Giovannino Massari – Questione di stile – 1 (1-2)
a cura di Fulvio Scotto
(già pubblicato sull’Annuario dell’Accademico 2017-2018)
Lettura: spessore-weight(2), impegno-effort(1), disimpegno-entertainment(3)
La prima volta che incontrai Giovannino fu in un bar di Mondovì. Eravamo seduti ad un tavolino nella piazzetta su cui si affacciava il locale mentre, circondati da altri chiassosi avventori, ci gustavamo un gelato, o una birra, non ricordo…
Aveva combinato questo appuntamento Andrea Parodi con cui avevo “in gestazione” un libro di itinerari alpinistici che avremmo poi intitolato Montagne d’oc insieme a Nanni Villani, coautore anche lui di detto volume.
Era il 1985, primavera.
Giova rappresentava già allora l’arrampicatore più promettente della nuova generazione e di lui avevamo bisogno per stilare le relazioni di alcune vie nel Gruppo Castello-Provenzale da inserire nel nostro libro. Soprattutto volevamo darne una valutazione in arrampicata libera che lui avrebbe poi giustamente firmato. Ci interessava proporre un approccio alpinistico-sportivo a quelle pareti che si possono collocare a mezza strada tra falesia e montagna. In quel gruppo, appena trascorsa l’era di Sergio Savio che vi aveva introdotto il settimo grado, Massari era all’epoca il punto di riferimento più attendibile e con lui si iniziava a parlare di ottavo grado.
Mi colpirono di lui l’aspetto apparentemente gracile, il viso da adolescente, il sorriso affabile e uno sguardo acuto, penetrante, quasi indagatore. Lui era già un personaggio nell’ambiente, io uno qualunque… e invece mi parve di cogliere un approccio paritario nei nostri, nei miei confronti, quasi che il personaggio non fosse lui, ma che fosse tutto da pari a pari… Cosa fate, cosa hai fatto, che progetti avete?…
Toccai quindi con mano, se già non lo avessi ancora capito, che un arrampicatore forte non è un palestrato o un forzuto, ma è prima di tutto una testa capace di interpretare questa attività andando ben oltre la fisicità della prestazione… Quel ragazzino che avevo davanti aveva salito in libera pochi mesi prima (leggetevi il suo racconto…) un itinerario aperto nel 1979 in artificiale, la via dei Passeri [prima salita: Isidoro Meneghin ed Enrico Passiva, il 5 maggio 1979] alla Punta Figari, che io, nel farne credo la seconda ripetizione con Guido Ghigo nell’83, avevo superato solo dopo dieci ore di artificiale laborioso e precario. Discesa nel buio più nero dì una notte senza luna, senza pila… giungendo a Chiappera solo poco prima della mezzanotte… E quel bambinello biondo era passato integralmente in libera con nient’altro che quelle scarse protezioni merdose che la roccia compatta aveva concesso… lo ero già l’antico, Giovannino, sorridente lì davanti a me, era il futuro… tale era il suo livello che, negli anni a seguire, non lo avrebbero fermato neanche gravi motivi di salute. Giovannino Massari sarebbe lungamente rimasto al top dell’arrampicata libera italiana su roccia, spaziando dal boulder alla falesia, alle vie tipicamente alpinistiche in montagna e in seconda battuta anche sulle cascate di ghiaccio, sempre coerente con la sua etica e con le sue idee… per la qual cosa, anni dopo, ci siamo anche un po’ accapigliati, sempre amichevolmente, s’intende…
Giova, uno dei grandi dell’arrampicata italiana.
Giovanni, come hai iniziato?
Ho iniziato ad arrampicare a metà marzo del 1980, due settimane dopo la prematura morte di Gianni Comino sul seracco della Poire e dopo aver visto la sua serata sui gullies scozzesi al cinema Ferrini di Mondovì.
Ho sempre pensato a questa coincidenza come alla continuazione di una passione e visione totalizzante di vivere l’arrampicata con le dovute proporzioni e adeguamento ai tempi. Frequentavo da anni la montagna come escursionista ed era da tempo che volevo iniziare a praticare l’arrampicata su roccia. L’occasione venne grazie a un amico, Mariolino Canavese, che aveva già frequentato il corso roccia del CAI Mondovì e si decise ad accompagnarmi a Miroglio.
Da allora non mi sono più fermato ed ho cercato di praticare l’arrampicata in tutte le sue varie sfaccettature mescolandomi, senza un’identità precisa, a tutti i vari ambienti spesso in aperto contrasto tra loro.
Come si è svolto il tuo percorso nel mondo dell’alpinismo/arrampicata?
Da subito, influenzato dalla lettura delle imprese di Paul Preuss e dalle foto di John Bachar a Joshua Tree, mi sono interessato in primis ad un rapporto il più possibile alla pari con la parete e in armonia con la natura, quindi free solo e arrampicata libera, ma in modo del tutto naturale e senza conoscere praticamente nulla su chi faceva cosa o di come fosse l’ambiente dell’epoca; tutte cose di cui mi sono interessato diversi anni dopo. Mi venne del tutto spontaneo tentare le vie provando a non usare i chiodi di progressione anche dove le relazioni davano passaggi di arrampicata artificiale e dopo circa un anno di arrampicata tra Miroglio, Finale e qualche classica di quarto grado in Dolomiti, salimmo in una intensa mattinata della primavera 1981, io diciottenne e il mio amico Federico Bausone appena quattordicenne e futuro compagno di tante salite, la via Balzola alla Rocca Castello e la Superfigari (non ancora in libera) alla Figari.
Ho sempre tentato le vie in libera e se possibile da capocordata e ricordo in quegli anni che, mentre saliva il mio livello in arrampicata, riuscivo anche in montagna a esprimermi al meglio, ad esempio sulla via Cassin alla Torre Trieste in libera, 6c, o sulla via Cassin alla Ovest di Lavaredo con qualche resting, 6c+ (ancora non facevamo i tentativi per riuscire in libera che iniziarono solo nel 1983 dopo aver visto Jerry Moffat in persona nelle gole del Verdon e che mi consentirono di veleggiare in fretta verso il 7b), Spigolo Graffer (6b+) e via Aste (6b+) al Campanil Basso in libera, prime ripetizioni di varie vie di Manolo (Cima Wilma) e molte prime libere “a vista” a Finale, al Corno Stella e nel Gruppo Castello-Provenzale. In realtà ho sempre avuto un interesse anche storico nel ripetere le vie, ma non ho mai fatto molta differenza tra Bianco, Dolomiti, Corno Stella o Finale, mi interessava la sfida della libera, salire usando solo le mie forze pur con il limite della corda e delle protezioni e ogni bella parete poteva essere il posto giusto…
Di pari passo con l’innalzarsi del livello salì anche quello delle free solo con la via Superfigari e la via Comino-Casanova alla punta Armusso e molti concatenamenti di vie a Finale (fino al 7a) o nel gruppo Castello-Provenzale (fino a 1600 m in giornata sulle vie classiche di 5c/6a); devo dire che nelle mie solitarie non ho mai cercato il rischio gratuito e mi sono sempre tenuto su un ampio margine di sicurezza relativa, “usando” la solitaria per ridurre i tempi di percorrenza sugli itinerari per poterne concatenare molti anche nella stessa giornata.
Naturalmente non sempre riuscivo nella libera come, per esempio, sulla Bonatti al Capucin dove, nel 1983 (non era ancora stata liberata ma vidi benissimo che era fattibile e infatti la prima libera, 7a+, fu dell’estate seguente da parte di Jean-Baptiste Tribout), arrivai in libera fin sotto il muro di 40 m e poi, per il maltempo, fummo costretti a uscire in fretta e furia utilizzando anche qualche chiodo.
Queste poche salite usando i chiodi come progressione, anche se belle classiche da “curriculum”, mi hanno sempre lasciato l’amaro in bocca e le considero un po’ delle “macchie”, per non essere stato capace di salirle in libera senza averle potute ritentare in un secondo tempo: ho sempre dato più importanza alla “qualità” di quello che facevo che alla “quantità”.
Ricordo un episodio che mi fece capire, oggi più che allora, che la mia generazione rappresentava qualcosa di “diverso”. Arrivo in valle dell’Orco nella primavera 1982, scendo dall’auto, infilo freneticamente le fedeli EB e in 2/3 rapidi tentativi salgo tranquillo la fessura Kosterlitz e subito dopo mi dedico alla ricerca di nuovi passaggi sull’omonimo masso; era presente alla scena Mario Pelizzaro, per noi un mito per la sua presenza sulla copertina di 100 Nuovi Mattini, che mi chiese di farne e rifarne alcuni e mi guardava stupito per come usavo i piedi sulle minuscole asperità e per come li salivo con facilità: lì ho percepito che lui vedeva qualcosa di diverso, qualcosa che nel suo ambiente, tutto sommato ancora un po’ “ingessato”, forse non aveva ancora visto.
La tua attività è stata improntata al rifiuto dei mezzi artificiali; come ti poni nel rapporto tra l’arrampicata e l’uso ormai seriale dello spit?
Fin da subito sono stato attratto da un modo di arrampicare più “naturale” (contando solo sulle mie forze psico-fisiche) possibile, nel quale la via e più in generale la natura non sono elementi contro cui combattere e quindi da conquistare ma soggetti con cui convivere in armonia, e quindi arrampicare in free solo è stato fin da subito una priorità necessaria, poi con il progredire del mio livello mi sono reso conto che senza un compromesso accettabile la mia attività rischiava di bloccarsi o di durare tragicamente molto poco.
Quello che però mi è parso evidente fin dalle prime uscite in Dolomiti o nel Finalese nel 1980 è stato che senza un confronto “leale” con la parete l’arrampicata non mi sembrava avere un senso. Con i mezzi tecnici che avanzavano il solo salire una via non sarebbe stato un problema mentre salire in libera rappresenta ancora una bella sfida con noi stessi e un modo armonioso di fondersi e adattarsi alla natura della parete.
Lo spit, ormai sdoganato per quello che riguarda l’arrampicata sportiva, è in ambiente alpino e sulle vie “multipitch” una sorta di compromesso per consentire la scalata impegnativa senza il rischio che diventi potenzialmente mortale. Quindi deve venire usato solo come protezione, anzi, laddove possibile, preferirei l’uso di protezioni veloci non solo sulle vie lunghe ma anche sui monotiri.
Discorso diverso è quello delle vie “plaisir”, che sono semplicemente una sorta di transfert del monotiro da falesia su vie di più tiri e in cui l’obbligatorio è nettamente inferiore alla massima difficoltà.
Cosa rappresentava ieri e cosa rappresenta oggi per te l’arrampicata?
In quasi quarant’anni di attività ho attraversato parecchie fasi nel mio rapporto con l’arrampicata. All’inizio è stata ricerca di ambienti nuovi, montagne, pareti poi pian piano il gioco si è spostato dentro di me e la sfida è stata prevalentemente con me stesso: dimostrare che ero capace di fare certe cose, di superare in libera certe difficoltà, di avere il controllo di corpo e mente nell’arrampicata libera rischiando di cadere anche su protezioni precarie o nelle solitarie integrali.
Ho sempre cercato la prestazione nella ricerca delle difficoltà tecniche che però non erano mai fini a se stesse o desiderio di autoaffermazione ma quasi sempre un mezzo per cercare di sondare quel “laicamente sacro” che si annidava dentro di me nella speranza vana di poterlo conoscere; questo percorso, anche se non mi ha certo portato a una soluzione definitiva, non è stato del tutto inutile perché, oltre ad avventure meravigliose e momenti di cui conservo ancora un ricordo smagliante e indelebile, arrampicare mi ha regalato una buona dose di autostima e di capacità decisionali che ho utilizzato sia nel lavoro che nella vita quotidiana.
Poi con il passare degli anni e il calare inesorabile dell’aspetto prestazionale, arrampicare è diventato anche una sorta di preghiera, un mantra positivo da recitare quasi ogni giorno anche a piccole dosi, come facendo semplicemente un po’ di bouldering da solo nella mia val Ellero, che sa aggiustare i momenti difficili potendoli guardare da una prospettiva più distaccata e dare alle giornate sempre un’impronta positiva.
Direi, per sintetizzare, che sono passato da un’arrampicata più improntata alla prestazione a una scalata introspettiva e senz’altro foriera di benessere e costante consapevolezza del mio limite umano.
Giovannino Massari ai Massi del Valasco
Hai avuto dei bruschi stop dovuti a problemi di salute ma ti sei sempre ripreso; cosa vuoi raccontare di quell’esperienza?
Dall’estate del 1988 sono stato costretto a sedute trisettimanali di dialisi per sette lunghi anni fino al trapianto renale del 1995 che dura tuttora. Sono stato sicuramente penalizzato nelle mie trasferte alpine da questo problema anche se ho continuato ad arrampicare in montagna sulle Cozie, nelle Liguri e nelle Marittime, con qualche veloce incursione persino al Bianco.
Sul versante dell’arrampicata sportiva non mi sono perso d’animo e posso dire con un certo orgoglio che, grazie a un tenace allenamento, che ha però sempre lasciato spazio anche a una vita lavorativa e relazionale, sono riuscito a salire vie di “8” prima della dialisi, in dialisi e da trapiantato renale.
Dalle vie di più tiri di ambito più classico mi sono progressivamente spostato sulle vie moderne a spit ripetendo moltissimi itinerari soprattutto di Manlio Motto (alla Schiappa dalle Grise Neire, all’Ancesieu, al Mongioie) e riuscendo su vie in ambiente alpino (Marittime, Verdon, Briançonnaise) fino al 7b a vista. Qui è d’obbligo una considerazione su questi itinerari che spesso vengono disprezzati o sminuiti per la presenza di spit: sono vie confezionate per essere salite in libera e non hanno senso senza questa prerogativa, farle tirando i chiodi o appendendosi alle protezioni per me equivale a non salirle per nulla e ritengo sicuramente una scelta migliore scegliere un itinerario più abbordabile.
Oltre al Motto delle vie plaisir o delle vie difficili interamente spittate vi è un altro Motto, forse non ancora abbastanza conosciuto ai più, ed è quello che, con Alex Busca, è stato l’artefice della parete dell’Ancesieu dove le vie hanno spit quasi solo alle soste e dove l’impegno complessivo per i suoi 350 m di arrampicata libera non è da sottovalutare anche per l’accesso piuttosto laborioso, al pari di tante vie classiche su montagne più famose ma che non rappresentano ormai un banco di prova (a meno di tentarle in arrampicata libera) dal momento che sono farcite di una gran quantità di chiodi normali utili per una progressione artificiale e quindi a una salita “di conquista ad ogni costo”.
Alla ricerca di alternative all’arrampicata su roccia, anche a causa dei miei problemi fisici nel periodo della dialisi, e soprattutto grazie un amico, Angelo Siri, ho dirottato la mia attività per qualche anno, dal ’90 in poi, verso l’arrampicata su ghiaccio che avevo sempre ritenuto un po’ “artificiosa” per i miei gusti ma, con la giusta prospettiva (sempre la ricerca di un rapporto il più possibile alla pari con la natura) ed eliminando i riposi sui cordini, ho trovato anche nelle cascate e nelle goulottes la libertà di movimenti e la gestualità proprie dell’arrampicata su roccia… insieme ad ambienti favolosi che avevo sempre solo immaginato.
Alpinista o arrampicatore?
Direi arrampicatore a 360 gradi e senza limitazioni di specialità dando a ogni terreno la dignità che merita. In questo mi sono sempre sentito molto “onnivoro” dando spazio all’esplorazione in tutte le direzioni: aperture trad e a spit di monotiri e multipitch, ripetizioni e aperture su ghiaccio, esplorazione e valorizzazione di aree per il bouldering. In fondo anche l’arrampicata è una delle tante forme di linguaggio in cui ci si può esprimere e questo risulta chiaro, praticandola a fondo, quando si ripetono tante vie di autori diversi: sono riconoscibili lo stile, la ricerca della linea, la chiodatura e anche la valutazione delle difficoltà.
Il terreno che preferisco è senz’altro quello delle Dolomiti: le ho frequentate soltanto per qualche estate ma credo che se fossero più vicine sarebbero il mio terreno d’elezione per ripetere vie classiche.
Devo dire però che essere un arrampicatore sportivo che si è allenato per anni, anche per recuperare le molte operazioni subite, ha contribuito molto alle mie realizzazioni su vie di più tiri e alla riuscita su impegnative vie classiche in tempi brevi.
Credo che oggi sia fondamentale per un alpinista essere anche un ottimo arrampicatore sportivo, sia per poter salire vie difficili che per poterle percorrere con un buon margine di sicurezza.
Miti?
Nessun mito particolare… soprattutto amici che sono anche personaggi del mondo dell’arrampicata. Tra quelli che hanno segnato maggiormente il mio percorso verticale, oltre al già citato Angelo Siri per l’aspetto ghiaccio, voglio ricordarne in particolare due.
Andrea Gallo con cui ho condiviso gli anni della ricerca delle difficoltà in falesia e che mi ha iniziato alle sofferenze/delizie dell’allenamento costante che, come quando si studia il greco antico senza sapere bene dove ci porterà, mi ha aperto le porte a difficoltà superiori.
E poi Patrick Berhault con cui, grazie agli amici comuni Carlo Bergese e Alessandro Grillo, ho avuto la fortuna di condividere, durante una decina d’anni, molti intensi momenti in montagna, in falesia e sui blocchi.
Da entrambi, pur apparentemente così diversi, ho imparato molto riflettendo sulle lunghe e quanto mai diversificate conversazioni: come saper essere un atleta/arrampicatore con i suoi momenti di inebriante forma fisica ma anche come saper essere semplicemente uomo con le sue debolezze e i suoi momenti bui da imparare a sopportare.
Via dei Passeri, Gruppo Castello-Provenzale (Val Maira)
1a RP e on-sight, 21 giugno 1984
di Giovannino Massari
Si sa, il lupo perde il pelo ma non il vizio… Sono nuovamente alla ricerca di un obiettivo su cui misurarmi. Il luogo è il mio terreno d’elezione: il gruppo Castello-Provenzale con verticalità ed esposizione garantite. L’ossessione quella di sempre: salire in libera e possibilmente a vista, alla ricerca di un confronto alla pari con me stesso e con la superficie rocciosa.
Sono con Fede (Federico Bausone) accompagnati dalla nostra severa etica del tempo, peraltro mai derogata su questo tipo di terreno, che ci impone, con la sfrontatezza dei vent’anni (rispettivamente 21 e 18), un assoluto rifiuto dei mezzi artificiali e che a distanza di trent’anni mi fa sorridere con una certa malinconia, ricordando che bastavano le immagini sul mitico Yosemite climbers di George Meyers per farci immaginare, sulle rocce di casa, la “nostra” California.
Così decidiamo che anche per tentare questa via, come d’altronde facevamo quasi sempre in montagna, faremo a meno di martello e chiodi spostando la scelta a favore di stopper, excentric e dei pochi friend in nostro possesso.
Oggi però l’itinerario è di quelli più temuti, ci siamo imbarcati infatti nella ripetizione della mitica via dei Passeri di Isidoro Meneghin, noto alpinista torinese, molto esperto nell’arrampicata artificiale, che la salì nel maggio 1979 con Enrico Pessiva valutandola con un temibile VI e A3.
Nella prima metà degli anni ’80 mi dedico quasi quotidianamente all’arrampicata. Come un virus essa si è impadronita di ogni cellula del mio corpo e, nonostante conduca una vita apparentemente normale, studio, amici e ragazze, tutto ruota intorno a questa esigenza che mi spinge senza tregua da una via all’altra come se senza arrampicare mi mancasse il pane quotidiano per sopravvivere su questa terra e solo passare senza soluzione di continuità da un’avventura verticale ad un’altra potesse fornirmi il necessario sostegno energetico per poter vivere.
Comunque questa sorta di delirante attività porta i suoi frutti, arrampicare mi sembra ormai più istintivo che camminare, e progredisco costantemente in termini di lettura della parete e di superamento di difficoltà sempre maggiori.
Ma torniamo alla via dei Passeri: di essa si sa ben poco se non che ha pochissime e rocambolesche ripetizioni, una chiodatura insicura e insidiosa e parecchi tratti in difficile arrampicata artificiale ma, vista la struttura della roccia ricca di fessure superficiali, è potenzialmente risolvibile in arrampicata libera. Raccolta la sfida, io e Federico ci troviamo alla base della via in una splendida mattinata di giugno, in perfetta forma e con condizioni ottimali per affrontare la parete.
Parto come sempre molto leggero: corda singola, rinvii misurati con il contagocce, i fedeli nut a portata di mano e la prima facile lunghezza scorre via veloce.
Mi raggiunge in breve anche Federico e riparto subito molto concentrato, ben sapendo che da qui in poi le difficoltà aumenteranno considerevolmente.
Salgo velocemente su un muro aperto di ottima quarzite ed entro in un piccolo diedro che, ben poco chiodato, mi impegna con movimenti tecnici e con protezioni piuttosto misere: risulteranno soltanto tre per l’intero tiro di corda.
Sulla prima lunghezza della via dei Passeri, Punta Figari
Salgo con circospezione ripulendo a tratti l’esile fessura sul fondo del diedro con il mio fedele spazzolino e, nonostante l’assicurazione abbastanza precaria, vado in spaccata e opposizione sfruttando al meglio le piccole tacche e giungendo illeso in sosta; il tiro, attualmente richiodato, è valutato di 6c+.
È andata! Il primo tiro tecnico e difficile è stato superato a vista!
A quell’epoca si davano valutazioni alquanto misurate ma motivate dal fatto che erano mediate dalle nostre esperienze in terra francese, alla Tête de Chien, dove un Patrick Berhault nei suoi anni migliori teneva le quotazioni talmente strette che noi, nelle falesie del Sud-ovest e a Finale Ligure, ne fummo fortemente influenzati per parecchi anni (tutte le valutazioni date da Berhault in quegli anni sono state riviste decisamente al rialzo). Federico segue e sale il tiro dietro di me, sfruttando la sua proverbiale scioltezza e con una spaccata al limite delle possibilità mi raggiunge anche lui indenne.
Dall’esiguo gradino di sosta scruto verso l’alto e vedo un gran diedro e il muro alla sua sinistra malamente attrezzato con pochi chiodi contorti dall’aria malsicura… un brivido mi percorre al pensiero dell’eventuale volo, ma sono estremamente determinato e parto deciso per salire in libera.
Il tiro si presenta subito difficile, devo salire con molta concentrazione e, come in una bolla, lento e leggero ma con progressione costante cerco le prese migliori e, quasi ignorando i pochi chiodi in una specie di trance creativa in cui conviviamo per pochi attimi, soltanto io con la mia preparazione e l’elemento roccia con la sua millenaria conformazione, salgo la liscia parete sfruttando le piccole asperità disponibili e integrando la pessima chiodatura con gli stopper.
Evito a sinistra un grosso ciuffo d’erba, mi accorgo che lo scorrimento della corda non è ottimale e, scrollando la corda per farla meglio venire, vedo l’ultima protezione qualche metro più in basso a destra, un chiodo a lama giallo “Cassin”, che esce dalla fessura e scivola verso il basso con il relativo rinvio…
Non mi scompongo più di tanto, ogni cellula del mio corpo è in rapporto simbiotico con la roccia e la verticalità che mi circondano, quasi fossi un camaleonte perfettamente mimetizzato con l’ambiente; anche oggi sono esattamente dove voglio essere, l’accettazione del rischio è voluta, senza reticenze, e subordinata alla riuscita in libera della salita. Sto vivendo il momento che cercavo e che ancora oggi, dopo oltre trent’anni, è vivo e nitido nella mia mente, inciso in essa insieme ad altre indimenticabili esperienze che ritornano, come un mantra positivo, a indicarmi a ogni passo la direzione da prendere.
Raggiungo in libera anche la terza sosta e subito prima mi giro per osservare la magnesite che costella a uno a uno gli appigli che decriptano la linea della libera: ora l’ostica linea di salita, con i suoi appigli e i suoi appoggi, appare chiara in tutta la sua magnifica realtà.
Oggi l’essere umano ha vinto la sua piccola battaglia con la natura compenetrandosi in essa come l’acqua che scendendo nel letto di un torrente si adatta alle sue asperità ed io, singolo individuo, sono soddisfatto dell’interpretazione dell’itinerario comprendendo che le difficoltà maggiori sono superate e proprio con lo stile che mi ero prefissato.
Soddisfatto però sempre con lo stesso rammarico: la perfezione sarebbe stata salire completamente “clean” ma forse la perfezione non è di questo mondo o forse è un evento talmente eccezionale che solo per alcuni e in pochissime occasioni è possibile realizzarla e l’uomo deve saper convivere con le sue imperfezioni…
Da lì in poi i ricordi sono più vaghi: la via prosegue interessante e piacevole ma senza sezioni così impegnative e vivo ancora con un compiacimento quasi fisico l’uscita in cresta dopo il suggestivo enorme strapiombo finale, dotato però di ottime prese e poi, quasi senza soluzione di continuità, la consueta corsa sulla via Castiglioni Sud (per la decima o undicesima volta), in tre tiri soltanto, uno di conserva sullo spallone e due sullo spigolo, evitando parecchie protezioni per limitare l’attrito della corda; tanto per chiudere la giornata e fare ancora un po’ di metri.
Siamo in cima alla Torre Castello, quasi un rito che mi accompagna da tanti anni ma la mente non è più qui… Mi assale la solita frenesia e sento che non mi posso fermare, devo vivere l’arrampicata sempre a tutta velocità…
La parete est della Punta Figari (Gruppo Castello-Provenzale, Alpi Cozie). La via dei Passeri è la n. 46
Lancio uno sguardo intorno a me quasi senza vedere il meraviglioso paesaggio che mi circonda, un’inspirazione più forte mi inonda l’essere di quelle tracce di infinito che cerco e che a volte trovo quando, voracemente come oggi, fagocito metri di roccia in una famelica corsa verso l’alto.
Una breve doppia dalla Torre e una rapida discesa slegati ci riportano al colle Gregouri dove, al solito senza viveri né acqua, razziamo come predoni gli zaini degli amici e conoscenti ancora in parete ridacchiando alle loro spalle; le regole un po’ feroci della strana tribù dei climber.
Oggidì, dove sembra che tutto debba essere catalogato e ascritto a una forma di responsabilità, questo tipo di scherzi può sembrare una forma di “bullismo” ma allora era la norma, a turno siamo stati tutti vittime di scherzi che vivevamo sorridendo allo spirito del gruppo, quasi una forma di educazione alle delusioni ben più cocenti che ci avrebbe riservato la vita.
Siamo stati rapidi: è ancora presto quando nella luce del tardo pomeriggio percorriamo in discesa la valle Maira sulla 2CV di Federico: discutiamo sui particolari della salita di oggi e pensiamo ai nuovi progetti delle imminenti vacanze dolomitiche.
Assorto nei miei pensieri vedo scorrere gli “accampamenti” dei “merenderos” che si preparano alla merenda “sinoira”, mentre alcuni dormono accasciati sulle coperte, la bocca semi aperta sulla strada, a respirare dagli scarichi del viavai di automobili.
In questo momento li invidio un po’, per la capacità che hanno di godere di queste cose essenziali come mangiare, bere e dormire, che a me non danno alcun tipo di soddisfazione, teso perennemente come sono alla ricerca del prossimo appiglio, a siglare un’altra “bella salita”.
Oggi abbiamo salito in libera, a vista e senza aggiungere un chiodo, la via dei Passeri, probabilmente in questo momento una delle più difficili scalate tradizionali in libera delle Alpi Sud-occidentali ma è già stata interiorizzata, non conta più, contano solo i prossimi progetti, le prossime avventure.
(continua)
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Bella Storia..! Grazie. “Alessandro….
fregare i panini dagli zaini degli amici , mi è sempre piaciuto anche a me!
Anche se non ci conosciamo e le abilità sono ben altre, qualcosa ci accomuna….
Bella intervista di Scotto ad un personaggio della scalata davvero speciale, simpatico, semplice e pacifico, con delle idee non solo condivisibili, ma da seminare a grano.
Mi sarebbe piaciuto esserci trenta anni fa, in mezzo ad una discussione tra Andrea Gallo e Giovanni Massari, solo per ascoltare e per intendere due modi di intendere che nella loro estrema differenza hanno lasciato un segno tangibile.
Grazie, molto bello!
Pure il mio bellissimo zaino Millet era vittima abituale dei tuoi saccheggi al Colle Gregouri.
Il furto di cibo faceva parte delle regole non scritte del nostro bel gruppo di amici e tutto sommato non dispiaceva poi così tanto esserne vittima anche perché non dava mai completamente fondo alle scorte.
E la più parte di noi,lentieri da corsa,vedeva impotente dalla parete il compiersi del misfatto….
Per la cronaca, comunque,nom siamo mai morti di fame!
Mi associo ad Andrea : Grande Giova !
Soprattutto per gli ormai quasi 40 di amicizia.
grande giova
Dimenticavo. E ci metto anche certe conversazioni tra il psichedelico e l’assurdo fatte con Andrea (Gallo) di cui rido di un bel ridere ancora oggi. Bei tempi.
Bello Giova!
Mi ricordo di essermi preso da te una bella svegliata guardando una tua proiezione di diapositive (non ricordo più dove, é passato troppo tempo) di arrampicata in cui c’erano anche foto d’altro tipo. ERa una cosa diversa da tutte quelle che avevo visto prima e non l’ho più dimenticata. C’erano persino delle persone nude che contrastavano nettamente con la visione eroica cairota alla quale ero abituato.
Quindi sei tra i miei miti. Anche per quella del corso per Aspiranti clienti che ogni tanto riciclo come battuta mentre lavoro. Ciao