro avventura è stata personale e isolata, proprio perché affidata unicamente alle proprie forze, è grazie ad essa che essi si sentono molto più vicini e comprensibili alla gente che invece lassù non è andata.

Questo libro è centrato sull’idea, sostenuta dall’esperienza, che è preferibile l’alternativa della cordata a due al vecchio modello di spedizione, tradizionalmente più legato all’efficienza e all’organizzazione che non all’iniziativa del singolo e all’affiatamento tra due amici. Quindi è un’opera attuale perché è al passo con le nuovissime tendenze mondiali nell’alpinismo. Eppure anche chi non è così addentro alle differenze delle attività himalayane, può trovare in questo racconto delle esperienze di due uomini una panoramica esauriente di come l’uomo si ponga di fronte alla montagna in generale, come questa a volte complichi i rapporti e amplifichi i sentimenti e a volte invece semplifichi tutte le nostre inutili esperienze e ci riduca all’essenziale, nudi al cospetto delle difficoltà e dell’avventura.

Si può osservare che ogni impresa essendo inquadrata nel suo tempo, da ognuna di esse è stato possibile ricavare condensati di esperienze e di vissuti personali sempre diversi, ciascuno a suo modo ringiovanendo un’attività vecchia come l’alpinismo. Come non si può dire che nelle grandi spedizioni che si muovono similmente a pesanti spostamenti di truppe e assalti programmati fino all’ultimo particolare, rette da due generali e finanziate da sponsor sempre più esigenti non sia presente la scintilla della grande esplorazione e come non si può dire che in esse l’esperienza del partecipante sia sempre più pallida e nascosta dal grande successo di gruppo, così non si può dire che il salire in solitudine le montagne più alte del mondo sia ciò che di meglio l’orgoglio umano possa aver trovato per proseguire la ricerca in se stessi e che la soluzione dei propri problemi personali sia così più portata di mano che prima.

Gasherbrum II, cronistoria 1892-1980
(contributo di Alessandro Gogna a Fascino dell’Himalaya di Romolo Nottaris, 1981)

In precedenza designato dai cartografi con il nome di K4, il Gasherbrum II è sito sulle carte a 76° 39′ 15″ di longitudine est e a 35° 45’31” di latitudine nord. Non è ben chiaro il significato del nome locale di Gasherbrum: alcuni dicono «montagna lucente», altri sostengono «monte bello» e altri ancora «picco del tramonto». Il dislivello totale per raggiungere la vetta è di circa 2700 m, misurati dal campo base e cioè dalla confluenza del ghiacciaio meridionale del Gasherbrum con il ghiacciaio degli Abruzzi. La cima è quotata 8035 m.

William Martin Conway

1892. William Martin Conway effettuò una lunga spedizione nella catena del Karakorum: egli godette di una bella prospettiva sul gruppo dei Gasherbrum proprio dalla cima del Pioneer Peak, sebbene alcune nuvole impedissero una visuale completa: le cime infatti erano nascoste, come pure quella del K2 e del Broad Peak. Sulla carta di Conway il Gasherbrum II appare come Peak 26360 (il numero è dovuto alla misurazione in piedi).

1909. La spedizione del Duca degli Abruzzi riuscì ad avere una buona vista sui fianchi settentrionali dei Gasherbrum I, II, III dal Sella Pass 6159 m. Altro buon punto d’osservazione fu dai pressi della cima del Bride Peak o Chogolisa 7654 m. Il 18 luglio infatti il Duca con Emilio ed Henri Brocherel e Jean Petigax avevano raggiunto quota 7400 m circa, tentando di raggiungere la cima. Il Duca osservò che il Gasherbrum II sembrava essere collegato all’Hidden Peak (altro nome del Gasherbrum I) per mezzo di un’alta cresta, formando così una catena non interrotta dal G1 al Broad Peak. Egli ipotizzò anche che con tutta probabilità non v’era alcuna cresta tra il Peak 22139 (una cima secondaria immediatamente a nord del Gasherbrum V) e l’Hidden Peak e che quindi tra i due ci si doveva aspettare una profonda depressione ghiacciata. Vittorio Sella ottenne del gruppo alcune splendide fotografie.

1934. La spedizione internazionale di Günther Oscar Dyhrenfurth fece una ricognizione sul South Gasherbrum glacier (quello che il Duca degli Abruzzi aveva indovinato) e quindi essa fu in grado di esaminare la montagna da molto vicino. Proprio verso di loro precipitava una cresta così invitante che per un attimo Dyhrenfurth pensò di dirottare tutta la spedizione e tentare quella montagna. Ad un occhio esperto la via era evidente, diretta, di media difficoltà e sgombra dal pericolo di valanghe. Ma Dyhrenfurth pensò anche che l’impresa non sarebbe stata possibile ai suoi portatori baltì. Anche in quell’occasione si ebbero grandiose fotografie del gruppo.

Günther Oscar Dyhrenfurth

1956. È l’anno della prima ascensione. Merito di una spedizione austriaca di otto membri diretta da Fritz Moravec. Lasciarono Skardu il 3 maggio e stabilirono il campo base il 25 maggio, alla confluenza del South Gasherbrum glacier con l’Abruzzi glacier, a 5320 m. Il 5 giugno andarono in ricognizione per trovare una via su 11 km di ghiacciaio fino ai piedi del Gasherbrum II; il campo 1 fu messo lì, circa a 6000 m, l’11 giugno. A dispetto di lungo cattivo tempo e della distruzione del campo 1 per colpa di una valanga (30 giugno), con la conseguente perdita di materiale e viveri, la spedizione continuò. La linea di salita seguì la cresta sud-ovest e su di essa furono sistemati il campo 2 e 3, rispettivamente a 6700 m e a 7150 m, il 3 e il 6 luglio. Il piano era di non sistemare altri campi ma di rendere possibile una notte di bivacco ad altissima quota prima dell’assalto finale. Lo stesso Moravec, Josef Sepp Larch e Hans Willenpart salirono e bivaccarono a 7500 m. il mattino dopo, il 7 luglio, i tre traversarono alla base della piramide sommitale, oltrepassarono la sommità della cresta sud-est e salirono per la cresta est fino alla vetta. L’11 luglio erano di ritorno al campo base. Qui di seguito riporto il resoconto originale di Moravec, dall’Österreichische Alpen-Zeitung del gennaio-febbraio 1957.

Fritz Moravec

La conquista
di Fritz Moravec
Se durante la marcia di avvicinamento ci furono coi portatori di fondovalle difficoltà cui diedero avvio ora gli ostacoli naturali e le intemperie, ora le ingiustificate e vessatorie richieste di giornate di riposo e mance speciali, una volta raggiunto il campo principale ci trovammo di fronte a problemi ed ostacoli d’altro tipo. La ricerca e l’attrezzatura di una via percorribile anche dai portatori d’alta quota, dal campo base, attraverso il crepacciato ghiacciaio meridionale del Gasherbrum, fino ai piedi del monte, dove volevamo piantare il campo 1, ci diede molto da fare. Le condizioni climatiche erano estremamente sfavorevoli e ciò costituiva un grave impaccio, sia per istallare i campi d’altitudine sia per l’attività alpinistica. Il più fiero colpo ci venne inferto dalla caduta di una valanga gigantesca, causata dalla gran quantità di neve fresca, che seppellì le nostre più preziose riserve di materiale d’equipaggiamento e i viveri per i campi d’alta quota. Si noti che proprio questi carichi erano stati accatastati in un luogo ritenuto, secondo concetti validi sulle Alpi, sicuro dal pericolo di valanghe. Ciò nonostante, l’abbondanza di neve fresca ci portò anche un’agevolazione: la maggior parte dei pendii ghiacciati era ricoperta da uno strato nevoso, che la forte irradiazione solare trasformò rapidamente in solida neve primaverile, risparmiandoci durante la salita tempo e forze altrimenti necessari per gradinare. Un solo pendio, quello sopra il campo 3, conservò la sua coltre di neve polverosa. Riferirò ora i particolari della lotta per la conquista del Gasherbrum II.

Nelle prime ore del pomeriggio del 25 maggio 1956, la pattuglia avanzata della spedizione raggiunse la quota di 5320 m. Installammo il campo principale sulla morena laterale sinistra del ghiacciaio sud del Gasherbrum, a un chilometro di distanza dall’anticima dell’Hidden Peak. Dal punto più alto della morena godevamo un’ampissima vista sopra il ghiacciaio sud del Gasherbrum. Le alte catene del Gasherbrum dal II al IV, le scoscese pareti meridionali dello Hidden Peak, il Sia Kangri e il Golden Throne si ergevano possenti davanti a noi. Seguirono dieci giorni di acclimatazione. Li utilizzammo per completare la costruzione del campo base, controllare i fornelli, confezionare carichi col materiale d’equipaggiamento e prepararli per i portatori d’alta quota. Il medico controllava a giorni alterni la pressione sanguigna e contava i battiti del polso di ciascun membro della spedizione e dei portatori, sia in stato di riposo che in movimento. Gli alpinisti, quando non erano intenti ad alcuna occupazione, si sedevano sulla morena e scrutavano con i binocoli la «nostra» montagna. Non si parlava più che dell’imminente marcia d’avvicinamento ai piedi del monte; la distanza da coprire era di 8 – 10 chilometri in linea d’aria, con un dislivello di 700 m; di più, c’erano due seraccate da superare. La lunga via fino alle pendici era divenuta un gran punto interrogativo. Il nostro geologo contribuiva all’opera di esplorazione, calcolando l’inclinazione di ogni pendio, crepaccio e cresta. Questa base tecnica era di prezioso ausilio nella progettazione e nell’effettiva scelta della via di salita. Il 5 giugno, Larch e Willenpart tracciarono un percorso attraverso la seraccata inferiore e il giorno successivo esplorarono in quella zona una via di salita percorribile anche dai portatori d’alta quota. Poi, utilizzando la via già preparata, passarono sotto i pendii sud occidentali dell’Hidden Peak verso ovest, superarono uno sperone di roccia ed arrivarono a circa 200 metri dalla parete di ghiaccio, dove un labirinto di crepacci sbarrò loro il cammino.

Il 6 giugno Hans Ratay e Heinrich Roiss tentarono di trovare la via per proseguire. Nella parte inferiore percorsero la stessa via di Larch e Willenpart; ma, a circa 5600 m, dove confluisce un ghiacciaio che scende dall’Hidden Peak, seguirono una stretta lingua di ghiaccio verso ii Gasherbrum V, salirono attraverso la seconda seraccata e, descrivendo un ampio arco, tornarono indietro ai piedi del G2. Cosi si trovò una via ben percorribile fino al nostro traguardo parziale. Il 7 giugno, Richard Reinagl ed io coi portatori avremmo voluto trasportare dei carichi fino allo sperone di roccia sotto il G2, per installare a seimila metri il primo campo alto, sul declivio del ghiacciaio. Ma una serie di copiose nevicate ce lo impedì. Soltanto l’11 giugno potemmo trasportare i carichi al campo 1. L’abbondante nevicata ricopriva le bandierine segnavia piantate da Ratay e Roiss, e perciò fummo costretti a cercare la via soltanto in base a quanto i nostri compagni ci avevano riferito. Guadagnavamo lentamente in altezza, a volte sprofondando nella neve fino alle anche. I portatori d’alta quota procedevano senza brontolare e volonterosamente con i loro carichi pesanti 20 chili, mettendo i piedi sulle nostre orme, e non capivamo dal loro aspetto quale fatica fisica costasse loro il cammino. Verso mezzogiorno i portatori reclamarono a gran voce un campo intermedio, sebbene fosse stata percorsa solo metà della nostra tappa di salita. Due caddero sfiniti coi carichi. Reinagl ed io spartimmo i nostri viveri e il nostro succo di frutta coi baltì e promettemmo per l’indomani una giornata di riposo se avessero proseguito fino ai piedi della montagna. Questa promessa operò una specie di miracolo. Impegnandosi fino allo stremo delle forze continuarono a camminare e alle 14.30, dopo una salita di undici ore, poterono buttare a terra i sacchi. Il luogo previsto per il campo era stato raggiunto. Non soltanto l’abbondante neve fresca, ma anche e soprattutto l’intensa irradiazione solare ci avevano reso così gravosa la marcia. Spesso la temperatura era di 45°. Il sole ci prosciugava e la sete ci tormentava più della fame. La vecchia esperienza vale anche sul Karakorum: la mattina presto, quando la neve è ancora indurita dal gelo e il sole brilla ancora al di sopra delle cime dei monti, la salita all’ombra costa la metà fatica che, più tardi, a mattina inoltrata.

Il 13 giugno Ratay, Roiss e Weiler salirono al campo 1 e il dottor Weiler riaccompagnò indietro i portatori. Due giorni dopo Larch, Willenpart e il dottor Gattinger fecero lo stesso e il geologo guidò il ritorno dei portatori d’alta quota fino al campo base. Il 17 giugno, i due pakistani s’incaricarono dei rifornimenti al campo 1. Metodicamente, ogni giorno, nuovi carichi venivano portati al campo. Di nuovo un periodo di dieci giorni di cattivo tempo, con ininterrotte nevicate. Dieci lunghe giornate di attesa. In quest’atmosfera di avvilimento s’inserì uno sprazzo di luce: l’arrivo del corriere postale. Ciascuno si sprofondò nelle lettere, nelle carte, nei giornali. Improvvisamente uno di noi comunicò agli altri di aver letto che i giapponesi avevano scalato il Manaslu, gli svizzeri il Lhotse e che l’Everest era stato vinto una seconda e una terza volta. Noi invece non eravamo riusciti ad andare oltre il campo 1, a 6000 metri. Ma raggiungemmo il colmo della depressione quando il nostro ufficiale di scorta ci lesse sull’edizione pakistana del Times che quell’anno il monsone sarebbe arrivato tre settimane più presto del solito. Subito formulammo la supposizione che forse ci trovavamo già in mezzo ai suoi effetti. Intanto tutti gli alpinisti erano discesi al campo base.

Il 30 giugno il tempo si rischiarò. Ratay e Roiss risalirono al campo I e, quando due giorni dopo Larch, Reinagl ed io con i portatori li raggiungemmo, gli amici ci accolsero subito con la notizia funesta: la grande sventura provocata da una valanga caduta nei giorni di maltempo. Quasi tutto il deposito dei carichi destinati ai campi alti – tende, corde, chiodi, moschettoni, argani, cavi d’acciaio e tutte le provviste alimentari ad alto potere nutritivo – giaceva sepolto. Non riuscivamo a rendercene conto; eppure i carichi erano stati depositati in un luogo ritenuto al sicuro dal pericolo delle valanghe. Si trovava su un fondo glaciale piano e, per di più, la parte inferiore della montagna era a terrazze; soltanto l’eccezionale quantità di neve fresca aveva causato la gigantesca valanga. Le masse nevose si erano messe in movimento da un’altezza di circa 7500 metri, avevano ricoperto le terrazze, formando così un piano inclinato uniforme, lungo il quale la neve venne convogliata lontano, sulla parte piana del ghiacciaio.

Per due giorni feci scavare canali e pozzi, tutto inutilmente. Sopra il nostro equipaggiamento e sulle vettovaglie giaceva uno strato di neve alto da cinque a dieci metri.

Questa grave perdita modificò il nostro piano d’attacco. Bisognava ora impiantare i campi alti in un tempo più breve di quello previsto e, per giunta, non potevamo attrezzarli completamente come avevamo disegnato e anche la preparazione della via doveva progredire assai più celermente. Rotay e Roiss si sobbarcarono immediatamente (il 2 luglio) il compito di rendere percorribile il tratto attraverso lo sperone di ghiaccio fra il campo 1 a 6000 metri e il campo 2 da installare a 6700 m. Intagliarono serie di gradini, stesero corde a passamano per le traversate, fissarono corde di sicurezza. Il 3 luglio, il campo 2, sopra lo sperone di ghiaccio, poteva essere occupato e il 4 luglio vi salirono Larch e Reinagl. Il giorno dopo continuarono ad aprire la pista verso l’alto e tracciarono la via superando il rigonfiamento ghiacciato, fino ad una piatta cresta nevosa, sulla quale doveva essere eretto il campo 3, a 7150 m. Il programma per il 6 luglio era il seguente: Larch, Reinagl, Willenpart, io e quattro portatori avremmo dovuto rizzare il campo 3 e, il giorno successivo, il campo 4 ai piedi della piramide sommitale. Nel tratto di salita tra il 2 e il 3 non esisteva attrezzatura per facilitare la discesa dei portatori. Il carico di 20 chili rendeva difficile procedere sui pendii ripidi ed era necessario assicurarli attentamente con la corda. Quando i portatori giunsero al luogo previsto per il campo 3 caddero sfiniti sulla neve. Promettemmo loro un giorno di riposo in riconoscimento dell’ammirevole impegno e dello spirito di sacrificio di cui avevano dato prova. La falda montana d’ora in avanti era notevolmente più ripida del tratto attraverso lo sperone di ghiaccio: inoltre questa parete di ghiaccio era ricoperta da uno strato di 30 cm di neve farinosa. Era certo e senza possibilità di discussione che i portatori non potevano essere impiegati per salire oltre. Se avessimo voluto prima attrezzare il pendio, mettere la montagna in catene, ci sarebbero occorsi 14 giorni almeno. Durante tale periodo il tempo si sarebbe potuto volgere al brutto, forse sarebbe sopraggiunto il monsone. Per me era di valore decisivo la riflessione seguente: o faccio attrezzare il pendio per i portatori e può accadere che il cattivo tempo c’impedisca l’attacco alla cima, oppure assumo su di me il grave rischio di fare portare agli alpinisti stessi i carichi e di osare l’attacco alla vetta da un bivacco alto. Dopo averne discusso con i compagni, mi decisi per la seconda alternativa e, poiché ero ben conscio dei pericoli di questa decisione, volli essere anch’io della partita. Reinagl manifestò la sua statura d’uomo dicendo semplicemente: “lo assicurerò la discesa dei portatori e a voi auguro la vittoria”.

Il Gasherbrum II

Con questa decisione Reinagl rinunciò volontariamente alla possibilità di raggiungere la cima. Quando, nel tardo pomeriggio del 6 luglio, il sole scomparve dietro il Gasherbrum 4, Reinagl con i portatori iniziò la discesa. Larch, Willenpart ed io, coi sacchi da bivacco sulle spalle, ci demmo da fare per salire più in alto. Ad ogni passo la neve fresca scivolava giù. La via di salita era infida: non essendoci alcuna possibilità di assicurazione procedevamo slegati, per evitare che uno potesse mettere in pericolo gli altri. La salita sul ripido pendio ci consentiva d’innalzarci soltanto molto faticosamente. Larch e Willenpart, che conoscono la Nord del Cervino, poterono verificare che entrambe le pareti hanno la stessa inclinazione. Alle 20.30 giungemmo ai piedi della piramide sommitale (7500 metri) e ci preparammo a passare la notte sotto un blocco roccioso. Ognuno s’infilò strisciando nel suo sacco bivacco di dralon; in più avevamo un sacco da bivacco comune. La notte fu gelida, potemmo dormire pochissimo. A Larch si congelarono le dita dei piedi, a me un pollice.

La mattina fu per noi una liberazione. Occorse molto tempo prima che con le dita irrigidite potessimo accendere il fornellino ad alcool solido. Bevemmo latte caldo e mangiammo una fetta di pane con germi di grano. Questo fu il nostro nutrimento per l’intera giornata. Il tratto che seguì, una traversata in leggera salita sotto la parte sud orientale del Gasherbrum II, è rimasto nella mia memoria come un passaggio molto spiacevole. Le fatiche del giorno precedente, durante il quale avevamo percorso un dislivello di 800 metri tondi, il peso dei sacchi, la notte insonne, gelida e, non ultima, la mancanza di ossigeno si facevano sentire spiacevolmente. Soltanto pochi minuti prima delle 9 raggiungemmo una piccola forcella della cresta orientale a 7700 m. Tutti avevamo battezzato questo luogo come «il punto morto». Avremmo voluto rimaner seduti a lungo, ma sopra di noi si ergeva la ripidissima parete di neve della cima, e i nostri sguardi erano sempre rivolti in su. Ancora 335 metri ci separavano dalla sommità. Il sole aveva già reso molle la neve e aprire la pista nella neve bagnata e pesante era ancora più faticoso che salire, come prima, nella neve ancora indurita dal gelo. Ogni due passi ci piegavamo spossati in avanti, appoggiandoci alla parete, e dovevamo riposare a lungo e a lungo lottare per un po’ d’aria, poi procedevamo altri due passi. Dovevamo ricominciare sempre da capo per vincere noi stessi; sempre da capo riuscivamo con uno strappo ad avanzare pochi passi, poi eravamo di nuovo sfiniti. Ogni passo richiedeva un immenso sforzo di volontà e soltanto questa volontà di ferro ci spingeva avanti. Come ultimo bastione di difesa, la montagna ci oppose ancora una barriera di roccia.

Alle 13.30 del 7 luglio ponemmo piede sulla vetta del Gasherbrum II, un ripiano nevoso, coronato da due spuntoni di roccia alti un metro e mezzo. Con un sospiro ci abbandonammo sulla neve. Dapprima non fu pronunciata una sola parola, poi Willenpart disse: “Le fatiche sono indicibili, ma questo è il momento più bello della mia vita”.

Non potemmo far altro che confermare le sue parole. Dopo circa dieci minuti, dopo aver ripreso fiato a sufficienza, ci demmo la mano, a suggellare la vittoria. Piantai la piccozza con le bandierine austriaca e pakistana. Con questo successo, il terzo «ottomila» del mondo era stato conquistato da alpinisti austriaci.

Jean-Pierre Frésafond

Le ascensioni seguenti
1975. È la volta di una forte spedizione francese e la montagna fu salita per un nuovo (parzialmente) itinerario. I membri erano: Jean-Pierre Frésafond (capo spedizione), la Signora Hélène Frésafond, Louis Audoubert, Marc Batard, Frédéric Bourbousson, André Chariglione, Jean Dupraz, Jean-Jacques Forrat, Bernard Macho, il dottor Alain Raymond, Yannick Seigneur, Jacques Soubis, François Valençot e Bernard Villaret de Chauvigny.

Il campo base fu piazzato a 5150 metri e sulla via nuova prescelta, lo sperone sud est, furono posti due campi in quota, a 6000 m e 6700 m. Come pure nella prima ascensione, non vi fu uso d’ossigeno in bombole, ma v’era un’importante novità: la mancanza di portatori d’alta quota. Gli stessi alpinisti trasportarono i carichi ai campi in quota, imitando così la spedizione austriaca al Broad Peak del 1957. Furono però sistemati 1500 metri di corde fisse. Il 17 giugno, Yannick Seigneur e Marc Batard si presero un po’ di materiale, partirono dal campo 2, bivaccarono a 7650 m e raggiunsero la cima il 18 giugno alle 9. Scendendo dalla cima incontrarono Louis Audoubert e Bernard Villaret verso le 10 su un ripiano nevoso poco al di sotto del loro posto di bivacco a 7650 m. Il tempo rimase bello quel giorno ma cambiò durante la notte, con tempesta di neve e di vento. Il mattino del 19 ci fu un miglioramento. Audoubert e Villaret lasciarono il bivacco diretti alla cima. Ma Villaret si stancò presto e tornò indietro verso il campo 2. Audoubert continuò da solo ma fu fermato dalla bufera a due terzi dalla cresta sommitale, circa a 100 metri sotto la cima. La discesa trovò Villaret ancora fermo al bivacco a 7650 metri. La notte fu rabbiosa e i due furono costretti a sopportare la furia del vento e della neve. Al mattino impiegarono tre ore per i preparativi alla discesa. Finalmente pronti, Audoubert cominciò a scendere: Villaret gli aveva detto che lo avrebbe seguito subito. Ma dal campo base videro che uno dei due tornò alla tenda. A 100 metri di distanza dal campo 2, Seigneur incontrò Audoubert. La tempesta proseguì, con enormi cadute di neve, impedendo qualunque operazione di salvataggio: nessuno era in grado, in quelle condizioni, di salire fino al luogo del bivacco. Lassù la temperatura era estremamente rigida e la morte di Villaret rimane confusa, come quando ci si addormenta con fatica. La violenza della tempesta durò otto giorni: Villaret era ormai al di là di ogni soccorso. Nello stesso anno 1975 il Gasherbrum II ebbe la prima traversata della cima, nonché la quarta e quinta ascensione.

Janusz Onyszkiewicz

Una doppia spedizione polacca di sette uomini, diretta da Janusz Onyszkiewicz, e nove donne, diretta da Wanda Rutkiewicz, arrivò a Skardu il 26 maggio e raggiunse il campo base il 16 giugno. Il campo 1 fu sistemato sopra la seconda seraccata del ghiacciaio sud del Gasherbrum, a 6000 m, 19 giugno. I campi 2 e 3, come nella spedizione austriaca del 1956, furono sistemati entro il 9 luglio. Un’ulteriore avanzata fu impedita dal cattivo tempo, nonostante che numerosi tentativi fossero stati fatti, sia dagli uomini che dalle donne, per arrivare al campo 4. Alla fine, il 31 luglio, cinque alpinisti furono in grado di rioccupare il campo 3 (7350 m) alla fine della cresta sud-ovest, sotto la piramide sommitale. Il giorno dopo, 1 agosto, entrambi i gruppi arrivarono al colle tra il G2 e il G3, a 7550 m. Dal colle il gruppo maschile (Onyszkiewicz, Leszek Cichy e Krzysztof Zdzitowiecki) decise di salire la parete nord-ovest del G2, più facile che la cresta O, e raggiunsero la cima lo stesso giorno, scendendo poi dalla cresta est. Le due donne, Halina Krueger-Syrokomska e Wanda Rutkiewicz, fallirono la vetta del G3 per la cresta est. Il 4 agosto Marek Janas, Andrzej Łapiński e Władysław Woźniak, tutti uomini, cominciarono a salire per la via degli Austriaci al G2, raggiungendo la cima il 9 agosto. Nello stesso tempo altri due gruppi misti di quattro elementi ciascuno preparavano un ulteriore tentativo al G 3. Il risultato di tutta questa complessa operazione fu che Onyszkiewicz, sua moglie Alison Chadwick-Onyszkiewicz, la Rutkiewicz e Zdzitowiecki riuscirono nella prima ascensione dei Gasherbrum III 7952 m per la parete est, l’11 agosto. Nel frattempo la Krueger-Syrokomska e la Anna Okopinska salirono il Gasherbrum II, ancora dalla via austriaca e raggiunsero la cima il 12 agosto.

1976. Una spedizione giapponese di 13 membri, diretta da Aoki, dopo la sistemazione del campo base, mise il campo 1 a 5180 m il 21 maggio. Il campo 2 fu sistemato cinque giorni dopo a 5790 m. Due alpinisti, Y. Hiramatsu e T. Miyamoto, caddero in un crepaccio vicino al campo 2 il 27 maggio, morendo sul colpo. Un terzo membro, O. Matsuura, morì di sfinimento il 1° giugno mentre partecipava al recupero dei due caduti. La spedizione fu così abbandonata. Dalla quota si può quasi essere certi che l’incidente avvenne nei pressi della seconda seraccata del ghiacciaio sud del Gasherbrum, ben sotto il piede della montagna.

1978. Il 26 luglio raggiunse il campo base una spedizione austro-tedesca. Impiegarono i giorni fino al 1° agosto per raggiungere la base della montagna per la via solita. A quel punto Otto Zöttl e Albert Hosp rinunciarono e tornarono al campo base. Adi Fischer e Georg Brosig continuarono da soli e bivaccarono il 7 agosto a 6550 metri, l’8 agosto a 7300 metri, con ciò effettuando la prima ascensione del Gasherbrum II in stile alpino. Fischer ebbe problemi allo stomaco e dovette fermarsi a 7400 metri. Brosig continuò da solo, seguendo la vecchia via degli austriaci. Gli ci vollero fatica e tempo per traversare la base della piramide sommitale, dato che come al solito la neve era assai profonda. Alle sette di sera raggiunse la cima e la sua salita fu notata dal campo base di una spedizione giapponese al G5. Ci fu un piccolo congelamento. Nella prima parte della salita Brosig e Fischer usarono qualche corda fissa messa dai polacchi.

Hanns Schell

1979. È la volta dei cileni, diretti da Gastón Oyarzún. I membri erano: Jorge Bassa, Claudio Gálvez, Rubén Lamilla, Claudio Lucero, Nelson Muñoz, Jorge Quinteros, Iván Vigouroux e Leonardo Zúñiga. Partirono con 130 portatori da Skardu il 27 aprile, ma la marcia d’avvicinamento durò 23 giorni dato che il Baltoro era completamente ricoperto di neve. Il 23 maggio fu approntato il campo base, a 5150 metri. Fu un duro lavoro trovare la via sicura, con tutta quella neve, fino alla base della montagna. Per questo ci vollero otto giorni, con campi intermedi. Si divisero in due gruppi: Bassa, Zúñiga e Quinteros rifornivano i campi fino a 6000 metri. Gli altri lavoravano sullo sperone degli austriaci. Nella prima settimana di giugno salirono í pendii dello sperone, sistemando altri tre campi. Muñoz e Gálvez tornarono da 6900 metri fino al campo base, quando ormai molte difficoltà tecniche erano state superate. Lamilla, Lucero, Vigouroux et Oyarzún misero un campo alto a 7200 metri il 7 giugno, dal quale pensavano di effettuare un attacco lampo. Con poco carico l’8 giugno salirono solo fino a 7600 metri, causa le difficoltà e la stanchezza. Il bivacco fu buono, ma freddo e lungo. Il mattino del 9 era bello e gelido. A 7830 metri Vigouroux sfinito dovette ridiscendere fino al campo 6 con Lamilla. Lucero e il capospedizione continuarono e raggiunsero la cima alle sei di sera. Il campo 6 fu raggiunto in discesa a mezzanotte, grazie ad una luna assai luminosa.

Nello stesso anno 1979 seguì una spedizione mista, praticamente due spedizioni riunite al fine di risparmiare sui costi. La via era ancora quella degli austriaci e i campi più o meno i medesimi. Il 31 luglio Hilmar Sturm, il dottor Karl Hub e Reinhard Karl raggiunsero la cima seguiti il 4 agosto da Kurt Diemberger, Walter Lösch, il capo della spedizione Hanns Schell, Alfred Schwab, Wolf Weitzenböch e l’ufficiale di collegamento pakistano Fayyaz Hussein. Per Diemberger fu quello il suo quinto «ottomila»! Il tempo fu generalmente assai cattivo con grande caduta di neve.

1980. La storia si fa più recente ancora. È la volta di una spedizione spagnola (per la precisione catalana) che ebbe successo sul Gasherbrum II. Dopo aver messo quattro campi, alla fine Enric Foni e Pere Aymerich raggiunsero la cima, assieme a tre giapponesi di una spedizione contemporanea proveniente da Yokohama. Il cattivo tempo impedì ulteriori tentativi.  

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Gasherbrum II, cronistoria 1892-1980 ultima modifica: 2018-08-12T05:14:21+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Gasherbrum II, cronistoria 1892-1980”

  1. Ps: non sto parlando di roba sportiva a spit, anche se altrove, non qui da noi, spesso i gradi alti vengono saliti senza spit.

  2. Non mi spiego il motivo per cui qui da noi tantissime belle e ricche informazioni storiche si fermino a 30-40 anni fa… più di una generazione!
    Molte “cose” sono cambiate: tanti alpinisti di quell’epoca non scalano più e molti giovani ora fanno delle salite che erano del tutto impensabili … 30-40 anni fa.
    Ora qualcuno sta anche ritornando ai livelli “mentali” raggiunti dagli sloveni negli anni ’80!!!
    Magari qualcuno li supererà. Di sicuro sono stati raggiunti dei nuovi livelli su roccia: prima Auer e da poco Honnod ancora più.

    O forse devo spiegarmelo?

  3. Una domanda ad Alessandro.

    Vado fuori tema, ma sono curioso: quanti libri di montagna possiedi? E quante annate di periodici (riviste, bollettini, annuari)?

    Ricordo di aver letto tempo fa nel blog che la tua biblioteca di montagna occupa addirittura 220 metri di scaffalature (correggimi se sbaglio), ma quanti libri sono? Di certo un numero incredibile, che rivaleggia con la Biblioteca Nazionale del CAI o quella della SAT.

    Gestisci l’archivio in modo digitale?

    Sono sempre stato appassionato sia di libri che di montagna, per cui ti lascio immaginare il numero di libri di montagna della mia biblioteca, ma la tua mi surclassa. Comunque, nel gennaio di quest’anno ho finalmente completato la «Guida dei Monti d’Italia» (2ª serie), dopo decenni di ricerche.

    Però, alla fin fine, la gioia piú grande è ancora quella che provo in montagna, e non sui libri di montagna!

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