Il discorso sul femminicidio a Forum

Le parole pronunciate da Barbara Palombelli durante «Lo sportello di Forum» fanno esplodere il dibattito. Poi le scuse su Retequattro: «Non esiste nessuna rabbia, nessun comportamento che possa giustificare il femminicidio. Chiedo scusa se non era chiaro abbastanza».

Il discorso sul femminicidio a Forum
Barbara Palombelli: «Lecito chiedersi se le donne non abbiano avuto comportamenti aggressivi»: scoppia la polemica.
di Maria Volpe
(pubblicato su corriere.it del 17 settembre 2021)

Una vera e propria rivolta sui social. E non solo. Sì, perché il tema è forte e doloroso: il femminicidio. E inaspettatamente una donna e giornalista come Barbara Palombelli ha detto una frase che ha causato molte reazioni, giovedì 16 settembre 2021 durante il programma «Lo sportello di Forum» su Retequattro alle 14. Questi i fatti: Palombelli introduce come di consueto il caso della puntata, un litigio tra moglie e marito.

Barbara Palombelli

Sette delitti in 10 giorni
«Come sapete, negli ultimi 10 giorni ci sono stati 7 delitti, sette donne uccise presumibilmente da sette uomini. A volte è lecito domandarsi se questi uomini erano completamente fuori di testa oppure c’è stato un comportamento esasperante, aggressivo anche dall’altra parte? È una domanda. Dobbiamo farcela per forza perché in questa sede, in un tribunale, dobbiamo esaminare tutte le ipotesi».

Tweet furiosi
Numerosissime le proteste e la richiesta di scuse pubbliche. Tanti tweet che esprimono rabbia. C’è l’attacco di Selvaggia Lucarelli «Palombelli vergognati!», e quello di Valeria Fedeli: «Possibile che una giornalista esperta come Palombelli legittimi uno degli stereotipi più pericolosi?». Laura Boldrini definisce «Gravissime le parole di Palombelli». L’Associazione «NonUnaDiMeno» si indigna per le frasi dette e grida: «Vergognati!». Fiorella Mannoia e Anna Paola Concia hanno lo stesso pensiero:«Uomini ribellatevi a chi vi disegna come dei primati che non riescono a tenere a freno gli istinti». Scende in campo anche la ministra delle Politiche giovanili, Fabiana Dadone: «È gravissimo, sono frasi che si commentano da sole. Sono offensive verso tutte le donne». Le fa eco Appendino, sindaca di Torino: «Sono esterrefatta». L’elenco è davvero lunghissimo.

Le scuse
Un crescendo di rabbia che ha portato ieri la giornalista a Stasera Italia a dare una spiegazione e a chiedere scusa: «Oggi è successa una cosa terribile, è stata estrapolata una frase da una causa di Forum ed è stata utilizzata per una valanga di attacchi, una cosa che mi ha attraversato da tutte le parti. Sono stata accusata di essere complice dei femminicidi, di assolvere gli uomini che usano violenza sulle donne. Questo tradisce tutta la mia vita, dedicata a contrastare la violenza sulle donne e sui bambini. Non esiste nessuna rabbia, nessun comportamento che possa giustificare il femminicidio. Chiedo scusa se non era chiaro abbastanza. Chiedo scusa all’azienda e a tutti coloro che hanno creduto che io fossi quella persona lì. Non sono quella persona lì, sono sempre io».

L’attacco a Palombelli e la diffusa indisponibilità a fare i conti col male
(Il punto è se abbia senso provare a entrare nella testa di chi commette violenza sulle donne)
di Alessandro Barbano
(pubblicato su huffingtonpost.it il 21 settembre 2021)

Il punto non è più che cosa abbia detto in tv Barbara Palombelli. Il punto è – come ha ben chiarito Massimo Adinolfi ieri su HuffPost – se abbia senso provare a entrare nella testa di chi commette violenza sulle donne. Da questa domanda, che interroga in maniera diversa la giustizia, la politica e il giornalismo, dobbiamo partire per capire che cosa stia accadendo nel discorso pubblico. Perché il biasimo levatosi da ogni dove contro la conduttrice di Forum racconta un fenomeno, cioè una diffusa tentazione di ridurre la lotta al femminicidio alla condanna penale e alla censura morale. È, icasticamente, un “non sentire ragioni”. Ma, come molti fenomeni sociali, ha dentro di sé un’ambivalenza: è insieme effetto dell’emergenza e di un’acquisita consapevolezza. Francesco Merlo su Repubblica lo spiega così: “La parola femminicidio implicitamente condanna le vecchie parole che sono consumate: amore criminale, delitto passionale, follia assassina, violenza in famiglia, resa dei conti. E con quelle parole archivia pure la vulgata psicanalitica e il facile sociologismo, al quale ha fatto riferimento Barbara Palombelli: la rabbia cieca, la povertà delle famiglie, l’istinto immediato della vigliaccheria, l’onore, la gelosia, il possesso, il tradimento, l’adulterio che, ben prima del femminicidio, esprimevano già la disputa maschile sul corpo della donna”.

Non ha torto Merlo, perché ogni violenza socialmente egemone, come quella del maschio sulla femmina, tende ad autolegittimarsi con una retorica giustificatrice. La storia del delitto d’onore lo insegna. Però il rischio è che, facendo giustamente piazza pulita di sociologismi e psicanalisi a buon mercato, la società si vada anche convincendo che entrare nella testa dell’assassino, spaccare il guscio del male per capire cosa c’è dentro, sia diventato inutile. Di più, irriguardoso per le vittime. Perché questo sta accadendo.

È un processo che ha due conseguenze. La prima è la rinuncia a comprendere che la violenza non è altro da noi. Di là i mostri, di qua bravi mariti e mogli, compagni e compagne, amanti. Divisi da un muro invalicabile, che è anche uno schermo per non vedere e non sentire. Non è un caso che, di questi tempi, il rimedio suggerito contro la violenza sia uno stato permanente di vigile attenzione che ne individui gli indizi premonitori. È quello che fa dire in tv a sedicenti esperte di femminicidi: denunciateli al primo schiaffo, al primo segnale di una possessività irragionevole. 

Non che questo non sia astrattamente sacrosanto, ma alla prova dei fatti è impraticabile. Perché la violenza è invischiata subdolamente nella relazione, si nutre spesso di una dipendenza patologica che non si disattiva certo con una postura investigativa. Fa stupore, perciò, che la maggior parte delle donne rinuncino a denunciare, per lo stesso motivo per cui nessuno si chiede che cosa davvero accadrebbe se tutte lo facessero, se tutte portassero in questura i propri partner la prima volta che intercettino nel loro sguardo la luce sinistra della rabbia. Basterebbero tutte le carceri del Paese per impedirgli di nuocere? 

La seconda conseguenza è che, nel discorso pubblico, tutti i femminicidi finiscono per essere uguali, cioè per esserne uno solo, simbolicamente potente, ma senza alcun contatto con la tragica realtà della vita. E per tutti si invoca la stessa pena, la massima. Poiché niente, davvero niente – si dice – giustifica l’uccisione di una donna. E non vale l’obiezione che, a parti invertite, le cose non siano così nette. Non vale che la mantide, che avveleni il marito per dividere con l’amante l’eredità, non sia paragonabile alla moglie che lo uccida reagendo a una vita di vessazioni e abusi. Non vale perché nel femminicidio la relazione tra carnefice e vittima è schematica. La definiscono lo squilibrio dei rapporti di forza tra uomo e donna e il rifiuto dell’uomo ad accettare un sovvertimento di questo paradigma. Nel femminicidio non esiste quasi mai un partner subalterno che possa invocare l’attenuante delle vessazioni subite da una donna. 

E tuttavia c’è da chiedersi se questa rigidità di ruoli renda inutile o, addirittura, inopportuno indagare la diversità irripetibile di ogni singola relazione umana. Senza che questo produca l’effetto di costruire un reato che non è più un fatto umano, e in cui le stesse donne facciano fatica a riconoscersi. Perché ciascuna storia individuale rischia di essere diversa dalla storia tipo. Insomma, viene da chiedersi se la riduzione di quella complessità che anche il femminicidio ha, in quanto omicidio, aiuti le donne a difendersi e gli uomini a migliorarsi, o se piuttosto accada l’esatto contrario. Chi scrive teme che sia vera la seconda ipotesi.

C’è una diffusa indisponibilità a fare i conti con il male. Ci si protegge piuttosto dentro una paratia morale, in cui la condanna somiglia a una rinuncia. La condanna corale e senz’appello di Barbara Palombelli è indizio di questo fenomeno. Non vale attribuire la sua sproporzione al potere di amplificazione dei social. Che sono un mezzo. Il fatto è che il non sentire ragioni sta diventando un rifiuto a capire, a vedere, a sentire. È un riflesso condizionato dell’emergenza, che pure è reale. Perché quarant’anni fa in Italia si contavano oltre mille omicidi all’anno, e un centinaio erano delitti in famiglia. Oggi il totale non arriva a trecento, ma quelli contro le donne sono quasi la metà. In un clima generale di riduzione della violenza, c’è una violenza che s’è incistata nel cuore di una comunità e che né le pene, né gli allarmi, né le diffide, né i braccialetti elettronici, né le campagne civili riescono a scalfire. Forse è l’ora di chiedersi se c’è qualcosa che non va nel modo di raccontarla. Se il segno così moralmente definito di questa cultura dell’emergenza non scateni l’effetto paradossale renderla invisibile.

Questa domanda interpella i tre linguaggi con cui una democrazia si rappresenta: il politico, il giudiziario e il giornalistico. Il loro racconto muove da diversi punti di osservazione, ma tutti e tre stanno tra due coordinate, che delimitano da estremi opposti il discorso pubblico: la libertà e la morale. Dove l’una prevale, l’altra soggiace. Non è facile trovare il punto di equilibrio in una tensione dialettica tra le due, dove la libertà espressiva coincide con la responsabilità.

Prendiamo la più spinosa delle questioni che il discorso pubblico si pone quando racconta un femminicidio: l’eventuale infedeltà della vittima nella relazione di coppia. Ha un senso indagare e raccontare il tradimento? Nel processo può servire a spiegare, mai a giustificare. Nel giornalismo non c’è alcuna ragione di giustificare, perché non c’è, o non dovrebbe esserci, alcuna sentenza da emettere. E tuttavia il dovere diritto di spiegare può diventare l’involontario presupposto di una condanna morale. Per evitarlo occorrono tutta la cultura, la sensibilità, la misura e il distacco che un racconto così privato richiede. E tuttavia è immaginabile, contestualizzando un delitto, omettere un dettaglio come l’adulterio, quando pure questo è essenziale a spiegare? Potremmo rispondere con una buona dose di ipocrisia che sì, è meglio e giusto sorvolare. Senonché sarebbe la cronaca di questi giorni a smentirci. A Vicenza una ventunenne, moglie e madre di un bimbo di due anni, viene uccisa in casa da un uomo di trentotto, che poi si toglie la vita. Tutti i media, dal Corriere della Sera a Fanpage, non rinunciano a raccontare l’assassino come «quell’amico padovano che frequentava da alcuni mesi e che sarebbe stato geloso di lei», o come «una presenza maschile assidua in quella casa, quando il marito della donna era al lavoro». Questo per dire che il giornalismo tutto, quello sotto accusa e quello che giudica e condanna, non è senza macchia. Ancorché si misura talvolta con problemi complessi, talvolta senza avere competenze adeguate. Come nel caso della cronista che, nell’incipit di una cronaca sul femminicidio di una giovane veronese, la definisce «bella e impossibile», trasformando la frustrazione patologica dell’assassino in una colpa della vittima.  La sua gaffe offre il destro ad altri maestri censori per codificare il modo più ortodosso di raccontare un femminicidio. Così si rispolvera uno di quei decaloghi firmati a Palazzo tra un ministro in vena di protagonismo e sedicenti rappresentanze del giornalismo, in cui si fa divieto di accostare al femminicidio «termini fuorvianti come raptus, follia, gelosia e passione». E, da ultimo, «amore». Tutto ineccepibile o, se si preferisce, politicamente corretto. Ma davvero vogliamo credere, e far credere, che quel luogo di mancanza e di rischio, che è l’amore, stia di qua, e la violenza cieca da un’altra parte? Se le domande equivocabili di Barbara Palombelli fossero solo servite a incrinare questa illusione, non si può che ringraziarla di averle pronunciate… così male.

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Il discorso sul femminicidio a Forum ultima modifica: 2021-12-28T04:33:00+01:00 da GognaBlog

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5 pensieri su “Il discorso sul femminicidio a Forum”

  1. Viviamo  un  -periodo di mezzo- dove qualsiasi atto  od abuso che abbia come ‘oggetto passivo ‘ una donna sara’ ascritto a responsabilita’ totale del maschio per un pre-giudizio che definirei istituzionale. La cautela nell’uso delle parole e’ quindi d’obbligo in specie nel caso di danno estremo come lo e’ una uccisione, la Palombelli ha peccato per eccesso di confidenza ed e’ stata messa in croce . Fosse stata un uomo avrebbe probabilmente  chiuso li’ la sua carriera televisiva , nessuna scusa sarebbe bastata. . Serviranno alcuni ripensamenti giudiziari su gravi casi limite perche’ si arrivi  a cercare la obiettivita’\serenita’  di valutazione , e’ di tutta evidenza  il fatto che oggi , femminicidi evidentemente a parte, una donna che lamenti un abuso da parte di un uomo  e’ del tutto imbattibile in ogni sede. 

  2.  
    IL PERICOLOSO FANATISMO DELLE CAUSE GIUSTE.
     
     
    Una altra caratteristica  che è comprensibile che sia frequente è che la parte debole utilizzi forme di guerra “vigliacca”, come l’imboscata, colpire alle spalle o il terrorismo. Nel caso femminile sono tipici, anche se rari, gli avvelenamenti e le diffamazioni con denunce false, cioè per fatti che invece non sono avvenuti.
     
    Quindi non è il caso di stupirsi se questo possa essere accaduto nei contrasti più o meno passionali fra coniugi, che avranno certamente caratteristiche ricorrenti ma anche i loro aspetti particolari.
     
    La stupidità intollerante di chi non vuole che neanche se ne parli, nel caso del femminismo italiano ha almeno un precedente esemplare: ricordo un movimento teso ad ottenere una legge che proibisse ogni indagine quando una donna denuncia uno stupro e quindi una condanna automatica come conseguenza della denuncia. Fortunatamente, cadde nel dimenticatoio.
     
    Geri

  3.  
    IL PERICOLOSO FANATISMO DELLE CAUSE GIUSTE.
     
    Non basta lo spazio di un commento per scrivere quanti effetti positivi abbia avuto il femminismo, come abbia migliorato il mondo e quanto ancora lo deve migliorare.
    Il pensiero va subito all’Afganistan, all’Iraq con l’Isis e alle eroiche combattenti curde, ma val la pena di meditare su Putin,  Xi  Jinping e altri dittatori, contrastati dalle eroiche Pussy Riot, dalle blogger cinesi che finiscono incarcerate e da altri movimenti femminili come le Femen.
     
    Purtroppo molti movimenti di ribellione a ingiustizie sociali si portano appresso fanatismi, estremismi e semplificazioni manichee: tutto il male da una parte e tutto il bene dall’altra. E’ successo con i movimenti di liberazione contro i colonialismi, contro la schiavitù e con tanti movimenti per la giustizia sociale di stampo socialista e soprattutto comunista.
    segue

  4. Dedicarsi a normare invece che a educare porta a lidi dove gli uomini credono di trovare la ragione e il torto, il bene e il male separati.
    Il rispetto, la pari dignità, la reciprocità non sono presenti nella cultura della conquista, del successo, della mors tua vita mea.
    In quella cultura è presente invece l’alienazione, la frustrazione, la patologia, lo squilibrio. Argomenti segregati dal sociale e dalla politica, lasciati agli specialisti.
    Praticamente si sta andando esattamente nella direzione opposto a quella utile per ridurre l’abuso di violenza.
    Continuate a votare.

  5. Quando una situazione, di qualsiasi tipo, diventa un tabù e la si usa a scopi politici, mediatici e quant’altro, allora bisogna porsi una domanda seria: quanto siamo in grado socialmente di valutare il problema e quanto siamo in grado socialmente di risolverlo?Concordo parecchio con quanto scritto da Barbano che focalizza la questione non tanto sul fatto in se stesso che è ovvio anche per i sassi, sia grave ma ancor di più sulla frase conclusiva:”Ma davvero vogliamo credere, e far credere, che quel luogo di mancanza e di rischio, che è l’amore, stia di qua, e la violenza cieca da un’altra parte? Se le domande equivocabili di Barbara Palombelli fossero solo servite a incrinare questa illusione, non si può che ringraziarla di averle pronunciate… così male.”Ci vorrebbe un libro per descrivere la situazione e non bastano certo poche righe disponibili qui sul blog ma se abbracciamo un’altra situazione consimile che ha fatto da top di gamma per vendere parole e creare discussione: il ddl Zan; allora possiamo comprendere che il problema è culturale e non si combatte con la galera o con le leggi di vario tipo, non è uno spauracchio che limiterà e/o debellerà la situazione.La nostra società è uscita dal binario che doveva condurla verso una raffinazione del concetto di persona, aldilà di ogni genere ed invece sta degradando ed in maniera subdola e viziata, verso l’ancestrale condizione di uso della forza. Perché la forza si può esercirtare in molti modi, non solo usando violenza diretta ma anche stabilendo regole che spazzano la crescita della determinazione nel concetto di essere umano.Si cavalca come sempre l’onda della rabbia per nascondere le briciole sotto al tappeto. Il concetto dovrebbe essere che uccidere una persona è sbagliato ma poi come giustifichiamo le guerre? Come giustifichiamo la pena di morte (non è il caso italiano ma non avrei dubbi a credere che il concetto della pena di morte passerebbe se si spingesse un po’ sul pedale)? E sono solo due argomenti…Capire i motivi è il primo passo verso un cambiamento ma se per fare questo si toglie ai soliti noti la possibiltà di sfruttare la situazione beh… allora non resta che attendere la prossima vittima… 

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