Gli spazi smarriti

Intervista a Beppe Guzzeloni su Climbing Radio, rubrica “arrampicatori sociali” condotta da Arabella Fossati, del 7 giugno 2022.

AF: Oggi affrontiamo il tema delle tossicodipendenze in generale e per quello che riguarda l’arrampicata in particolare con Beppe Guzzeloni. Chi sei, cosa fai e quale è il tuo legame con la montagna?
BG: Il mio legame con la montagna risale a circa 40 anni fa, sono un educatore professionale, lavoro nell’ambito delle tossicodipendenze a Milano presso lo SMI CAD in zona Lambrate, sono istruttore di Alpinismo dal 1994 e sono socio della SEM di Milano. Inoltre da molti anni sono istruttore di Alpiteam, scuola regionale di alpinismo lombarda con la quale ho iniziato la mia esperienza, prima come semplice istruttore poi anche come direttore dei corsi di alpinismo per la comunità terapeutica Arca di Como, che si occupa di dipendenze patologiche.

AF: Perché precisi che sono dipendenze patologiche?
BG: Perché il termine tossicodipendenza si riferisce solo all’uso di sostanze stupefacenti e in genere anche all’alcol, mentre con il termine ”dipendenze patologiche” rientrano anche il gioco d’azzardo, i disturbi alimentari, le dipendenze tecnologiche, affettive, sessuali, da shopping…

A me, poi, non piace la parola tossico. Le dipendenze patologiche sono stati esistenziali di sofferenza particolare e di malattia dell’esistere dove l’utilizzo di droghe e alcol o l’assumere certi comportamenti disfunzionali servono ad affrontare certi stati d’animo, fragilità personali, disagi profondi. Un modo per fuggire dalla realtà e dal rapporto con l’altro. La dipendenza patologica è la relazione stretta e significativa che instauro tra le sostanze ed il mio modo di essere nel tentativo di dare risposta alle mie sofferenze e disagi. Tossico è il termine che stigmatizza la persona che utilizza sostanze, è un pugno che lo mette in un angolo, un marchio che esclude.

AF: Nei tuoi articoli e nelle tue riflessioni metti molta attenzione all’uso delle parole; cosa intendi tu per montagnaterapia?
BG: È il termine che Giulio Scoppola utilizzò nel 2007 per indicare un approccio metodologico a carattere terapeutico riabilitativo finalizzato alla cura e alla prevenzione per gli individui portatori di particolari problematiche e patologie. In questi anni, invece, ho cercato di fare alcune riflessioni che andassero oltre l’approccio delineato in quella definizione e mi sono affacciato in pensieri nuovi in cui preferisco parlare di “pedagogia della montagna” intesa come uno sguardo più di tipo educativo, che si inoltra nella dimensione del prendersi cura delle persone con particolari fragilità e di aver cura dell’ambiente montano come quello spazio naturale e umano in cui “la cura” può esprimersi. Questo spazio e questa relazione li chiamo “setting”.

La pedagogia della montagna, quindi, è la creazione di opportunità per riscoprire e sperimentare le proprie risorse che sono state schiacciate, depresse, rimbalzate nel passato dalle sostanze. La frequentazione dell’ambiente alpino può offrire la possibilità di svelare qualcosa di sé: la riscoperta del proprio corpo mediante l’arrampicata, il camminare, l’osservazione della natura, l’appropriarsi del silenzio. Insomma opportunità di prendersi cura di sé in un ambiente che deve esser rispettato e tutelato. E in più, offre la possibilità ad una persona “esclusa” dalla società di riconoscersi come cittadino, con diritti e doveri. La pedagogia della montagna per me è la visione di un certo modo di andare in montagna anche con uno sguardo poetico, a volte utopico. La pedagogia della montagna come pedagogia della bellezza e della fragilità in quanto frutto di una sottile, ma forte, sensibilità per l’umano e affascinazione per l’ambiente alpino che concorrono ad alimentare l’attenzione alla persona sollecitandola a prendersi cura di sé e ad imparare a riconoscere la stessa bellezza come cura trasformativa.

AF: Quello che dici mi fa pensare all’utilizzo delle sostanze per scappare dal mondo. La pedagogia della montagna è un modo di fuggire trovando una positività che non sia il ricorso a paradisi artificiali?
BG: Credo che chi utilizza sostanze non voglia solo fuggire dal mondo, ma fugge piuttosto dal proprio mondo, da sé stesso, dal proprio passato. L’assunzione di sostanze è un modo di scappare dai propri problemi, sofferenze, fatiche a volte nemmeno percepite razionalmente; quindi ben venga l’andare in montagna come alternativa alle sostanze.

AF: Come funziona l’approccio pedagogico che hai con le persone che usano le sostanze? Come è che uno con questo vissuto prova a seguire un progetto rieducativo per sentirsi nuovamente accettato nella società?
BG: La mia esperienza nasce quando sono entrato in Alpiteam nel 1986, quando faceva i corsi come tutte le scuole del CAI, ma che ad un certo punto ha scelto di differenziarsi cercando di dare un significato al proprio essere istruttori e che potesse avere maggiormente una funzione sociale. Ci fu l’opportunità di conoscere la Comunità Arca di Como, attraverso don Aldo Fortunato, il fondatore, e così scegliemmo di accompagnare in montagna gli ospiti di questa Comunità. Volevamo dare maggior senso alla nostra passione per la montagna e poter dare a quelli più fragili o deboli o con problemi di dipendenza uno stare assieme in montagna, accompagnarli e far loro vivere quell’ambiente. La nostra intenzione non era certamente quella di curare, ma di stare insieme e far conoscere la montagna attraverso i corsi di alpinismo. Lavorando come educatore in questo settore, ho cominciato a pormi alcune domande: che utilità può avere un corso di alpinismo per individui che hanno intrapreso un programma residenziale? Un corso di alpinismo può essere parte significativa e opportunità riabilitativa che possa integrarsi con il percorso comunitario? I risultati, nelle parole delle centinaia di persone che abbiamo conosciuto e accompagnato in montagna in oltre trenta anni, sono stati sicuramente positivi. Non significa che chi concludeva i corsi poi non avrebbe più usato sostanze, ma la relazione che veniva costruita, senza giudizio e pregiudizio, con l’accoglienza e la disponibilità, ha lasciato un segno, un valore umano positivo, in queste persone. Un segno che è rimasto in Alpiteam e nel cuore di ciascuno di noi.

AF: Parliamo delle comunità: perché la gente ha paura delle Comunità? Fa paura sia a chi ci deve andare, sia a chi deve decidere di inviarceli. È una specie di tabù?
BG: Decidere di entrare in comunità significa scegliere di “separarsi” dalle droghe e da un certo stile di vita con l’obiettivo di prendere in mano la propria vita e poter darle una svolta. Decidere (e dare continuità) di entrare in comunità significa acquisire maggior consapevolezza di sé e riformulare in modo più sano e funzionale il tipo di risposta alla domanda del proprio mondo interiore. Intraprendere un programma residenziale significa avviare un nuovo sguardo sul mondo.

AF: Un ragazzo con cui ho parlato ed era alla fine del suo percorso riabilitativo mi diceva: “ Se esistessero più comunità e la gente non ne avesse paura, sarebbe tutto più facile perché questo stigma verrebbe ridotto”. Il tuo approccio mi fa pensare anche all’eliminazione di questo stigma uscendo dalla comunità ed andando fuori.
Domando: è un corso specifico solo per le persone che hanno usato sostanze e vivono in comunità o è un corso misto, nel senso che una persona che semplicemente è iscritta al CAI e vuol fare un corso, può essere iscritta nella stessa classe con queste persone?
BG: No, non è un corso misto: nasce e si sviluppa all’interno del programma residenziale nel rispetto dei regolamenti della scuola nazionale di alpinismo del CAI. È un corso che rispetta i regolamenti interni alla comunità, che si integra con tutto ciò che un corso di alpinismo richiede assumendo comportamenti e atteggiamenti di rispetto tra persone e per i luoghi che si frequentano. Ci vuole, però, una certa sensibilità nella relazione, nel modo di essere, di parlare, che non vuol dire castrare la propria spontaneità, ma che la propria spontaneità deve essere incanalata con maggiore attenzione a chi sono gli allievi: quando si cammina, quando si sta insieme, quando parlano di sé, quando si aprono, quando si crea un rapporto di fiducia che non deve essere tradita con l’incoerenza e l’inautenticità, con il pregiudizio o con battute. Questo abbraccio tra fiducia, autenticità, montagna e sguardo verso il futuro è il nucleo dell’esperienza della “montagnaterapia”, che fa bene alla persona che sta in comunità ed a quella che gli sta accanto mentre arrampica, cammina, parla, sorride, scherza o impreca per la fatica. Non c’è distinzione.

AF: Cosa ti senti di dire ai giovani, non tanto sulla paura delle droghe ma per un mondo più inclusivo, che non crei stigmi ma metta in guardia sui rischi del consumo di sostanze? Cosa, secondo te, andrebbe fatto?
BG: Domanda difficile. Il mondo della tossicodipendenza è molto complesso. Parto da questo presupposto: la droga produce l’illusione di poter abitare in spazi propri, spazi dell’interiorità – che poi sono spazi smarriti, muti – che solo la sostanza con la sua energia ed eccitamento rinforza l’inganno del suo ritrovamento. L’uso di sostanze infonde l’illusione del proprio riconoscimento e del proprio ritrovamento. Inoltre, c’è da considerare anche che la noia e la frenesia sono – anche in situazioni normali – modi di sopravvivere per una parte del mondo giovanile – e non solo – per tentare di stare dentro il mondo senza farsi male, limitando il rischio della sofferenza, del dolore.

Ecco vedi, la pedagogia della montagna è il tentativo di costruire attraverso l’andare in montagna quelle opportunità di tramutare noia e frenesia in contemplazione, silenzio, calma, lentezza, gestione dell’ansia: I’alpinismo è lo strumento utopico (non impossibile, ma non ancora avvenuto), quello slancio poetico e di speranza con cui nasce in ciascuno la possibilità di ritrovarsi non tramite le sostanze, ma grazie all’esperienza alpinistica o escursionistica. Come si vive il rischio attraverso le sostanze, così si vive quello della montagna. Due modalità di vivere il pericolo in un modo diverso. Questo credo sia la pedagogia della montagna: portare le esperienze che si vivono con l’uso di sostanze in un altro modo, cambiare paradigma.

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Gli spazi smarriti ultima modifica: 2023-05-19T05:50:00+02:00 da GognaBlog

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3 pensieri su “Gli spazi smarriti”

  1. Ho avuto l’onore più volte di accompagnare in montagna giovani che vivono in comunità, sia riabilitativa dall’uso di sostanze che psichiatrica, e anche provenienti da quartieri cittadini degradati e delicati: ho trovato molta sensibilità verso l’ambiente esterno, forse perché in questi individui la consapevolezza che non vi sia alcuna separazione è più spiccata.

  2. La pedagogia della montagna sembra la risposta alla crisi della cultura in montagna: meno sport e più meditazione. Buona strada!

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