I falliti

I falliti (GPM 028)
di Gian Piero Motti
(pubblicato originariamente su Rivista mensile del CAI, settembre 1972)

 

«… i giorni del tempo passato accorreranno a noi tutti insieme quando li chiameremo e si lasceranno esaminare e trattenere a tuo arbitrio… È proprio di una mente sicura di sé e quieta l’andar di qua e di là per tutte le parti della sua vita, mentre gli animi delle persone indaffarate non possono né rivoltarsi né guardare indietro, quasi si trovassero sotto il giogo…».

La lettura di questo sereno pensiero di Seneca, in un momento per me particolarmente positivo e felice, mi ha condotto a trarre alcune considerazioni che a tutta prima sembreranno interessare solo il mio modo di vivere, ma che invece investono quello di molti che come me praticano assiduamente l’alpinismo.

Dieci anni, e non sono pochi, dieci anni durante i quali ho avuto modo di vivere sensazioni diverse per qualità e intensità, giornate e attimi incancellabili, altri più cupi e ombrosi che vorrei dimenticare. Dieci anni durante i quali ho potuto avvicinare un gran numero di alpinisti di diversa estrazione sociale e di differente sensibilità. Oggi da questi contatti umani esco un po’ deluso.

Gian Piero Motti, copertina de I Falliti, Vivalda

 

Ebbene sì, ho conosciuto molti alpinisti anche forti, grossi nomi internazionali, altri meno forti, altri ancora allievi delle scuole d’alpinismo: vi era chi alla montagna era giunto attraverso l’amore per la natura e proprio per questo pensava all’alpinismo come a un’avventura più intensa e completa, venuta a poco a poco in una logica successione di sensazioni e di entusiasmi. Vi era chi vedeva nell’alpinismo un’affermazione reale e concreta della propria personalità, affermazione cercata forse proprio in seguito a una frustrazione o a un fallimento nella vita di ogni giorno.

Sovente ho sentito dire frasi come queste: «Per me la montagna è tutto», «Ho dato tutto me stesso all’alpinismo», «Se non dovessi più arrampicare sarei un fallito».

Sul momento non ho fatto molto caso a simili affermazioni perché anch’io ho rischiato molto da vicino di divenire un fallito. In seguito a circostanze che avrò modo di chiarire in seguito, mi sono lasciato tentare dall’antico detto «Eritis sicut dii».

Sì, anch’io avrei dovuto dedicare tutto me stesso all’alpinismo tralasciando gli altri interessi. Dimenticare l’amore per il bello, per la musica e la poesia, l’amore per l’arte in senso lato, l’affermazione di se stessi nella vita di ogni giorno, le amicizie profonde estranee all’ambiente alpinistico, con cui condurre discussioni interminabili su tutto e su tutti.

L’importante è allenarsi, sempre e di continuo, non perdere una giornata, avere il culto del proprio fisico e della propria forma, soffrire se non si riesce a mantenere questo splendido stato di cose. E se sopraggiunge una malattia o anche solo un malessere leggero, allora è la crisi, la nevrosi. Perché ciò che conta è arrampicare sempre al limite delle possibilità, ciò che vale è la difficoltà pura, il tecnicismo, la ricerca esasperata del “sempre più difficile”.

Trascinato da questo delirio, non ti accorgi che i tuoi occhi non vedono più, che non percepisci più il mutare delle stagioni, che non senti più le cose come un tempo. Sei null’altro che un professionista; per te l’alpinismo è un lavoro. E così non ti accorgi che a uno a uno stai perdendo tutti gli amici, quelli che ti conoscono bene a fondo, che a volte hanno cercato di farti capire che stai sbagliando, e forse anche tu lo hai capito e lo sai bene, ma consciamente o inconsciamente ti rifiuti di accettare il peso di una realtà faticosa.

E così sono giunto a scrivere quelle Riflessioni che sono la testimonianza diretta di un uomo che sta naufragando sempre più, di un uomo che sta sospeso in bilico su un abisso immane, ma che prima di precipitare ha ancora la forza di ritirarsi un attimo e di pensare in quale stato si sia ridotto. Esaltato, nevrotico, indifferente quando non assente; ostinato e caparbio nell’inseguire una meta sbagliata eppure cosciente dell’errore.

Andavo ad arrampicare tutti i giorni o quasi, preoccupatissimo di ogni leggero calo di forma. Ma non mi accorsi nemmeno che stava divenendo primavera, non vidi neanche che qualcosa di diverso succedeva nella terra e nel cielo e chi ben mi conosce sa che ciò equivale a una grave malattia. Arrampicare, arrampicare sempre e null’altro che arrampicare, chiudermi sempre di più in me stesso, leggere quasi con frenesia tutto ciò che riguarda l’alpinismo e dimenticare, triste realtà, le letture che sempre hanno saputo dirmi qualcosa di vero e che con l’alpinismo non hanno nulla da spartire. Ma qualcosa comincia a non funzionare: ritornando a casa la sera mi sento svuotato e deluso, mi sento soprattutto inutile a me stesso e agli altri, mi sembra anzi, e ne ho la netta sensazione, che il mio intimo si stia ribellando a poco a poco a questo stato di cose, che il mio cervello non tolleri questo modo di vivere. Ed ecco che giunge la crisi, terribile e cupa.

Ogni volta che vado ad arrampicare è un tormento, non sono più io, non ho più equilibrio, le mani mi tremano, non ho più coordinazione nei movimenti, ma soprattutto non “vedo” più nulla. E questo, chi lo ha provato lo sa, è veramente terribile. Tutto ti passa davanti e tu te ne stai indifferente, passivo, non vedi e non senti, ma invece, e ciò ti distrugge, vorresti sentire e vedere come e più di prima perché il passato rivive cristallino e limpido e si oppone con forza al buio in cui sei precipitato.

E allora ti dici finito, ti senti esaurito, svuotato: hai chiuso.

Ma cosa hai chiuso? Ma non ti accorgi, non ti rendi conto che ti sei creato l’infelicità con le tue stesse mani, che hai tradito la tua essenza, che presuntuosamente ti sei isolato inseguendo fantasie morbose e cercando sensazioni sempre più esasperate? Hai sempre condannato chi si droga e non ti rendi conto che anche tu sei un drogato, perché la roccia è la tua droga.

Ti sei ridotto veramente male; eppure un giorno non eri così, eri molto diverso. Andavi ad arrampicare quando lo desideravi, quando dentro di te sentivi il sangue fremere e friggere, quando avevi desiderio di sole e di vento, di cielo e di libertà. Eri allegro e spensierato, avevi un sacco di amici e di amiche, e soffrivi da morire quando le sensazioni che provavi erano solo tutte per te e non vi era nessuno con cui spartirle. Così cercavi con la fotografia di rendere anche gli altri partecipi della tua gioia, oppure li trascinavi in lunghe e interminabili gite o li legavi a una corda e li portavi ad arrampicare sui sassi perché volevi che anche loro provassero le stesse gioie e le stesse sensazioni. E se tu eri il solo a provarle, ne soffrivi, anche fisicamente; ti sembrava di sentire qualcosa dentro che cresceva a dismisura e sembrava voler scoppiare.

Ma soprattutto eri sereno, sereno nei tuoi pensieri e nei tuoi gesti, sempre superbo e ambizioso come sei; ma ognuno ha difetti più o meno grandi.

Ora invece sei solo da morire, barricato nella tua torre d’avorio; con il tuo sterile solipsismo hai distrutto le cose più belle che avevi. Però non hai chiuso. L’estate sarà triste, la più triste della tua vita. Ma un mattino, a seguito di lunghe giornate appiattite e monotone, giornate in cui anche una densa foschia di calore avvolge le creste dei monti rendendole ovattate e lontane, estranee e distanti, un mattino ti sveglierai sotto un cielo scuro e gravido di nubi, e un vento freddo e tagliente andrà a dividere i tuoi capelli mentre cammini da solo per quella strada che ben conosci.

Ma fra le nubi, a un tratto scoprirai un angolo piccolo piccolo di azzurro, che il vento nella sua gran corsa avrà liberato a poco a poco, e da quella densa nuvolaglia filtrerà un raggio di sole che come una spada scenderà diritto a illuminare una cresta tormentata, che solo ieri non avresti neppure notato. E così oggi i contorni sono chiari e definiti, oggi le creste si stagliano scarne e scheletrite sotto il cielo d’inchiostro, oggi il verde è più verde, oggi il bosco ha una vita e un profumo, oggi vedi le cascate e la luce del torrente, oggi…

Alberto Re nel 2014
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… Da quattro ore Alberto Re e io siamo seduti su un minuscolo terrazzino, immersi ciascuno nei propri pensieri, silenziosi e forse un po’ gravi. Siamo sulla Nord delle Grandes Jorasses: è una salita che tutti e due abbiamo sognato e inseguito a lungo, e ora la montagna ci prova duramente. E pensare che siamo andati all’attacco ridendo e scherzando, pensare che al rifugio ho dormito tutta la notte, un sonno tranquillo e profondo: ho persino sognato.

Il primo giorno un sasso ha colpito Alberto; le pessime condizioni hanno rallentato molto la nostra andatura e abbiamo dovuto bivaccare sopra le placche nere. E poi la notte è stata un inferno, cinquanta centimetri di grandine, concerto di tuoni e fulmini.

Oggi nella Cheminée rouge ho vissuto i momenti più duri e difficili della mia vita; siamo stati fulminati, abbiamo dovuto uscire alla disperata da questo orrendo camino che ci vomitava addosso cascate scroscianti di grandine e sassi, assordati dal frastuono dei tuoni e della folgore.

Ora è pomeriggio e siamo qui su questo terrazzino a soli duecento metri dalla meta, e attendiamo in silenzio che la natura si plachi. Siamo preoccupati, abbiamo paura di morire? Non lo so. Io personalmente vedo ben da vicino il rischio che ho corso e che sto correndo, ma non ho paura, sono solo molto triste. È la fine di luglio, e immagino un bel pomeriggio di sole lassù in Val Grande, e davanti ai miei occhi le immagini si susseguono con chiarezza: cosa avrei fatto oggi? Forse avrei giocato a pallone, o forse avremmo fatto una passeggiata tutti insieme nei prati della Stura, e seduti sul solito pietrone avremmo iniziato interminabili discussioni sulla religione, sulla politica o sulla vita. O forse ancora sarei andato con la ragazza in un prato e dopo l’amore mi sarei soffermato a lungo a dividerle i capelli a uno a uno, o a stuzzicarle il viso con un filo d’erba, o a osservare la luce dei suoi occhi illuminati dal sole. O, ancora da solo, sdraiato in un grandissimo prato, avrei affondato lo sguardo nell’azzurro del cielo con l’intento di scoprirvi lontane fantasie o avrei inseguito i giochi delle nubi con il sole, cercando forme strane e fantastiche nel loro biancore pulito. O ancora avrei camminato lentamente, nell’erba, mentre il vento la piega disegnando le onde del mare e ne trae un profumo forte e pungente di fiori e di fieno.

E vedo a mezzogiorno tutti i miei cari seduti intorno al grande tavolo e ancora mi par di sentire le loro e le nostre vivaci discussioni, perché le idee sono molte e diverse.

Invece sono qui, dove non vi è nulla di umano; ma proprio per questo so che devo arrivare in vetta, perché quando ritorno mi aspetta la vita.

Per uno strano caso la commozione ci colse su quella vetta delle Grandes Jorasses, alle nove di sera di un giorno di luglio, sotto un cielo nero e cupo, illuminato da bagliori violetti verso le cime del Gran Paradiso. Certi momenti non si dimenticano; restano, segnano per sempre un’amicizia. E se ripenso alle sensazioni che provai quando ritornai, mi sembra di rivivere ancora uno dei periodi più pieni e felici della mia vita. Scoprivo ogni cosa come nuova e diversa, i colori, gli amici, mi sembrava di voler bene a tutti e a tutto. Per un mese non andai più ad arrampicare o almeno non feci più salite importanti. Ma in quel mese ebbi modo di effettuare meravigliose gite con gli amici; trascorsi intere giornate alla ricerca di paesaggi e di fiori per l’obiettivo della mia macchina fotografica; mi divertii a giocare come un ragazzino. E non pensai neppure al mio stato di forma, la cosa non mi interessava, perché ero ugualmente soddisfatto e felice anche se non compivo delle grandi salite. Tant’è vero che quando sentii ancora il desiderio di una grande e bella avventura, quando mi prese ancora la voglia di avere roccia sotto le dita, sempre con Alberto andai a fare la via Brandler-Hasse sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo. E mi trovai benissimo.

Oggi se perdo una domenica intristisco, divento irascibile, nervoso; se ogni volta che arrampico non vado a fare una via estrema, non mi sento soddisfatto. Eppure, non mi sembra di essere più in forma di allora.

Non si può andare avanti così.

In primavera ho occasione di leggere un libro che reputo uno dei più intelligenti e interessanti della letteratura alpina. Si tratta di Les royaumes du monde di Jean Morin, un romanzo apparso in Francia negli anni Cinquanta. Vi si narra la storia di un uomo che quasi inconsapevolmente viene assorbito e trascinato dalla passione delirante per l’alpinismo: un uomo però dubbioso e sensibile, tormentato sempre dal sospetto di avere sbagliato, ma nello stesso tempo magneticamente attratto dall’azione anche esasperata. Gli è compagno un altro uomo che invece vede solo l’alpinismo e che cerca di convincere l’amico a dare definitivamente tutto il meglio di se stesso alla causa.

Così, il nostro a poco a poco si isola sempre di più, l’alpinismo diviene una triste droga, quasi un’espiazione da subire in silenzio. A uno a uno perde gli amici, la ragazza, e si ritrova di fronte al suo fallimento in un’età in cui il bilancio di se stessi è ancora più duro. Ormai l’uomo ha capito ed è cosciente del suo errore: la conferma, triste e dolorosa, gli viene dalla tragica morte dell’amico sulla parete nord dei Bans, attaccata in pessime condizioni di tempo. Solo, di notte, in un rifugio, Jean si trova di fronte al nulla a cui è approdato; comprende di aver rinunciato a molto, a troppo pour une lutte sans issue.

Gian Piero Motti (a sinistra) gioca con Mario Pelizzaro sui massi delle Courbassere (Valle di Lanzo), 2 marzo 1980

Courbassere (Valle di Lanzo), 2.3.1980, G.P.Motti e Mario Pelizzaro

La lettura del romanzo mi ha fatto oltremodo riflettere e ho cominciato a percepire che qualcosa andava incrinandosi. Ma non accettavo ancora la realtà; anzi, mi ribellavo prepotentemente. Poi, quasi per caso, mi capitò di leggere le stupende parole scritte da Dino Buzzati molti anni or sono per la morte di Ettore Zapparoli, forse la cosa più bella e più vera apparsa sulle pagine della nostra rivista.

No, io non dovevo finire così, mi sentivo ancora (Dio mio, 25 anni!) vivo, pieno di interessi, avevo ancora troppe cose da dire, da vedere, da conoscere. Buzzati fu duro, ma giusto. In fin dei conti Zapparoli era un fallito.

Ma ancora non bastava. Bisognava toccare il fondo. Vuoi per un certo crepuscolarismo di balorda qualità, che ogni tanto affiora nei miei giorni peggiori, vuoi per una certa voluptas dolendi che ogni tanto esercita il suo fascino, assunsi la parte dell’uomo deluso e finito e cominciò una recita piuttosto grottesca. Per giustificazione o per meglio mascherare il mio fallimento agli occhi degli altri, mi atteggiai a ribelle nei confronti della società; cercai di entrare nella parte dell’anarchico che disprezza i comuni mortali, che

odia la normalità, dell’uomo finito a vent’anni, dalle idee tenebrose e cupe, dai lunghi silenzi. E anche nel vestire cercai di adeguarmi al soggetto proposto: barba, capelli lunghi, abiti logori e sdruciti, atteggiamenti molto posati.

Con il risultato che il mio cervello non tollerò più oltre e mi assestò il colpo definitivo. Esaurimento nervoso di grossa portata, con perdita completa del sonno e un sacco di disturbi fastidiosissimi. Smisi naturalmente di andare in montagna, in tutti i sensi, anche su quella facile, e non feci che aggravare le cose.

… Oggi, oggi invece, seppur da un piccolo spiraglio, comincio a rivedere le cose. Ho capito l’errore; troppo a lungo ho vissuto in una piccola stanza dove ho chiuso ermeticamente le finestre e le porte, e lì, da solo, nel buio, mi sono illuso che il mondo fosse tutto racchiuso fra quattro pareti. Poi una finestra si è leggermente dischiusa e un filo di luce vi è penetrato.

Seguirà un autunno incerto, un ritorno alla montagna timoroso, ma con un animo diverso. Però non ancora tutto era chiarito; anche se cominciavo a star bene, qualcosa ancora nella mia testaccia non funzionava.

Guido Rossa con la figlia
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Incontrerò una sera d’inverno Guido Rossa, il quale fissandomi a lungo, con quei suoi occhi che ti scavano e ti bruciano l’anima, con quella sua voce calma e posata, mi dirà delle cose che avranno un valore definitivo. Mi dirà che l’errore più grande è quello di vedere nella vita solo l’alpinismo, che bisogna invece nutrire altri interessi, molto più nobili e positivi, utili non solo a noi stessi ma anche agli altri uomini. Non rinunciare alla montagna. E perché? No. Ma andare in montagna per divertirsi, per cercare l’avventura e per stare in allegria insieme agli amici.

Io lo so e l’ho sempre saputo; ma dovevo sentirmelo dire da un uomo che mi ha sempre affascinato per la sua intelligenza e per la sensibilità artistica che scopri nel suo sguardo. E poi ci saranno altre persone, tutti gli amici che stupidamente avevo perduto e che ritroverò a uno a uno e che mi aiuteranno moltissimo a ritornare quello di prima.

E siamo finalmente nella realtà di questa primavera 1972. Ho trovato un lavoro che mi soddisfa e mi lascia molta libertà, libertà non solo di andare in montagna, ma anche di dedicarmi alle mille cose che ogni giorno mi attirano. Quest’inverno sono andato pochissimo ad arrampicare, ma sono ugualmente felice e soddisfatto, anzi sicuramente l’anno prossimo dedicherò tutta la stagione invernale allo sci e cercherò finalmente di praticare con sicurezza questo magnifico sport. Quest’estate ho in mente sì di effettuare qualche bella salita; ma voglio anche dedicarmi ai viaggi che da tempo ho abbandonato e che, invece, sempre sono stati per me fonte di esperienze e sensazioni meravigliose. Un amico di ritorno dalla Grecia mi ha detto: «Vai di sera verso il tramonto, quando non vi è quasi più nessuno, di fronte al Partenone ad Atene. Fra quelle pietre calcinate, in quella sassaia arida e deserta, assordato dal frinire delle cicale, vedrai tremare nel calore del pomeriggio quelle enormi colonne e ti sembrerà veramente che il tempo non sia trascorso».

E veramente, come disse Seneca, posso rivedere serenamente i giorni del passato. E rivedo tanti volti, tanti nomi, per i quali oggi non posso provare che una profonda tristezza. Perché ho conosciuto molti ragazzi e molti uomini che avevano trovato nell’alpinismo il compenso al loro fallimento nella vita di ogni giorno. Uomini che si erano dati e che si danno caparbiamente alla montagna con l’illusione di trovare un’affermazione che li ripaghi di tutte le frustrazioni, le delusioni e le amarezze della vita.

Alcuni si illudono di essere qualcuno, credono di essere importanti, solo perché nell’alpinismo hanno raggiunto i vertici. Ma se tu trasporti gli stessi individui in un altro ambiente, se li inserisci in un differente contesto sociale, allora li vedi incapaci di sostenere un dialogo qualsiasi, spauriti e intimiditi, incapaci di intrecciare relazioni umane. Ed eccoli allora portare a giustificazione del loro fallimento l’incomprensione altrui, la banalità e il qualunquismo della gente, la superiorità di chi pratica l’alpinismo, la diversa sensibilità di chi ama la montagna. In realtà vi sono uomini sensibilissimi e amanti della natura anche al di fuori del territorio alpinistico, vi sono uomini che cercano e trovano altrove l’avventura e che sanno comprendere; ma, purtroppo, nell’alpinismo troppi sono i falliti e troppi i condizionati.

Non sempre, per fortuna, è così. Sovente ho incontrato ragazzi sereni ed equilibrati; ma molto più sovente l’uomo alpinista mi ha profondamente deluso per la sua ristretta visione delle cose, per la sua voluta ignoranza e per il disprezzo dei comuni mortali.

Chi invece la pensa diversamente, chi ha il complesso da prima donna e a tutti i costi si arrabatta per essere il primo, chi vive per la grande impresa e la difficoltà, forse farà per un po’ grandi cose, ma poi giungerà alla triste conclusione di chi, a trent’anni, svuotato ed esaurito, ha dovuto dire addio.

Ogni volta che incontro Francesco Cichin Ravelli, penso a quest’uomo più che ottantenne che ancora oggi percorre i sentieri della montagna e che quando giunge la primavera mi parla con gli occhi che brillano degli alberi verdi e dei fiori.

Francesco Ravelli
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I falliti ultima modifica: 2017-02-13T05:32:59+01:00 da GognaBlog

17 pensieri su “I falliti”

  1. 17
    Chiappero Luigi Benigno says:

    Ho conosciuto il GRANDE Motti . Era una grande persona di grande intelligenza, quelli che non lo capiscono, si vede che non sono in grado di capirlo!!!!!!!!!!!!!
    Grande uomo riposa in pace .

  2. 16
    AndreaD says:

    Di questo articolo sento parlare da quando leggo almeno una rivista di montagna, cioè dal 1980. Presto lo leggerò con calma.

  3. 15
    GIANDO says:

    L’argomento è interessante così come lo sono i vari commenti.
    Aldilà del Motti persona, su cui tanto si è detto e scritto e, almeno finché saranno ancora in vita un paio di generazioni, si continuerà a dire e scrivere, rimane da sviluppare una riflessione importante.
    Mi aggancio al ragionamento di Alberto Benassi. Da ciò che dice e per quanto lo possa conoscere limitatamente alla sua presenza partecipativa sul blog, non mi sento di considerarlo un drogato di montagna. Alberto mi dà l’idea di essere una persona con una forte passione per qualcosa ma vissuta in maniera sana e matura. Penso, e non credo di sbagliarmi, che ad Alberto piaccia sia misurarsi con i propri limiti sia limitarsi a fare una semplice passeggiata in mezzo alla natura per il semplice motivo di godere di un ambiente più consono alla sua persona. In ciò non ci vedo nulla di male.
    Lo stereotipo di cui parla Motti è invece il classico soggetto che dell’ambiente gliene frega il giusto. Per tale individuo ciò che conta è la prestazione, il superamento del limite che in realtà non è altro se non il tentativo di superare le proprie fobie. Che poi tale individuo possa arrivare a suicidarsi è un mero dettaglio. La stragrande maggioranza di chi ha questo genere di problematiche fortunatamente si ferma prima.
    A questo punto nasce spontanea una domanda: quante persone conosciamo con le caratteristiche evidenziate da Motti? Molte, poche? Beh, personalmente posso dire di averne conosciute diverse e non solo in ambiente alpinistico. Per certi versi possono anche tornare utili alla causa in quanto possono arrivare a realizzazioni importanti, ad introdurre per es. innovazione. Al tempo stesso possono sovente costituire un esempio da non seguire, facendosi portavoce di un messaggio molto discutibile.
    Quante volte anche noi ci troviamo a dialogare su un certo tipo di approccio alla montagna? Quante volte affrontiamo il tema della ricerca della prestazione fine a sè stessa? Non è poi che Motti dica cose tanto diverse da quelle che molti di noi pensano. Semplicemente, anche se non è poco, lui è andato oltre ma, come dice giustamente Alberto “forse c’era qualche altro problema”.

  4. 14
    Luca Visentini says:

    Stiamo trascendendo.

  5. 13
    paolo panzeri says:

    Valerio noi a quei tempi non lo capivamo, non capivamo perché si sentisse così superiore, forse per il noto vizietto del suo ambiente, e cercasse di assomigliare ad altri (c’era Messner, ma anche Alessandro e poi Casarotto) e faceva un casino di ragionamenti e a noi sembrava cercasse continuamente di giustificare i propri limiti di alpinista bravo ma non eccezionale, e poi si è suicidato.
    Non ha accettato se stesso e sì che lui non è che fosse particolarmente impegnato col lavoro o con la famiglia, lui pensava.
    Ripeto, per me non è un esempio di uomo da tenere in grande considerazione e i suoi scritti sono sempre esistiti un po’ dovunque, lui li ha solo messi bene in italiano: non si dovrebbe continuare a pubblicizzarlo.
    Spero che molti giovani continuino a capire e a storcere il naso.

  6. 12
    Alberto Benassi says:

    Senza essere un “professionista del vuoto” io dedico veramente tanto tempo alla montagna. Quasi ogni momento libero lo dedico alla montagna. Posso tranquillamente affermare che la montagna fa parte della mia vita. E ne sono fiero. Se non andassi in montagna non sarei io.
    Quando non riesco ad andarci per un motivo o per un’altro. Magari vado al cinema, oppure a vedere un museo, ect. ect. Bello, ci vuole anche quello. Ma andare in montagna è un’altra cosa.
    Ma non per questo mi sento un “fallito” .
    Si è vero, la montagna non è tutto nella vita. Ci sono tante altre cose. Ma se ti ci senti bene, se sei a tuo agio, se ti manca, se ti fa stare bene.
    Se provi tutto questo e tanto altro, perchè sentirsi un “fallito” ?
    Forse perchè imposti la tua vita a senso e non vedi altre direzioni?
    Forse perchè ti senti schiavo di questa passione (droga?) .
    Si, mi potrei definire un drogato di montagna. Ma credo sia una droga sana.
    Con tutto il rispetto e l’ammirazione per Motti ma forse c’era qualche altro problema. E non avendolo conosciuto che posso dire, NULLA.

  7. 11
    Valerio Rimondi says:

    Credo di essermi espresso male. Lo so che Gian Piero Motti si è suicidato. Quello che non mi quadra è il collegamento fra l’articolo e il suicidio dell’autore. Non escludo che un fine psicologo possa rilevare nello scritto i germi del futuro suicidio ma non è che tutti coloro i quali pensano le stesse cose vadano poi a buttarsi giù da un ponte. Di acqua sotto i ponti per l’appunto ce ne passa.
    Il paragone con Gimondi ci sta’ nell’ambito dell’accettazione dei propri limiti ma non mi risulta che Felice avesse le visioni di Motti né tantomeno che le ricercasse. Insomma sono due situazioni un po’ diverse.

  8. 10
    GIANDO says:

    Confesso che gli scritti di Motti mi hanno sempre lasciato un retrogusto strano e ciò deriva proprio dal fatto che si è suicidato in età relativamente giovane, almeno coi parametri attuali (ma anche con quelli di allora).
    Quindi cerco sempre di operare una dissociazione fra il pensiero e l’azione, nel senso che cerco di vedere la profondità dei contenuti senza legarli al risultato finale cioè il suicidio.
    Siccome anch’io nella mia vita ho fatto delle esperienze un po’ fuori dall’ordinario posso dire che quando ci si trova di fronte ad una realtà non inquadrabile attraverso i consueti schemi mentali (mi pare che Alessandro abbia parlato in un suo articolo di “contemplazione del mistero” o qualcosa del genere) sia di fondamentale importanza attaccarsi a qualcosa di comprensibile. In caso contrario si rischia di finire in un baratro senza via d’uscita.
    La sensazione che ho sempre avuto, ma forse mi sbaglio, è che Gian Piero sia stato un ricercatore solitario senza ancore di salvezza. Se non hai un salvagente a cui aggrapparti, un maestro, un’ideologia, che ti consentano di traslare esperienze fuori dalla norma nella vita di tutti i giorni la pazzia è dietro l’angolo.
    In ogni caso la linea di confine è veramente molto labile. Io stesso potrei esprimere un giudizio di un certo tipo oggi e ritrovarmi fra un anno ad esprimerne uno diverso. Diciamo che in certe situazioni ci si deve trovare.

  9. 9
    GIANDO says:

    No Valerio non hai perso nulla nella lettura del pezzo, è solo che Motti si è suicidato a 36 anni.

  10. 8
    Valerio Rimondi says:

    Scusate ma perché è venuto fuori il suicidio? Ho perso qualcosa nella lettura del pezzo?

  11. 7
    Alberto Benassi says:

    “La vita è un fallimento perché si muore e allora tanto vale suicidarsi subito?
    Dato che riconosco l’esistenza di persone per me irraggiungibili è meglio che mi suicidi?”

    Sono d’accordo con Paolo. Non è la soluzione il suicidio.
    Però credo che ci sia un lato del suicidio che si possa comprendere e accettare.
    Il suicidio visto come una LIBERAZIONE.
    Liberazione da una situazione senza via d’uscita.
    Anche se a volte le vie d’uscita ci sono ma non si riesce a vederle.
    Forse Motti non aveva vie d’uscita…?

  12. 6
  13. 5
    paolo panzeri says:

    Ultimamente “i falliti” viene ripubblicato spesso e lo rileggo, ma non riesco a capirlo ancora, e sì che dopo 45 anni di parole ne ho lette attorno a lui.
    La vita è un fallimento perché si muore e allora tanto vale suicidarsi subito?
    Dato che riconosco l’esistenza di persone per me irraggiungibili è meglio che mi suicidi?
    Se mi sforzo posso comprendere il suicidio rituale giapponese, ma la mia negazione no.
    Forse il suicidio è per un’ambizione che si scopre essere una illusione?
    Gimondi non si è mica suicidato perché c’era Merx che lo superava!
    Ha accettato i suoi limiti e chi li aveva superiori ai suoi.
    Non accettare se stessi è troppo comodo!
    Forse questo va di moda?

  14. 4
    Silvano says:

    Splendide ,profonde e amare considerazioni che condivido .

  15. 3
    Ferdinando Lattanzi says:

    Verissimo, in questo comportamento “autistico” l’ambiente alpinistico è riuscito a precorrere addirittura la società intera che è sempre più orientata all’estrema “specializzazione” dei suoi individui che li rende più manovrabili e dipendenti.
    Vedo che anche in molte Guide Alpine prevale la mera formazione tecnicistica rivolta alla prestazione rispetto alla più complessa considerazione dell’ambiente in cui si esercita la professione ed al cliente, il cui desiderio è quello di affidarsi ad un uomo che possieda, oltre a tutte le peculiarità afferenti alla categoria umana, anche quelle tecniche proprie della professione e non soltanto queste ultime.

  16. 2
    Andrea says:

    Sono nato sulle montagne con le parole di mia madre. Sono nato sulle rocce con le parole di Gian Piero Motti. Ho scelto Quelle di Gian Piero per il Lichene n° 111, le porto nel cuore assieme a Quelle di mia madre.
    Andrea Nicolussi Golo

  17. 1
    GIANDO says:

    Chapeau!

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